domenica 30 novembre 2008

Riflessioni sul Battesimo

Introduzione. Secondo la dottrina cattolica il battesimo è un sacramento, cioè un segno efficace della grazia che produce esso stesso grazia. Anzi, essendo esso il primo dei sacramenti, anche in senso cronologico, conferisce grazia a chi ancora non la possiede. Il battesimo e la penitenza sono pure chiamati sacramenti dei morti, poiché conferiscono la vita della grazia a quelli che sono spiritualmente morti, nel primo caso perché ancora non la possiedono, nel secondo perché l’hanno perduta con il peccato mortale. È il battesimo che mondando l’uomo da tutti i suoi peccati produce quella nuova nascita, d’acqua e di Spirito, di cui ha detto Gesù parlando a Nicodemo. Da qui il concetto di “rigenerazione battesimale” che rende figli di Dio e segna l’appartenenza alla comunità dei credenti in Cristo, ovvero alla Chiesa cattolica. Il battesimo libera da tutti i peccati personali commessi fino a quel momento, anche da quelli gravi, tanto che il battezzato può accedere alla cresima e alla comunione senza doversi prima confessare. Esso inoltre affranca dal “peccato originale”, quello originato dalla disubbidienza di Adamo ed Eva e passato come colpa all’intera umanità, che si pone di fronte a Dio in condizione di privazione dello stato di grazia. Questo stato di colpevolezza presente sin dalla nascita è una delle ragioni che ha fatto anticipare la somministrazione del battesimo ai primi giorni di vita, ai neonati, per mettere questi “al sicuro” in caso di morte prematura.

Altri cristiani come gli ortodossi e parte degli anglicani e dei luterani, pur senza condividere il dogma del peccato originale, credono nella dottrina della “rigenerazione battesimale” per cui solo passando dal rito del battesimo si diventa nuove creature ed eredi del regno dei cieli. In generale, però, il mondo evangelico non considera in sé il battesimo come una virtù rigenerante bensì solo un segno esteriore che indica nel credente consapevole la rigenerazione come già avvenuta o in corso di attuazione. Per gli evangelici il battesimo è anche una pubblica confessione di fede, la testimonianza di un nuovo vivere in Cristo ed è l’adesione ufficiale alla Chiesa. Non è un sacramento. È una richiesta, un impegno, una promessa, un patto che si contrae volontariamente e pubblicamente con Gesù Cristo dopo averlo conosciuto come proprio Salvatore. Gli evangelici non accettano l’assunto che la persona non battezzata non sia salvata, non perché sottovalutino il rito del battesimo ma perché non ritengono che esso possieda in sé quelle virtù taumaturgiche, quasi “magiche”, che altri vi attribuiscono. Ciò non toglie che pure all’interno del mondo evangelico e riformato non vi siano differenze significative nel modo d’intendere e di somministrare il battesimo, vi sono battisti e pedobattisti, chi lo pratica per immersione e chi per infusione, chi nel nome di Gesù e chi con la formula trinitaria, talvolta ripetendo per tre volte l’atto, e inoltre le chiese con una forte caratterizzazione carismatica pongono l’accento, nel connesso “battesimo dello Spirito”, più sulla manifestazione dei fenomeni appariscenti che sull’azione rigenerante compiuta il più delle volte nella discrezione.


Un po’ di storia

Di fronte a questa marcata differenziazione del rito e del suo significato, che riduce il comune denominatore al solo uso dell’acqua, viene spontaneo chiedersi: ma Paolo non affermava che “vi è un solo battesimo” (Ef 4:5)? E allora? Allora conviene fare un po’ di storia, per cercare di raccapezzarsi in questa sala degli specchi, partendo proprio dallo strumento comune che è l’acqua. Chiesa e battesimo nascono insieme nel giorno della Pentecoste (cf Atti 2:37-41), ma il battesimo non è un’invenzione cristiana e non lo è neppure del Battista; non lo è neppure degli ebrei. Basti pensare alle acque sacre del Gange, dell’Eufrate e del Nilo, strumento di purificazione rituale di diverse religioni. I sacerdoti egizi della dea Iside praticarono il battesimo, dapprima somministrandolo al solo Faraone, poi anche ai dignitari e infine a tutto il popolo. Tutti i culti misterici dell’area mediorientale praticavano il battesimo: quello di Attis in Frigia, quelli di Dioniso e di Demetra in Grecia, ma anche quello di Marduk a Babilonia e di Mitra in Persia. Esso era finalizzato a purificare, a rigenerare e ad assicurare la risurrezione. La formula recitata durante il rito dal sacerdote del dio Attis era: “Tu sei rinato e da questo momento farai parte del mondo degli eletti a cui sono aperte le porte dell'eternità”. Anche tra gli ebrei l’acqua era associata all’azione della purificazione e della rigenerazione (cf Ez 36:24; Zc 13:1). Chi si convertiva alla religione giudaica doveva sottoporsi alla circoncisione e ad un bagno rituale. Il battesimo di Giovanni si richiamava a questo battesimo dei proseliti che consisteva in un’unica immersione completa e comportava degli impegni morali. Esso si richiamava al contempo al rinnovamento del patto che la voce profetica prospettava per gli esuli ebrei che avevano contaminato i loro costumi in terra d’esilio. Gesù si fece battezzare da Giovanni all’inizio del proprio ministero. Durante tale ministero i suoi discepoli battezzavano. Alla fine della sua missione nel mondo egli dispose che il battesimo fosse il rito d’iniziazione ordinario per chi si fosse aggiunto alla comunità cristiana. Il battesimo cristiano si innestò nel segno della continuità su quello di Giovanni ma al contempo rappresentò una novità sostanziale. I due aspetti trovano sintesi nel battesimo di Gesù che diede legittimità alla missione del suo precursore facendosi da lui battezzare e testimoniando al contempo la novità, rappresentata visivamente dallo Spirito che si posa su di lui sotto forma di colomba. Questa novità viene riconosciuta dallo stesso Giovanni quando afferma: “Io vi battezzo soltanto con l'acqua, per spingervi a cambiar vita; ma dopo di me viene uno che vi battezzerà con lo Spirito Santo e con il fuoco” (Mt 3:11). Il battesimo cristiano, all’acqua che testimonia il pentimento, associa la potenza incontenibile dello Spirito che unisce a Cristo il corpo dei credenti ed è al contempo caparra e garanzia di vittoria sul regno del male. Esso fu preannunziato ai discepoli dallo stesso Gesù che prima di salire al cielo raccomandò loro: “Non allontanatevi da Gerusalemme, ma aspettate il dono che il Padre ha promesso e del quale io vi ho parlato. Giovanni infatti ha battezzato con acqua; voi, invece, fra pochi giorni sarete battezzati con lo Spirito Santo” (At 1:4,5). Quest’evento si manifestò da lì a poco, nel giorno della pentecoste, mentre i credenti erano riuniti nella camera alta. Quello stesso giorno “tremila persone si aggiunsero al gruppo dei credenti”, battezzandosi nel nome di Gesù Cristo; ricevendo così il perdono dei peccati e il dono dello Spirito Santo (cf 2:38).

Il Nuovo Testamento ci testimonia di un battesimo impartito nel nome di Gesù, a persone adulte e consenzienti, e per immersione completa nell’acqua, come del resto sottintende il significato della parola greca baptismós che indica la completa immersione in un liquido. Come tutti i riti e le dottrine cristiane anch’esso subì una graduale trasformazione e diversificazione. Una complessificazione, anche. Ippolito di Roma (170-235) ci descrive una liturgia avviata verso una considerevole complicazione delle forme secondo quella tendenza di conformazione al mondo che conduceva ad un arricchimento delle apparenze man mano che s’impoveriva la sostanza della fede. Il battesimo non sfuggì a questa logica. Ippolito descrive come parte del rito il digiuno e la veglia preparatori, seguiti dalla confessione dei peccati. Poi – racconta nel suo libro Tradizione Apostolica – «al canto del gallo gli aspiranti si avvicineranno alle acque, che debbono essere correnti e pure. Il sacerdote prende in disparte ciascuno di quelli che debbono ricevere il battesimo e gli ordina di abiurare, rivolto verso occidente, di­cendo: “Rinunzio a te, Satana, alle tue seduzioni e alle tue opere”. Dopo questa dichiarazione, lo ungerà con l'olio dell'esorcismo e dirà: “Ogni spirito maligno si allontani da te”. L'aspirante scenderà poi nell'acqua e il battez­zante gli imporrà la mano sulla testa, dicendo: “Credi tu in Dio, Padre onnipotente”? E il bat­tezzato risponderà: “Credo”. Allora lo battezzi una prima volta, tenendogli la mano sulla testa. Poi dice: “Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato per opera dello Spirito Santo dalla Vergine Maria, è morto, è stato sepolto, è risu­scitato il terzo giorno, è salito al cielo, è seduto alla destra del Padre e verrà a giudicare i vivi e i morti?” Egli dirà: “Credo”. E lo battezzi una seconda volta. Poi gli chieda di nuovo: “Credi nello Spirito Santo, nella Santa Chiesa e nella resurrezione della carne?” E il battezzato dirà: “Credo”. E lo battezzi una terza volta. Appena risalito, un sacerdote gli darà l'un­zione con l'olio santo, dicendo: “Ti ungo con l'olio santo, in nome di Gesù Cristo”. I battezzati si asciugano, si vestono, poi ri­tornano in Chiesa. Il vescovo, imponendo loro la mano, pronun­zierà l'invocazione: “Signore Dio, tu hai reso degni i tuoi servi di ricevere la remissione dei peccati col bagno di rigenerazione dello Spirito Santo. Manda loro la tua grazia, affinché ti ser­vano secondo la tua volontà. Perché è tua la gloria, Padre, Figlio, con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, adesso e nei secoli dei secoli. Amen”. Prende l'olio santo nella mano e conferisce loro l'unzione sulla testa, dicendo: “Ti ungo con l'olio santo nel Signore, Padre onnipotente, in Cristo Gesù e nello Spirito Santo”. Dopo questa unzione, dà loro un bacio di­cendo: “Il Signore sia con te”. Il battezzato ri­sponde: “E con il tuo spirito”» (Trad. Ap., 21-22, ed. Botte, 49-53). Tertulliano (160-230) descrive il rito più semplice che si svolge a Cartagine. Qui i catecumeni si presentavano all’appuntamento con il battesimo coperti di lunghe vesti bianche, poi si denudavano, si immergevano e, una volta riemersi, venivano anch’essi unti con olio così come usavano fare gli atleti prima delle gare e i gladiatori prima dei combattimenti per rendere più tonica la muscolatura e più difficile la presa dell’avversario. L’olio dei catecumeni, rimasto in uso fino ad oggi, viene dato dopo l’orazione di esorcismo per rendere forti contro le insidie del maligno, l’avversario dell’uomo. Questa complicazione del rito non è scritturale e non è mai stata insegnata né da Cristo né dagli apostoli. È al contempo evidente la tendenza a voler dare al battesimo una valenza sacramentale, riducendolo ad una formula rituale e superstiziosa, attribuendogli persino un valore esorcistico estraneo alla formula originaria. Si è voluto “perfezionare”, senza che fosse richiesto, il potere di rigenerazione di una cerimonia che aveva in origine tutt’altro significato. Tuttavia gli esempi che abbiamo portato descrivono ancora un battesimo impartito per immersione.

I primi scritti cristiani lo descrivono come una cerimonia molto semplice. La Didaché, composta attorno al 150 proprio per istruire i neo-convertiti o catecumeni, insegnava il battesimo con la formula trinitaria e per immersione (“in acqua viva”). In alternativa consentiva la forma per infusione (versamento sul capo) ma solo nelle situazioni in cui non era possibile raccogliere acqua a sufficienza per consentire l’immersione. Ma anche come estrema ratio quest’opzione non trovò affatto il consenso generale dei primi padri. Giustino e, come abbiamo visto, Ippolito e Tertulliano nel descrivere la cerimonia battesimale fanno esclusiva allusione all’immersione, o lavacro, in acqua abbondante. Ancora nel III secolo Cipriano, riferendosi al proprio battesimo, lo definisce “bagno salutare”. La Chiesa greca fino ad oggi conserva l’uso del battesimo per immersione. Sempre Cipriano, vescovo di Cartagine, testimonia nella sua 76ª lettera che molte Chiese consideravano cristiani solo gli immersi; e lui stesso era dell’opinione che gli “innaffiati” possedessero “una dote di Grazia infinitamente minore di quelli che erano stati immersi tre volte nel bagno sacro”. La forma di battesimo per infusione, e poi per aspersione, si diffuse soprattutto nella Chiesa latina. Varie furono le ragioni; la più importante va imputata all’uso di battezzare i bambini che prese piede sul finire del II secolo. Tale prassi trovò la ferma opposizione di alcuni padri. Tertulliano, oltre a sostenere il battesimo per immersione, appoggia l’opinione tradizionale che esso vada somministrato a chi è in grado di esprimere con convinzione la propria volontà di ravvedimento; e raccomanda anzi un periodo di preparazione per i catecumeni. Egli scrive: “È meglio che ognuno ritardi il suo battesimo secondo la sua condizione, disposizione ed età, specialmente i giovani si accostino quando sono arrivati alla maturità, con sufficiente conoscenza, quando sono istruiti sulla ragione del battesimo”. Nonostante l’opposizione, il battesimo degli infanti si diffuse e rapidamente si affermò. Al punto che nei concili che si tennero a Cartagine, tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, non si discusse sulla legittimità di questo battesimo ma sull’opportunità di somministrarlo alla nascita oppure dopo otto giorni, sulla falsariga della circoncisione che gli ebrei praticavano ai loro bambini. La ragione va ricercata nel cambiamento di significato di questo rito. Non a caso nei suddetti concili di Cartagine si discusse pure di peccato originale. Man mano che la cerimonia battesimale andava ritualizzandosi si caricava di significati magico-propiziatori: da segno di rigenerazione divenne essa stessa strumento di rigenerazione. Allora perché negare questa virtù ai fanciulli? Sembra che all’affermazione di quest’usanza che metteva “al sicuro” l’infante non fosse anche estranea la sopravvivenza di antiche superstizioni pagane. Con Costantino, quando la Chiesa divenne un’istituzione dell’impero, il battesimo dei bambini assunse anche una valenza di ordine pubblico: era infatti funzionale al potere che tutti i sudditi fossero inquadrati come “buoni cristiani” già al momento della nascita. Giustiniano lo rese di fatto obbligatorio su tutto l’impero d’oriente e la sua validità fu sancita come istituzione divina dal concilio Laterano IV nel 1215.

L’abbandono del battesimo per immersione da parte della Chiesa latina viene pertanto associato all’affermazione del pedobattismo. Soprattutto nella stagione fredda l’immersione senza le dovute precauzioni era rischiosa per i bambini, oltre che per i vecchi e i malati. Si pensi come il problema dovesse porsi nelle terre settentrionali, nelle Gallie e in Germania, paesi con un clima particolarmente rigido. L’immersione era indubbiamente una pratica scomoda, anche per gli adulti, soprattutto quando i catecumeni da battezzare erano molti. Difficoltà dovettero certamente porsi con le conversioni di massa del IV secolo. Ragioni d’opportunità possono pertanto essere invocate per l’introduzione dell’infusione e dell’aspersione. Ma nonostante l’introduzione di queste forme “comode” di battesimo, quello per immersione ci mise parecchio a sparire anche dalla Chiesa latina. Fino al XII secolo ancora si costruivano battisteri e nelle chiese di rito Ambrosiano, in Lombardia, esso viene tuttora praticato, sebbene ormai limitato all’occipite.

Subito vietato fu invece il ribattesimo. Non era permesso rinnegare il battesimo impartito dalla Chiesa ufficiale, riconosciuta dallo Stato, e quindi amministrarlo una seconda volta come ad esempio facevano gli scismatici donatisti. Quest’azione era infatti considerata estremamente provocatoria, una vera insubordinazione contro l’autorità civile, prima ancora che religiosa. La ragione l’abbiamo già detta: la religione ufficiale era per lo Stato uno strumento di potere e di controllo sociale. Infatti gl’imperatori Onorio e Teodosio nel 413 emanarono norme severe contro la pratica del ribattesimo e nel 529 Giustiniano decretò per questo “reato” la pena capitale. Questi provvedimenti costrinsero molti a cercare rifugio in luoghi isolati come, ad esempio, le valli alpine. Il cardinale Osio, legato pontificio al Concilio di Trento, indicò nei Valdesi delle valli piemontesi antiche comunità eretiche che fino a poco tempo prima “praticavano ancora il secondo battesimo”. Ciò non deve sorprendere perché le comunità montane, come tutti i luoghi protetti dal loro isolamento, costituiscono una terra naturale di rifugio per i perseguitati e al contempo conservano più a lungo le tradizioni, anche religiose. I Valdesi, per dissimulare la loro reale identità religiosa, battezzavano i loro piccoli nelle pievi cattoliche e poi, da adulti, si facevano ribattezzare dai loro ministri perché non attribuivano al primo battesimo alcun valore. Dalla loro area culturale sorsero due movimenti di riforma fortemente critici, tra l’altro, verso il battesimo dei bambini e la dottrina del peccato originale. Furono i movimenti guidati da Pietro di Bruys e da Enrico di Losanna che rappresentarono una vera anticipazione del pensiero protestante che sarebbe esploso qualche secolo più tardi, soprattutto di quel ramo conosciuto come anabattista. L’anabattismo (dal greco αναβάπτιζειν/anabaptizein: battezzare di nuovo) fu un movimento sorto nell’ambito della Riforma luterana, nella Germania del sud, e soprattutto zwingliana, nel Cantone di Zurigo, ma anche in Olanda (mennoniti), noto per la sua posizione fortemente critica nei confronti del battesimo dei bambini e della collusione tra il potere ecclesiastico e quello civile, fattori peraltro considerati tra loro collegati. Gli anabattisti attribuivano il declino e la degenerazione della Chiesa al patto scellerato con gli imperatori Costantino e Teodosio e al fatto che il cristianesimo di Roma fosse stato proclamato ufficialmente l’unica religione dell’impero. Nel battesimo dei bambini essi vedevano il segno emblematico di questo connubio che costringeva gli individui ad essere cristiani non per un impegno di fede ma per essere inquadrati in un sistema di potere. Essi accusavano le nascenti Chiese protestanti di stringere relazioni malsane con il potere politico e di ripetere pertanto lo stesso errore compiuto a suo tempo dalla chiesa di Roma. Una delle prove di questo connubio malsano stava nel fatto che i grandi riformatori approvavano tutti il battesimo dei bambini dimostrando così di persistere in questa logica di potere e di controllo sociale. Proprio quei riformatori che si appellavano alla Sola Scriptura come elemento caratterizzante rispetto al cattolicesimo sembravano ignorare che il battesimo degli infanti non solo non è mai menzionato nelle scritture neotestamentarie ma va contro il loro dettato, che prevede nel battezzando una disposizione al cambiamento e quindi un preciso atto di volontà che un neonato non può esprimere. Di conseguenza gli anabattisti che erano stati battezzati da bambini, considerando invalido quell’atto, si facevano ribattezzare da adulti, ovviamente per immersione. La reazione della Chiesa cattolica e delle Chiese protestanti emergenti dimostrò che l’accusa loro rivolta non era infondata poiché esse si appellarono proprio a quella legge di Giustiniano che prevedeva la pena di morte per chi ripeteva il battesimo. Sulla base di quell’antico decreto la Seconda Dieta di Spira, nel 1529, ordinò che “tutti, ribattezzati e ribattezzatori, uomini e donne all'età della ragione, fossero giudicati e mandati a morte senza regolare inchiesta da parte dei giudici spirituali". Così accadde che molti cristiani riformati pagarono con la vita, non solo per mano dei cattolici ma anche di altri cristiani riformati, la loro fedeltà al comandamento di Gesù (“chi avrà creduto e sarà stato battezzato…” Mc 16:16) e alla prassi della chiesa apostolica. Ironia della sorte volle che quella Chiesa valdese che battezzava o ribattezzava gli adulti, offrendo esempio e spunto di riflessione per il movimento anabattista, nel 1532 adottò le Ordonnances ecclesiastiche dei ginevrini che tanto aiuto le avevano offerto nei momenti più difficili della persecuzione papale. Così di fatto essa confluì nel calvinismo che ha tra le sue dottrine anche il battesimo dei bambini, sebbene, bisogna aggiungere, all’interno di quella chiesa su quest’argomento ci sia oggi dibattito. Ma torniamo agli anabattisti che, a causa delle persecuzioni, trovarono alcuni rifugio temporaneo in Europa orientale ma soprattutto finirono per stabilirsi nel continente americano dove fondarono colonie agricole note per i loro costumi austeri e talvolta per il rifiuto delle innovazioni tecnologiche. Hutteriti, mennoniti e amish sono i diretti discendenti del movimento anabattista. Anche le chiese battiste derivano dagli anabattisti, sebbene in modo indiretto. Oltre a questi, molte altre chiese nell’ambito protestante praticano il battesimo degli adulti per immersione; tra loro citiamo gli avventisti, le chiese di Cristo e i pentecostali. Al contrario, come si è detto, le chiese che praticano il battesimo dei fanciulli, di regola per infusione, sono le chiese storiche nazionali: luteranesimo, calvinismo e anglicanesimo. Ecco, se vogliamo trovare una linea di estrema sintesi, potremmo dire che le chiese sorte avendo ben chiara la necessità di mantenere la separazione dallo Stato e dal potere civile hanno generalmente mantenuto o adottato il battesimo degli adulti conservando la forma dell’immersione. Al contrario, le chiese divenute col tempo chiese di Stato sono passate al battesimo dei bambini; così han fatto la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse; o lo hanno mantenuto, come è stato per le Chiese nazionali nate dalla Riforma. Le chiese che praticano il battesimo dei bambini generalmente adottano la forma per infusione o aspersione. Fa eccezione la Chiesa ortodossa che per lungo tempo è stata solo chiesa di lingua greca e che quindi aveva ben presente il significato del verbo greco baptízein. Come dire lapalissianamente che poteva immergere (battezzare) solo per immersione.


Nel segno della continuità

Dicevamo che il battesimo era utilizzato da molte religioni non solo come rito di purificazione ma anche di rigenerazione e di iniziazione. Abbiamo portato ad esempio la formula che accompagnava la cerimonia battesimale presso i credenti nel dio Attis: “Tu sei rinato e da questo momento farai parte del mondo degli eletti a cui sono aperte le porte dell'eternità”. Per inciso l’idea di rinascita implicita in quel rito era tale che i novizi di Attis erano sottoposti ad un rituale di seppellimento in una fossa in terra seguito dal disseppellimento. L’apostolo Paolo, che aveva profondamente meditato sulla teologia del battesimo, ci trasmette l’insegnamento che anche nel rito cristiano è racchiusa l’immagine della sepoltura (l’immersione nell’acqua) e della risurrezione (l’uscita dall’acqua) in Cristo che per il credente inizia nel momento in cui si unisce a Cristo (cf Rm 6:3-6; Col 2:12) primizia di risurrezione. Ma dicevamo che pure gli ebrei prevedevano (e prevedono tutt’oggi) un battesimo dei proseliti che si convertono alla loro fede, un battesimo che implica al contempo purificazione, rigenerazione e affiliazione, che in fondo ha così tanto in comune con il battesimo di Giovanni e con quello cristiano. Forse è proprio su questa comunanza che sarebbe opportuno riflettere. Possiamo parlare di un comune battesimo biblico o, almeno, di una comune simbologia dell’acqua che attraversi la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse? Ammettiamolo pure che, condizionati dalla casistica elencata nel codice cerimoniale ebraico, ci vien più facile associare l’uso rituale dell’acqua presso gli antichi ebrei con la sola idea della purificazione! Siamo condizionati a vedere nell’abluzione la pulizia dell’impurità rituale, il lavaggio della colpa. Questa visione è però parziale e contribuisce a rendere distanti l’Antico Patto dal Nuovo più di quanto lo siano in realtà. Non dimentichiamo che il Battista, per stessa affermazione di Gesù, è stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento! Ma tale visione parziale contribuisce al contempo a non capire sino in fondo i molteplici significati del battesimo cristiano. C’è un bell’articolo della psicoterapeuta Mirjam Viterbi, studiosa dell’inconscio collettivo ebraico, proprio sul simbolismo dell’acqua nella religione ebraica. Prendendo spunto dall’uso del mikvè, una sorta di battistero ante litteram usato ancora oggi dai fedeli di religione israelita per i bagni rituali, la Viterbi fa notare che tali bagni assumevano talvolta un significato che trascendeva la semplice pulizia dell’impurità rituale; e in tal caso essi consistevano sempre in una immersione completa; lo si evince dalla Torà orale, anche quando quella scritta parla di abluzioni. Ella porta l’esempio del lavacro cui dovette sottoporsi l’intero popolo d’Israele prima di ricevere le tavole della legge, ma anche del lavacro che consacrò Aronne, e i suoi figli, sacerdoti del Tabernacolo che custodiva quelle tavole. In quei casi non si trattò di semplici atti purificatori ma anche di profonda trasformazione: fu l’incontro con la Torà, l’ingresso nel patto fra Dio e Israele. Da allora i proseliti che volevano entrare in quel patto dovevano anch’essi passare per il lavacro completo dell’acqua: "Non appena il converso si immerge ed emerge, egli è sotto ogni aspetto un ebreo", recita il Talmud.

A questo punto Viterbi passa ad analizzare il significato dell’acqua, e si chiede perché essa abbia un potere simbolico così intenso, e vi sia connessa tanta sacralità. Perciò prende in considerazione alcune interpretazioni tradizionali a cominciare da quella che vede nel mikvè, la vasca del lavacro rituale, la rappresentazione del grembo materno. “Come un giorno la terra emerse dalle acque per l’opera creatrice di Dio, e come ogni bambino esce dalle acque amniotiche per vedere la luce, così l’emersione, che segue ad un’immersione nel mikvè, ripete simbolicamente ogni volta un processo di rinascita”. Su questa immagine il simbolismo si arricchisce di analogie che fanno del lavacro la metafora della vita che prima di rinascere muore. A tal proposito è interessante notare che nel Talmud il grembo viene talvolta chiamato kéver, una parola che in realtà significa tomba. Cosa può accomunare il grembo alla tomba? La speranza nella rinascita. Se, in senso metaforico, il grembo è luogo di rinascita allora esso può coincidere con la tomba perché per rinascere è prima necessario morire. Inoltre, nel momento in cui è immerso nell’acqua rituale, l’uomo non può respirare. Nella concezione ebraica il respiro è profondamente connesso alla vita, al punto che il vivente è chiamato nephesh, cioè respirante. Nell’immersione totale pertanto l’uomo dovrà trattenere il respiro e quindi in quel momento, simbolicamente, egli sospende la propria vita e si pone in uno stato di morte.

Altra riflessione che si riallaccia al Talmud parte dalla considerazione che tutta l’acqua del mondo trae le sue origini dai quattro fiumi dell’Eden che ancora oggi esistono, sono parte di quella creazione originaria, e sono anche l’unico collegamento rimasto tra il nostro mondo e quel mondo creato buono. L’immersione in acqua porrebbe pertanto nuovamente in rapporto con la creazione originaria. Collegherebbe, cioè, la rinascita con la prima opera creativa di Dio quando ancora non era stata guastata dal male.

Ma l’acqua, in realtà, precede persino l’opera della settimana creativa. La troviamo addirittura in un rapporto primordiale con Dio. Appare subito, nel secondo versetto della Bibbia, insieme allo Spirito divino: “La terra era informe e vuota e lo Spirito di Dio si librava sulla superficie delle acque”. Il testo biblico parla di acque, al plurale, perché il primo atto creativo consistette nella separazione di questa massa liquida in due parti, quella di sotto e quella di sopra, per mezzo di una distesa che venne chiamata cielo. L’indomani, dalle acque sotto il cielo Dio trasse la terra e i mari, mentre delle acque sopra il cielo non se ne parla più. Queste facevano parte della visione cosmologica del tempo, ma il fatto che non vengano più citate suggerisce che si volesse lasciare nel mistero ciò che sta al di là del nostro cielo visibile. Rimane tuttavia questa complementarità tra le due parti che un tempo costituivano un’unica massa e di cui l’una è il riflesso dell’altra. E rimane la testimonianza che all’inizio dei tempi lo Spirito di Dio aleggiò su tutte le acque e per questo – osserva Mirjam Viterbi – vi fu la creazione. “Perché le acque al di sopra e quelle al di sotto, allora, furono insieme. E forse, con il rituale della immersione nell’acqua - se profondamente ed interamente vissuto - noi provochiamo una risposta, stabiliamo un contatto, creiamo una compartecipazione nelle sfere superiori, quasi un chiamarsi ed un rispondersi fra questo mondo in cui noi viviamo e che è fatto di terra ma anche di cielo ed un altro mondo che è solo Regno di Dio: le acque di sopra e quelle di sotto si uniscono allora di nuovo e questo è ciò che conduce ad una nuova creazione, che è la nostra rinascita”.

Rinascita che come abbiamo visto passa per l’esperienza della morte. L’acqua presenta entrambe le valenze: disseta, pulisce e consente la vita, ma può anche causare la morte di chi vi cade dentro o finisce tra i suoi flutti. I riti di rinascita utilizzano questo duplice significato simbolico attraverso l’atto dell’immersione seguito dall’emersione che raffigurano la morte del vecchio uomo e la rinascita del nuovo. È interessante notare come il simbolismo del rito ricalchi il linguaggio dei sogni che poi è il linguaggio disinibito ma anch’esso simbolizzato della psiche umana, dei suoi processi logici. Le prescrizioni rituali bibliche sembrano assecondare i processi mentali in funzione pedagogica. Ciò vale anche per l’uso rituale dell’acqua. “L’acqua – afferma Viterbi – è forse il più frequente, il più universale fra tutti i simboli dell’inconscio collettivo, e può apparire in una gamma infinita di situazioni oniriche”. Situazioni che la simbologia biblica può aiutare ad interpretare.

I sogni di immersione totale nell’acqua viva, come nel mare o in una sorgente, avvengono sempre in un momento di possibile, radicale trasformazione dell’individuo. Indicano una situazione di movimento anche e soprattutto spirituale. Un fatto reale narrato nella Bibbia descrive bene quest’esperienza di cambiamento che si sarebbe benissimo potuta esprimere in un sogno dominato dal simbolismo delle acque e che la provvidenza ha voluto si traducesse in una situazione ove l’acqua non si limitò alla sola valenza simbolica. È la vicenda di rinascita spirituale del profeta Giona avvenuta nella profondità degli abissi marini e che è paradigmatica del percorso di maturazione e di conversione umana. Gettato tra i flutti e inghiottito dal mare in tempesta egli morì a se stesso: “Mi gettasti nella voragine, nel cuore dei mari, fiumane mi circondarono, tutti i Tuoi flutti e le Tue onde passarono su di me... Le acque mi circondarono fino a morirne, l’abisso mi accerchiò" (Giona 2:4,6). Quindi egli rinsavì, invocò il Signore e fu tratto fuori dalle acque.

Il percorso umano simbolizzato dall’immersione è altrettanto importante del successivo, quello dell’emersione. È il cimento con l’acqua che rappresenta le prove della vita; un’acqua spesso tutt’altro che calma. È il confronto con l’elemento furioso e terrificante, da cui si può essere sopraffatti o si può uscirne vivi, sebbene comunque segnati. La ricreazione, come la creazione, parte dall’abisso, dall’esperienza del caos, e prosegue con l’esperienza del diluvio che è vicenda di distruzione ma anche di sopravvivenza, di premessa per un nuovo inizio. La ricreazione, intesa come rinascita, è anche l’esperienza del viaggio tra le acque del mare, che talvolta è calmo e tal’altra è tempestoso; è l’impresa più densa d’incognite perché le variabili sono tante, imprevedibili e soverchianti, a cominciare dal vento che impone la direzione e a cui ci si affida. Se poi si considera che vento e Spirito nel linguaggio biblico sono la stessa parola, la metafora della vita c’è tutta e si spiega da sé.

Viterbi conclude la sua analisi con alcune considerazioni. Quando il rito viene vissuto in modo meccanico, o ci si allontana da esso, l’anima sceglie una sua via per farlo rivivere, anche attraverso la rappresentazione onirica, proprio per questo parallelismo tra i simboli del rito e quelli prodotti dalla psiche, come tappe del cammino individuale. Nel caso specifico dell’immersione, essa dev’essere lasciata alle circostanze interiori. Non ha senso programmarla o sincronizzarla con eventi e circostanze esterne. Quando il tempo è maturo e lo Spirito chiama ebbene quella è l’ora. “E quel momento non fa più parte del tempo, ma si unisce a Colui che è al di là del tempo, al di sopra della distesa formatasi fra le acque nel giorno della Creazione” (M. Viterbi, Mikvè: la simbolica dell’acqua, Morashà/Orot 4). Per noi cristiani è anche logico collegare quel momento fuori dal nostro tempo con l’immagine del popolo redento che l’Apocalisse colloca su un mare che ha perso la sua furia, un mare di vetro, forse quelle acque “di sopra” perdute nel racconto della creazione ed evocate dal “bagno salutare” del battesimo.

Tenere presente il simbolismo dell’acqua presso gli ebrei significa innanzi tutto comprendere meglio i fatti e i pensieri sul tema riportatici nel Nuovo Testamento. Pensiamo al colloquio tra Gesù e Nicodemo ove ritroviamo insieme all’acqua diverse immagini appena descritte: la rinascita associata al grembo materno o l’azione dello Spirito comparata a quella del vento che “soffia dove vuole”, che opera cioè in modo efficace ma autonomo e misterioso. E si comprende meglio il benevolo rimprovero di Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non capisci queste cose?” (Gv 3:10). O pensiamo, ancora, al paragone che Pietro fa tra il battesimo e le acque del diluvio (1Pt 3:20). Ma significa anche contestualizzare il simbolismo del battesimo senza dover neppure incomodare le analogie con i culti pagani, che pur ci sono, perché il contesto culturale ebraico già ne spiega pienamente oltre che i significati anche le esigenze della forma. E, infine, il leitmotiv dell’immersione ci ricorda che il battesimo cristiano non è la novità ma è la rivelazione che si fa piena, com’è in genere del NT rispetto al Vecchio. È la realizzazione della promessa fatta attraverso il profeta Ezechiele: “Verserò su di voi acqua pura… vi darò un cuore nuovo… Metterò dentro di voi il mio Spirito e vi renderò capaci di ubbidire ai miei ordini, di osservare e di applicare le leggi che vi ho dato” (Ez 36:25-27). I primi padri della Chiesa, soprattutto quelli familiari alla cultura ebraica, avevano ben presente tutto questo.


Graduale perdita di significato

Il battesimo cristiano nasce, quindi, avendo ben chiari i significati che gli giungono dal contesto culturale e dalle specifiche caratteristiche preannunciate da Giovanni e confermate da Gesù. La struttura stratificata del simbolo consente di scorgervi tre precisi significati:

1. Lavacro della colpa individuale che testimonia l’evento del ravvedimento;
2. L’immersione e l’emersione come simbolo della tomba e della risurrezione; il battezzato viene unito e assimilato all’esperienza di Cristo;
3. Il battezzato viene segnato con il sigillo dello Spirito Santo.

Col tempo questa struttura simbolica passò per un percorso di snaturamento. Il secondo significato quasi andò perduto insieme all’abbandono della forma per immersione. Al contempo il primo e il terzo punto si caricarono di contenuti che alterarono il senso del rito; il lavaggio di ravvedimento divenne lavaggio del peccato originale e il sigillo dello Spirito divenne formula esorcistica. Nel suo complesso il battesimo attenuò i suoi significati simbolici e si trasformò esso stesso in strumento di salvezza. L’agnostico Francesco D’Alpa spiega bene e con poche parole questo processo: «Il concetto di seppellimento passò nel cristianesimo, come dimostra l’etimologia stessa della parola battesimo, che in greco vuol dire "inabissare", "annegare", ma anche "tuffare nell’acqua per poi ritirare fuori". Ma nella tradizione cattolica, questo uso esclusivo del battesimo, quale rito di introduzione degli adulti nella comunità dei fedeli, durò pochi secoli. Due fatti contraddistinguono il passaggio dalla forma antica a quella moderna del battesimo: la sostituzione (forse intorno al XII-XIII secolo) della immersione con l’aspersione, cioè il contatto dell’acqua solo con una ristretta parte del corpo, e la sostituzione del significato originale iniziatico con quello attuale di purificazione dal peccato originale. A ciò si aggiunse l’uso del battesimo già sui bambini, fin dalla più tenera età. In tal modo, l’originario concetto spiritualistico cristiano del simbolo veniva trasformato in concetto formalistico pagano di mezzo di salvezza. Da qui il palese raccordo fra il dogma del peccato originale e le regole superstiziose del rito, abbassato ad atto magico e senza più alcuna connessione con il senso evangelico» (F. D’Alpa, Dogmi, magia, superstizione, L’Ateo n.33)..

Questo processo di alterazione del rito, con il relativo snaturamento di senso, è ben noto agli studiosi cattolici ed è oggetto di confronto anche esterno all’ambito accademico. Ad esempio nel 2003 la Diocesi di Brescia ha promosso un dibattito sul tema del ripensamento dell’iniziazione cristiana. Come traccia di lavoro venne stilato un excursus storico a firma di don Marco Busca, insegnante presso il locale seminario. Dal documento, questo processo degenerativo emerge in maniera chiara. Tra l’altro vi si sottolinea «il passaggio sempre più generalizzato (nei secc. XIII-XIV) dal battesimo per “immersione” al battesimo per “infusione”, con una forte attenuazione della valenza simbolica pasquale (cf. Rm 6) a vantaggio di una visione del battesimo incentrata sull’elemento “purificazione”. Oltre a questo risulta problematico anche l’accumulo di preghiere di esorcismo (gli scrutini), che sbilanciano il rito battesimale in senso demonologico. Vi soggiace una teologia prevalentemente “negativo-purificativa” [battesimo come purificazione e come remissione dei peccati] e incline a una certa enfatizzazione dell’azione diabolica nel bambino appena nato, a tal punto che non risulta chiaro il confine tra il legame del bambino con l’eredità del peccato e la possessione diabolica. I cenni riguardanti la novità di vita del battezzato [il battezzato come templum Dei e locum Spiritus sancti], pure presenti, non emergono con grande evidenza… La pratica del battesimo dei bambini depotenzia inevitabilmente il significato di un catecumenato. L’accento va a porsi sulla dimensione rituale, l’unica praticabile con un infante, a differenza della dimensione catechistica e di quella ascetico-penitenziale, che perdono il loro senso… il momento del rito del battesimo non è pensato dentro un itinerario catechetico-liturgico di preparazione per cui si perde il nesso del momento sacramentale con l’insieme della vita cristiana, di cui il catecumenato era un apprendistato per il catecumeno, accompagnato dalla comunità. Ciò indurrà a pensare al battesimo come all’amministrazione della grazia distribuita dai ministri della Chiesa con un atto puntuale, isolato, senza il collegamento immediato con la ricchezza della vita cristiana di cui sigilla l’inizio».


Pietre che parlano

Amministrandosi nei primi secoli il battesimo per immersione, venne presto sentita l’esigenza di accedere agevolmente a bacini che contenessero acqua sufficiente per compiere il rito. Quando non vi era la possibilità di usufruire di acque naturali, come in riva al mare e ai laghi o nei fiumi, perché le distanze o semplicemente la stagione avversa non lo permettevano, bisognava trovare soluzioni alternative. Ma fu a partire dal IV secolo che, soprattutto nei centri urbani, si cominciò a costruire edifici adibiti specificamente per l’uso battesimale. Furono inizialmente semplici piscine coperte che presto lasciarono il posto a suggestive costruzioni ricche di significato simbolico. Erano sorti così i battisteri. Ogni chiesa importante ebbe il suo. In Italia i più noti sono quello di San Giovanni in Laterano, fatto erigere da Costantino; quello di S. Giovanni in Fonte a Ravenna e il battistero di San Giovanni a Firenze (ove fu battezzato Dante), ricostruito nel 1509 sull’impianto originario risalente al V secolo. L’edificio era in genere costruito su pianta ottagonale e conteneva al suo interno una grande vasca battesimale, in prevalenza anch’essa ottagonale. La vasca era affossata nel terreno, come a richiamare l’immagine del sepolcro; la stessa architettura dell’edificio, così simile ai mausolei imperiali, secondo alcuni ricorderebbe di proposito l’aspetto sepolcrale. La forma ottagonale, invece, alludeva all’ottavo giorno della settimana, quello della risurrezione di Cristo. Il battistero era quindi il luogo dove il catecumeno, attraverso l’immersione, moriva con Cristo e in lui risuscitava. Non in modo uniforme, tra il X e il XV secolo, il battesimo per immersione cadde in disuso a favore di quello per infusione. Così si smise di costruire battisteri. Quelli esistenti vennero demoliti oppure modificati; la grande vasca venne coperta e al suo posto fu collocato il fonte battesimale. Al XIV secolo risalgono gli ultimi affreschi che riproducono il battesimo di Gesù per immersione, come quelli dipinti nella chiesa di S. Giorgio in Zandobbio e nella chiesa del Corpus Domini di Pagliaro in Val Serina. Da allora in poi si vedrà sempre Giovanni con una ciotola in mano versare acqua sul capo di Gesù. Interessante osservare come anche nei film e negli sceneggiati sulla vita di Cristo il battesimo di Gesù sia impartito per infusione nonostante queste produzioni si avvalgano della consulenza di teologi cattolici e protestanti. Un vero falso storico; un mentire sapendo di mentire. Ma molti battisteri sono ancora tra noi, muti testimoni di un rituale che può essere dismesso ma non può essere negato.


Il negazionismo protestante

C’è da dire però che i cattolici bene informati non negano né la realtà né la validità del battesimo per immersione. Anzi, neppure il significato connesso all’etimologia e al simbolismo dell’immersione. Tutto questo è ben definito nel Catechismo ufficiale della Chiesa Cattolica. Leggiamo infatti nella proposizione n. 1214: «Lo si chiama Battesimo dal rito centrale con il quale è compiuto: battezzare (“baptizein” in greco) significa "tuffare", "immergere"; l' "immersione" nell'acqua è simbolo del seppellimento del catecumeno nella morte di Cristo, dalla quale risorge con lui, [Cf Rm 6,3-4; Col 2,12 ] quale "nuova creatura" (2Co 5,17; Ga 6,15)». Più chiaro di così! D’altronde le chiese cattoliche di rito orientale battezzano per immersione, e ci sono comunità cattoliche di rito latino che danno la possibilità di scegliere tra la forma per immersione e quella per infusione. E non è finita: sempre il Catechismo, alla proposizione 1239, afferma che “il Battesimo viene compiuto nel modo più espressivo per mezzo della triplice immersione nell’acqua battesimale”. Il modo più espressivo è l’immersione! Ipse dixit. Ma poi, subito dopo, afferma: “Ma fin dall’antichità può anche essere conferito versando per tre volte l’acqua sul capo del candidato”. Cioè può anche essere usata una modalità “meno espressiva” perché lo consente la solita tradizione. Tradizione successiva ai tempi apostolici, comunque, perché al tempo degli apostoli si battezzava solo per immersione. E qui sta il punto debole della posizione cattolica: quella che, nonostante tutte le ragioni: storiche, esegetiche, simboliche, logiche, lessicali, ragioni che lei stessa dichiara corrette, la Chiesa cattolica sulle dottrine decide di fare come vuole così come la Cina confina con chi le pare. Tibet insegna.

Ma abbiamo visto che anche alcune chiese protestanti, in particolare quelle istituzionali, battezzano per infusione. Ed esse per giustificare tale scelta non possono appellarsi al magistero petrino. Anzi, per definizione, esse dovrebbero appellarsi alla Sola Scriptura. Che fare allora per continuare ad ostinarsi su una posizione biblicamente indifendibile? Fanno come nonno Rosenstein, del romanzo di Marco Bosonetto. Sopravvissuto ad Auschwitz e non sopportando più l’orribile peso dei ricordi, questi decide d’ingannare la memoria negando la verità dell’Olocausto. Una verità sostenuta da documenti incontrovertibili e dalle testimonianze dei sopravvissuti. E così anch’esse, contro ogni evidenza, negano tutto. «Il battesimo fu sempre per aspersione o versamento – scrive il pastore riformato Robert C. Harbach, morto nel 1996 –. I "vari battesimi" dell’antico patto furono sempre effettuati con acqua, non in acqua, perché l’acqua era aspersa o versata sul corpo, e mai invece il corpo immerso nell’acqua. Il nuovo patto, non conosce niente di diverso, e possiede la reale purificazione dal peccato nel sangue dell’Agnello (Ebrei 10:22; 12:24) rappresentata nel battesimo per aspersione». Affermazione, dopo tutto quel che abbiamo esposto, completamente fuori dal piano di realtà. La polemica è particolarmente accesa con le Chiese battiste che su quest’argomento sono alquanto sensibili. “I battisti non solo affermano che la modalità più appropriata per l'amministrazione del battesimo sia l'immersione, ma sostengono persino che l'immersione appartenga alla natura stessa del battesimo. Il battesimo amministrato in qualsiasi altro modo non sarebbe battesimo. Essi sostengono che l'idea fondamentale del battesimo consista nell'essere sepolti e nel risorgere con Cristo (Ro 6:3-6; Cl. 2:12), e che questo sia rappresentato simbolicamente solo dall'immersione. La Scrittura, però, rappresenta chiaramente, come quella essenziale, nel simbolismo del battesimo, l'idea di purificazione”, afferma il teologo riformato olandese Louis Berkhof. La stessa “parola baptizo usata da Gesù – egli sostiene – non significa necessariamente immersione, ma può significare pure purificare lavando… Di conseguenza la modalità con la quale avviene il battesimo è del tutto indifferente: può essere amministrato per immersione, ma pure versando o spruzzando l'acqua”. “Baptizein non significa necessariamente immergere”, gli fa eco Angus Stewart, pastore della Covenant Protestant Reformed Church. E comunque “la parola immersione non ci dice niente riguardo alla sua rimozione dal fluido. Difatti nella letteratura greca una persona battezzata in acqua è spesso una che vi è annegata”. I battisti, servendosi del simbolismo di Colossesi e Romani, argomentano che nell’immersione/emersione vi sia un’allusione al seppellimento e alla risurrezione di Gesù, e al nostro parteciparvi. “Ciò che sorprende è che ci sono così tanti non immersionisti che pensano che questo testo supporti la teoria che baptizein significhi "immergere”. E poi, sostiene Stewart, “Cristo non fu seppellito nella stessa maniera in cui lo sono le persone oggi, cioè essendo posto in una fossa nella terra. Egli fu posto in una tomba scavata in una roccia (Matteo 27:60). Ciò soltanto è abbastanza per demolire per sempre la teoria battista. Un battista sommerso in acqua non può simbolizzare il seppellimento di Gesù se il corpo di Cristo non discese fisicamente nel Suo seppellimento. Inoltre, che senso ha usare acqua pura? Come può questa simbolizzare l’elemento in cui un corpo morto è seppellito? Sicuramente una soluzione di sabbia o di acqua sporca sarebbe più appropriata”. Come rispondere ad argomenti di questo tenore, palesemente infondati e pretestuosi? Forse con la celebre frase di Ovidio: “Una causa cattiva peggiora col volerla difendere”.


Il Battesimo dello Spirito

Karl Barth ritiene che l’impresa di Dio a sostegno della vita cristiana possa riassumersi in due azioni concrete: la risurrezione di Gesù e l’opera dello Spirito Santo. La prima, che Barth definisce l’azione di Dio dall’alto, ha una valenza universale in quanto rivela l’evento di Gesù che rende disponibile la salvezza a tutta l’umanità. L’azione dello Spirito Santo (che egli definisce l’azione di Dio dal basso) ha invece una valenza particolare, in quanto agisce sul singolo individuo per accendere in lui la fede e convertirlo a Cristo. È quest’azione a favore dei singoli, che penetra nella loro vita e trasforma le loro coscienze, che egli afferma essere il battesimo dello Spirito. Tale battesimo, che è opera e dono esclusivamente divini, accompagna e al contempo si distingue dal battesimo d’acqua perché l’uno è conseguenza dell’altro. Non può esservi un sincero battesimo d’acqua se prima lo Spirito non ha operato nel cuore. Per cui il battesimo dello Spirito precede il battesimo d’acqua.

Questa verità si rese evidente in occasione della conversione di Cornelio e della sua casa. Erano i primi pagani a convertirsi e la Chiesa, fatta ancora tutta di giudei, non concepiva l’idea che si potesse essere cristiani senza appartenere alla religione israelita. Fu necessario quindi che si manifestassero su questa famiglia con evidenza i doni dello Spirito per superare le resistenze di Pietro a battezzarli con l’acqua. Ecco come l’apostolo racconta quell’episodio: «Mentre incominciavo a parlare, lo Spirito Santo scese sopra di loro, come in principio era sceso su di noi. Allora mi ricordai di quello che il Signore ci aveva detto: Giovanni ha battezzato con acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo. Dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che ha dato a noi, quando abbiamo creduto nel Signore Gesù Cristo: e io chi ero da potermi opporre a Dio?» (At 11:15-17). Anche nella conversione di Paolo, il persecutore dei cristiani, lo Spirito operò con potenza di segni visibili prima del suo battesimo d’acqua. Di norma, però, i segni visibili accompagnavano o seguivano il battesimo d’acqua. Tuttavia va chiarito che il battesimo dello Spirito non è determinato dai segni visibili: questi possono accompagnarlo, seguirlo o anche non manifestarsi affatto. L’unico segno sempre indicativo di quest’azione soprannaturale è la conversione. Quando infatti Gesù promise lo Spirito Santo ai discepoli, dichiarò suo compito essere quello di convincere “il mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio”, di consolare e sostenere i seguaci di Cristo, di ammaestrarli in ogni verità e di illuminarli sugli eventi futuri (cf Gv 14:16,17; 15:26: 16:7-15). Gli strumenti per conseguire tali obiettivi Egli li decide di volta in volta sulla base dell’opportunità e della necessità. Per confermare la Chiesa nascente, di fronte al compito immane e agli ostacoli incontrati, fu necessario rendere esplicita quest’azione soprannaturale. Avverrà così di nuovo in prossimità del ritorno di Cristo quando il mondo sarà chiamato a schierarsi per lui o contro di lui. Allora a maggior ragione si realizzerà “quello che Dio aveva annunziato per mezzo del profeta Gioele. Ecco - dice Dio - ciò che accadrà negli ultimi giorni: manderò il mio Spirito su tutti gli uomini: i vostri figli e le vostre figlie saranno profeti, i vostri giovani avranno visioni, i vostri anziani avranno sogni. Su tutti quelli che mi servono, uomini e donne, in quei giorni io manderò il mio Spirito ed essi parleranno come profeti. Farò cose straordinarie lassù in cielo e prodigi giù sulla terra: sangue, fuoco e nuvole di fumo. Il sole si oscurerà e la luna diventerà rossa come il sangue. prima che venga il giorno grande e glorioso del Signore. Allora, chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo” (At 2:16-21). Ma questa è l’eccezione; di regola lo Spirito preferisce agire con discrezione, facendosi soprattutto percepire nel cuore e nei risultati (cf At 13:52; Gv 3:8). Certamente quando Egli chiama ad eseguire un compito fornisce pure gli strumenti per renderne possibile la realizzazione. Anche quando tali strumenti sono appariscenti hanno però sempre uno scopo pratico e non sono volti a strabiliare o a soddisfare malsane curiosità. Quando ad esempio l’evangelista Luca racconta di esperienze che hanno visto manifestarsi il dono delle lingue, queste si riferiscono esclusivamente ad occasioni in cui l’annuncio della Parola deve superare una barriera linguistica; così fu della grande conversione di Pentecoste e di quella di Cornelio e famiglia.

Il battesimo rievoca diverse immagini associate allo Spirito Santo. Ci ricorda il vento che agisce per vie misteriose e, in quanto “soffio”, porta e riporta in vita. Ci ricorda la colomba, simbolo universale di pace. E ci ricorda il fuoco che è simbolo dell’amore di Dio ma anche dell’opera d’affinamento che viene compiuta nei cuori umani. “Raffinerò e purificherò i sopravvissuti, come oro e argento passati per il fuoco” (Zc 13:9). Alla fine di quest’opera gli uomini saranno veramente fratelli perché saranno veri figli di Dio, risponderanno al suo amore, lo chiameranno “Abbà”, cioè papà. Per questo esso è anche detto Spirito di adozione (cf Rm 8:15). Se il battesimo raffigura la purificazione e il rinnovamento degli uomini che rispondono alla chiamata celeste, di tale processo Cristo è la via ma lo Spirito ne è il motore.


La Formula battesimale

Oggi la maggior parte delle Chiese accompagna il battesimo con la formula trinitaria, secondo il mandato evangelico di Gesù che si trova in Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28:19). Eppure, stranamente, sembra che questa non fosse la formula adoperata originariamente dalla Chiesa che, stando alla testimonianza del Nuovo Testamento (cf ad es. At 2:38; 8:16; 10:47; 19:5), battezzava nel solo nome di Gesù. Non si conoscono le ragioni di questa singolarità e non si sa neppure secondo quale percorso si sia passati dalla formula cristologica a quella trinitaria. Sono solo state avanzate delle ipotesi, autorevoli ma tutt’altro che conclusive. A parte il suddetto brano di Matteo, in nessun’altra parte del NT è attestata la formula trinitaria. Quanto al più antico documento extra biblico che ne faccia menzione esso è la Didaché, scritta intorno alla metà del II secolo, che la prescrive in modo esplicito (“Riguardo al battesimo, battezzate così: … nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in acqua viva”. – Did. 7:1). D’altra parte il medesimo scritto fa pure riferimento alla formula cristologica, là dove ammonisce che all’eucaristia devono prendere parte solo i “battezzati nel nome del Signore” (9:5). Lo storico della Chiesa Hans Lietzmann ritiene che proprio intorno all’anno 150 avvenne la fusione tra le due formule. A sua volta il teologo riformato Willy Rordorf suggerisce che il passaggio dall’una formula all’altra sia da attribuire al cambiamento del target evangelizzato. La formula cristologica era commisurata alla conversione dei giudei a Gesù che furono il primo obiettivo della Chiesa. Quando la comunità giudeocristiana perse peso a favore della missione paganocristiana allora si modificò pure la formula battesimale poiché per i pagani la conversione era abbandono degli idoli per il Dio vero. Rordorf nota questa distinzione di contesti negli scritti di Giustino, il quale, rivolgendosi ai giudei nel Dialogo con Trifone parla di “battesimo nel nome di Gesù” (39:2); quand’egli invece si rivolge ai pagani utilizza più volte la formula trinitaria (cf 1Apologia 61:3,10,13). Questa evoluzione tardiva ha fatto sorgere negli esegeti il sospetto che la formula trinitaria sia stata il frutto di una riflessione ecclesiastica posteriore. In tal caso il Grande Mandato di Gesù, nei termini riportati da Matteo, sarebbe il frutto di un rimaneggiamento? Non necessariamente. Afferma il biblista cattolico Gianfranco Ravasi: "... delle due formule (e relative teologie) quella trinitaria è forse più "ecclesiastica" e frutto della tradizione, mentre quella cristologica è più originaria e da riferirsi eventualmente allo stesso Gesù. Dal punto di vista strettamente esegetico è possibile che la specificazione trinitaria presente nel testo dell'evangelista Matteo sia frutto di un'attualizzazione dello stesso evangelista che cerca di incarnare le parole di Gesù nell'ambito della sua comunità".

Sulla base di questa vicenda non del tutto chiarita, ci sono oggi dei gruppi cristiani che sono tornati ad amministrare il battesimo secondo la prima formula, quella cristologica. Nel 1913, in California, in occasione di un campo internazionale organizzato dai pentecostali, qualcuno lanciò l’idea che il vero battesimo era “nel nome di Gesù”; che questa era la formula rivelata all’apostolo Pietro nel giorno di Pentecoste, e che per essere aderenti alla Scrittura coloro che erano stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo avrebbero dovuto farsi ribattezzare. Quanto è fondata questa posizione? Direi non molto. Anche se la formula cristologica è stata la prima ad essere adoperata e quella trinitaria è stata attivata in conseguenza d’una riflessione posteriore non si può tuttavia definire quest’ultima frutto della tradizione extrabiblica, così come tante dottrine d’origine pagana che si sono introdotte nella Chiesa. La riflessione sulla natura trinitaria di Dio ha richiesto del tempo per definirsi, tanto che è stata fissata solo nel 325 d.C. in occasione del Concilio di Nicea, ed anche allora il discorso fu tutt’altro che chiuso. Al contempo l’immediato campo d’azione della Chiesa nascente erano gli ebrei, che non andavano convertiti al Dio della Bibbia bensì a Cristo, che al contempo era il più grande oggetto d’amore dei primi cristiani. Non bisogna pertanto stupirsi che la primitiva formula battesimale fosse quella cristologica. Quando la Chiesa ebbe sufficientemente riflettuto, poté anche valorizzare appieno le parole del Grande Mandato già presente nel Vangelo e quindi adeguarvisi. Non è il caso di pensare che gli scritti neotestamentari abbiano subito rimaneggiamenti e neppure, come afferma in modo conciliante Ravasi, che la formula trinitaria sia una sintesi di Matteo “che cerca di incarnare le parole di Gesù”. Io penso che Gesù abbia effettivamente detto quelle parole riferite da Matteo; e quindi battezzando “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” noi adempiamo pienamente il suo mandato. E poi, pensiamoci bene, in che incertezza precipiteremmo se cominciassimo a dubitare dell’unica fonte su cui ci è dato di poter sicuramente contare, cioè delle Sacre Scritture?


Il battesimo degli infanti

Nel capitolo 11 di Apocalisse si parla di due testimoni di Dio, che diversi esegeti identificano con l’Antico e il Nuovo Testamento, i quali giacciono morti per qualche tempo nella grande città “chiamata simbolicamente Sodoma ed Egitto” (Ap 11:8). La prima località è universalmente associata all’inimicizia profana nei confronti di Dio, simbolo della degradazione morale e dell’ateismo. Il secondo rappresenta invece la sacra negazione di Dio. L’Egitto è storicamente la patria delle sintesi religiose e delle aberrazioni dottrinali. Per sua influenza gli ebrei costruirono il vitello d’oro e qui il cristianesimo subì alcune delle sue peggiori contaminazioni introdottesi dalle filosofie e dai culti pagani. Basti pensare a Serapide, ai culti solari e alla sostituzione del sabato con la domenica; al culto mariano fortemente sponsorizzato dai vescovi alessandrini, sul calco della devozione ad Iside, l’egizia madre di dio, redentrice immacolata e regina del cielo. Basti pensare al neoplatonismo che qui nacque e che contribuì a fare del cristianesimo una religione dualistica, ove l’uomo si ritrova un’anima immortale ed ha la colpa di possedere un corpo. Qui furono pure poste le basi della dottrina del peccato originale, sviluppata in seguito da Agostino, altro dualista, e da qui si diffuse l’uso di battezzare i bambini. Se qui il cristianesimo non fosse inciampato anche nel monofisismo, c’è da chiedersi, quante altre aberrazioni sarebbero passate nell’ “ortodossia”.

Comunque, come dicevamo, fu in Egitto che si iniziò a battezzare i bambini, nel II secolo; non casualmente, lì e nello stesso periodo, nasceva la dottrina della rigenerazione battesimale. Per Origene (185-254), imbevuto di platonismo, il solo ingresso dell’anima nel corpo materiale era in sé una contaminazione per cui l’uomo andava purificato col battesimo già al momento della nascita. Sulla stessa linea il suo seguace Didimo il Cieco (313-398) che, come Origene, credeva nella preesistenza delle anime, sostenendo che esse venissero rinchiuse nel corpo come castigo per i precedenti peccati. Sempre Didimo sosteneva “che il peccato originale consiste nella caduta di Adamo ed Eva, e viene trasmesso dai genitori ai figli attraverso l'atto sessuale ed il concepimento, il che spiega perché Gesù dovesse essere partorito da una vergine. Il Battesimo cancella il peccato originale ed ha come conseguenza l'adozione a figli di Dio. Per questo motivo il Battesimo è indispensabile per la salvezza, sebbene possa venire sostituito dal martirio” (enc. Wikipedia). Didimo ebbe trai suoi discepoli san Girolamo e san Rufino. Il battesimo dei bambini continuò ad essere sostenuto anche da Timoteo e Cirillo, entrambi patriarchi di Alessandria.

Dall’Egitto la prassi pedobattesimale si diffuse dappertutto tra la cristianità, incontrando, tuttavia, delle comprensibili resistenze. Da Cartagine Tertulliano (160-230) vi si oppose con fermezza. Egli non metteva in dubbio l’inclinazione al male che con il peccato di Adamo passò su tutta l’umanità; condannava tuttavia le idee dualiste e manichee tanto influenti sulla chiesa del suo tempo. Egli cioè distingueva l’inclinazione al male di tutti dalla colpa che era un fatto individuale e imprescindibile dall’età della ragione. Ne scrisse anche nel suo trattato sul battesimo: “Secondo la condizione, la disposizione e l'età di ciascuno è preferibile differire il battesimo, particolarmente quando si tratti di piccoli fanciulli. È necessario far correre ai padrini il rischio di venir meno alle promesse in caso di morte o di esserne frustrati da una natura malvagia che si può andare sviluppando in seguito? Certo il Signore ha detto: Lasciate che i fanciulli vengano a me! Che vengano sì, ma quando sono cresciuti; che vengano sì, ma quando saranno in età di essere istruiti, quando avranno saputo chi è colui al quale si accostano. Che diventino cristiani, ma quando saranno capaci di conoscere il Cristo. Che ha mai a che fare questa età innocente con la remissione dei peccati? Con più circospezione si agisce con gli affari del mondo! Si affideranno dunque i doni divini a colui al quale non si affidano i beni terrestri?” (De Baptismo, cap. XVIII). Tertulliano, cioè, manteneva l’originaria convinzione della testimonianza battesimale che deve seguire la libera e cosciente conversione del catecumeno (è suo il termine) opportunamente istruito. Purtroppo le sue perplessità non furono raccolte da altri come il vescovo di Cartagine Cipriano, anch’egli imbevuto d’una visione dualista e pessimista del mondo, non certo incoraggiata dal contesto storico di persecuzioni e pestilenze, o come ancor più il vescovo d’Ippona Agostino che, mai liberatosi del tutto dall’antico retaggio manicheo, sul peccato originale rifletté più di tutti e immaginò scenari raccapriccianti per chi moriva fuori dalla grazia del battesimo.

Il passaggio al pedobattesimo fu comunque un processo travagliato, e inizialmente si limitò ai soli bambini infermi in imminente pericolo di vita. Ancora nel IV secolo, quando si cominciò a costruire i grandi battisteri annessi alle chiese, dominava l’usanza di battezzarsi in età adulta dopo un periodo di catecumenato che poteva durare anche tre anni. Anzi tra il III e il IV secolo si diffuse il costume di farsi battezzare sul letto di morte, detto pure battesimo dei clinici, cioè dei giacenti a letto. A tale pratica sono state date diverse spiegazioni, tutte dimostranti tuttavia un allentamento della fede tra la popolazione cristiana. La prima spiegazione si riferisce al problema dei lapsi, di quei cristiani, cioè, che sotto la minaccia delle persecuzioni abiuravano la fede e poi per essere riammessi nella comunità dovevano sottostare a pesanti penitenze. Ritardando il battesimo aggiravano il problema. Vi era poi una ragione di prestigio. Quando ancora il cristianesimo era religione illicita l’appartenenza alla Chiesa era d’ostacolo alla carriera pubblica. Al contrario, quando Costantino ufficializzò il culto cristiano e gli concesse il proprio favore, si aprì la strada alle conversioni di massa; allora molti che si avvicinavano alla Chiesa differivano il battesimo per non modificare sostanzialmente il loro stile di vita. Il battesimo assicurava il perdono di tutti i peccati passati ma non di quelli futuri, e allora non c’era ancora il sacramento della confessione. Così attendere l’agonia per ricevere il battesimo poteva essere una buona soluzione – come osservava Voltaire – “per vivere da criminali e morire da virtuosi”.

Possiamo pertanto notare che questo fu un periodo di sostanziale coesistenza di opposte concezioni teologiche. Accanto alla piena comprensione biblica dell’atto battesimale da parte di alcuni, che si accostavano alla professione di fede con la necessaria preparazione e con il desiderio di dare una svolta alla propria vita, si affiancava una visione magica del battesimo da parte di altri, della sola remissione dei peccati, ove la fede c’entrava poco e contava l’atto in sé che effettuava il prodigio istantaneo della purificazione e della rigenerazione. Era questo il caso del battesimo dei clinici e di quello dei fanciulli. Fu comunque solo nel V secolo che quest’ultimo prese il sopravvento sugli altri. I concili cartaginesi ormai determinarono solo il momento in cui il pargolo doveva essere sottoposto al rito: subito alla nascita, al compimento dell’ottavo giorno come per la circoncisione, o dopo i tre anni – come suggeriva Gregorio Nazianzeno – per consentire all’infante un minimo d’interattività? Si decise per l’ottavo giorno. Cosa determinò la svolta? Certamente le pressioni del potere civile interessato ad avere sudditi ben inquadrati già al momento della nascita; ma influì molto la predicazione di Agostino tutta intrisa di dualismo manicheo. Sulla scia dei padri alessandrini, egli convenne che “con la generazione (ovvero con l’atto coniugale) e con la nascita si trasmette il peccato e non la grazia”, e che quindi senza battesimo l’infante sarebbe andato dritto all’inferno per subirvi i supplizi eterni. Ma anche così, il pedobattesimo ci mise del tempo ad affermarsi dovunque. Nel 461 il Concilio di Tours, contemplava il battesimo dei clinici “energumeni” e “muti” purché fosse “stato possibile cogliere la precedente volontà del soggetto”, ma non accenna minimamente al battesimo dei bambini. E poi, l’abbiamo già detto, fino all’ XI secolo si costruirono i battisteri, dotati di ampie vasche battesimali, proprio per consentire il battesimo non certo sporadico degli adulti.

Oltre al peccato originale, altra invenzione dottrinale connessa al battesimo degli infanti è il limbo. Sembra che il termine sia stato usato per la prima volta nel XIII secolo da Guglielmo d’Auxerre per indicare il margine, il lembo esterno, dell’inferno. Persino l’intransigente Agostino che aveva stabilito le pene eterne dell’inferno per i bimbi non battezzati le aveva immaginate più attenuate in considerazione del fatto che la loro colpa non era personale ma ereditata. Ma anche così al senso comune essa appariva una sorte ingiusta. Si preferì allora supporre per queste sventurate creature una destinazione ove non ci fosse sofferenza sebbene per l’eternità dovesse loro negarsi la “visione beatifica” di Dio. Va tuttavia ribadito che la dottrina del limbo è frutto dell’immaginazione; non ha alcuna base scritturale, neppure travisata o attinta dai libri apocrifi della Bibbia; nasce per indorare la pillola d’una concezione distorta del battesimo ma non raggiunge comunque il suo intento, perché l’errore sta nella sua premessa. Non ha proprio senso immaginare questa discriminazione per cui il bambino battezzato sta in braccio a Dio e quello che non ha potuto esserlo viene condannato per tutta l’eternità al vestibolo dell’inferno per colpe altrui, siano essi Adamo ed Eva o i suoi genitori o il caso che non ha consentito la ricezione del sacramento. Peraltro l’opinione rivelata di Dio non dovrebbe essere che “il figlio non pagherà per le colpe del padre” (Ez 18:20)? Che il regno dei cieli appartiene ai piccoli fanciulli? Sempre che l’opinione di Dio conti qualcosa in queste costruzioni magico propiziatorie. Comunque, mutata la sensibilità del comune modo di sentire, la stessa Chiesa si trova in imbarazzo a difendere una dottrina così palesemente ingiusta. È stata sorpresa in mezzo al guado. Approfittando del fatto che la dottrina non era ancora stata fissata dal dogma, cerca di disfarsene rapidamente, così, semplicemente affidandosi “al mistero dell’amore divino”. Senza approfittarne per ripensare la collegata dottrina del battesimo responsabile a monte della distorsione. Dottrina che da un lato consente agli spiriti profani di ritenersi al sicuro solo ottemperando alla procedura, nonostante se ne infischino di Dio e delle sue esigenze, e d’altro lato ha causato tanta angoscia negli spiriti sensibili, preoccupati della sorte dei loro bambini morti senza aver potuto ricevere il battesimo. Si pensi che ancora nella Svizzera di metà ottocento si usava seppellire segretamente sotto le grondaie della chiese i bambini nati morti, nella speranza che l’acqua scorsa sulle pietre consacrate in qualche modo potesse supplire all’acqua del battesimo. Per non dire di tutti i pellegrinaggi cui si sono sottoposti i genitori lasciati nell’incertezza. Solo pochi lustri or sono padre Virginio Rotondi rispondeva a una madre angosciata per la sorte del figlio nato morto: "Non sono in grado di darle la sicurezza di cui è ansiosa. La certezza che i bambini godano del paradiso a cui tutti gli uomini sono chiamati, riguarda i bimbi battezzati".


Il dibattito nel mondo protestante

Abbiamo già detto della profonda spaccatura che vede diviso il mondo protestante già dai giorni della riforma. Da un lato le chiese istituzionali che hanno lasciato passare molte tradizioni cattoliche, come il battesimo degli infanti, perché funzionali ai loro interessi. Dall’altro lato gli anabattisti e i loro eredi che riconoscono valore al solo battesimo degli adulti effettuato per immersione. A suo tempo gli anabattisti furono oggetto di accanita persecuzione: normalmente venivano annegati nei laghi o nei fiumi come a volere far loro pagare la “provocazione” del ribattesimo. E pure oggi i toni sono tutt’altro che pacati; infatti il tema del battesimo è uno degli ostacoli che si pongono nel dibattito ecumenico. Ma anche all’interno delle chiese storiche il pedobattesimo non è sempre accettato come un fatto scontato. Grandi nomi del mondo riformato, quali Dietrich Bonhoeffer, Karl Barth, Kurt Aland e Jurgen Moltmann hanno riflettuto sull’argomento. Bonhoeffer, pur lasciando libertà di scelta, consigliava di rinviare il battesimo all’età adulta. Aland confuta la tesi che il pedobattismo abbia origini apostoliche. Moltmann critica la prassi del battesimo infantile affermando che “il battesimo cristiano può essere compreso soltanto in relazione all’escatologia battesimale come segno della venuta di Dio nella vita dell’uomo e della conversione di quest’uomo al futuro che l’attende”. Ma certamente la riflessione che spicca per acutezza, come c’era d’attendersi, è quella di Barth. Egli definiva il battesimo “conoscimento e accettazione del dono divino della grazia”; e, ovviamente, per conoscere e accettare è inevitabile trovarsi nell’età dell’esperienza e della ragione. Pertanto a suo avviso l’unico battesimo che ha un senso è quello di “responsabilità” degli adulti, i quali soltanto, in piena consapevolezza, possono rispondere alla grazia divina che chiama, giustifica e santifica gli uomini; essi soli possono dare – come si dice – il loro “consenso informato” grazie alla coscienza e alla fede che si accende nei loro cuori. I bimbi non si trovano in questa condizione e quindi il loro battesimo è un nonsenso. In un’intervista al settimanale Time egli dichiarò: "Non c'è una base biblica per il battesimo infantile, questa tradizione è semplicemente un antico errore della Chiesa". “Una cattiva abitudine”, rincarava altrove. In un suo scritto sul tema, precisava: "Tutte le motivazioni teologiche del pedobattesimo sono piene di contraddizioni e insostenibili. Il pedobattesimo non corrisponde alla caratteristica essenziale del battesimo, è un mezzo battesimo disordinato".

Per quanto detto, Barth condanna il battesimo per procura; nessuno può credere per un altro, nessuno può sostituire un altro nella fede che deve essere personale. Neppure i genitori né tanto meno i padrini. “Se il giusto è salvato a stento” (1Pt 4:18), come può egli garantire per altri? A proposito dei padrini, c’è da dire che essi erano nati per tutt’altra funzione. In tempo di persecuzione la chiesa doveva guardarsi dalle spie e dai malintenzionati; per cui chi voleva iniziare il percorso catecumenale per essere introdotto ai misteri della fede bisognava che si facesse garantire da un membro battezzato sulla sua lealtà. Ecco perché nei primi secoli gli estranei erano così poco informati sulle dottrine dei cristiani. Cirillo d’Alessandria, nel suo scritto Contro Giuliano, afferma: “Io parlerei del battesimo, se non temessi che il mio discorso potrebbe pervenire ai non iniziati”. Solo in un secondo momento, da garanti della buonafede dei battezzandi adulti nei confronti della comunità, i padrini divennero garanti della fede dei bambini nei confronti della Divinità.

Dopo Barth, nulla fu come prima, anche per il battesimo. Non che le chiese pedobattiste tornassero sui propri passi, però, grazie all’autorevole dibattito interno, hanno in genere ammorbidito le loro posizioni. In un documento ufficiale del 2001, la Chiesa riformata francese dà libertà ai propri membri di muoversi secondo coscienza. Esso recita al secondo punto: “Occorre… non trascurare la dimensione di esperienza credente che porta a ricevere il battesimo. Per sensibilità teologica, ma anche per preoccupazione pedagogica, certi genitori possono scegliere di differire il momento in cui il loro figlio sarà battezzato: perché egli sia parte interessata alla decisione, o semplicemente consapevole e di conseguenza capace di rallegrarsi e di ricordarsi. In questo caso, essi possono chiedere la presentazione del loro figlio a Dio”. Va inoltre ricordata un’importante presa di posizione della Chiesa Confessante, il coordinamento evangelico tedesco nato per opporsi alle ingerenze naziste. L’occasione è il sinodo del 1970. Rilevando “con rammarico che il battesimo dei fanciulli e la conseguente confermazione sono diventati troppo spesso, dei puri atti formali” e “alla luce della riscoperta della chiesa quale comunità di credenti confessanti”, “invita le chiese a prendere in seria considerazione il ritorno alla prassi del battesimo dei credenti [cioè, degli adulti]”; e propone al contempo “che l’usanza del padrinato sia soppressa perché non trova nessun riscontro nella Bibbia”.

Il dibattito ha in qualche modo pure coinvolto il mondo cattolico. Diversi teologi (Bonnard, Gignac, Lapointe, il nostro Gramaglia, ecc.) han cominciato a porre in dubbio la validità del pedobattesimo. In alternativa suggeriscono un percorso di iniziazione che preveda subito un semplice rito di “accoglimento” da parte della Chiesa, con il quale il bambino viene presentato alla comunità. E poi, solo a conclusione d’un lungo cammino di catecumenato, si amministrerebbe il battesimo; quando cioè il candidato “sarà capace di una decisione personale per quanto riguarda il proprio avvenire» (Bonnard), poiché tale passo “esige un impegno personale, libero, cosciente e serio che segni una tappa decisiva nella vita del credente» (Lapointe). Il fatto che ci sia dibattito dimostra che comunque esiste qualche perplessità e si avverta del disagio all’interno delle chiese che praticano il battesimo dei bambini.

Per quanto riguarda la realtà evangelica italiana, il confronto prese avvio all’interno della Chiesa valdese che è oggi una chiesa vicina al calvinismo, quindi pedobattista, ma che un tempo praticava il battesimo degli adulti. Occasione del contendere fu un libro di Giovanni Miegge, pubblicato nel settembre 1942, che sosteneva la tesi pedobattista. A questo scritto rispose un altro noto teologo Valdese, Paolo Bosio, con un saggio dottrinale che invece sosteneva le tesi del battesimo dei credenti. Oggi la posizione di Bosio, sebbene minoritaria, è riscontrabile anche all’interno del Corpo pastorale di quella Chiesa. Significativa l’opinione del contemporaneo Paolo Ricca, professore emerito della Facoltà valdese di teologia, perché emblematica d’una posizione che vorrebbe essere conciliante e progressista ma che al contempo non riesce a liberarsi dai condizionamenti della personale formazione dottrinale. Egli premette che il battesimo dei credenti, cioè delle persone consapevoli, è la forma normale di battesimo descritta nel Nuovo Testamento e dà per scontato che il battesimo è l’incontro di due “sì”, quello di Dio e quello dell’uomo che si battezza. Al contempo però pensa che il battesimo dei bambini sia “cristianamente legittimo”. Su quali basi? Sulla convinzione che esso sia soprattutto “il segno dell’opera compiuta da Cristo a favore di tutta l’umanità”, sia che ne siamo consapevoli o che non lo siamo, e che quindi sia di fatto “il sacramento del “si“ di Dio pronunciato sulla vita di ciascuno che nasce su questa terra”; ma anche sulla convinzione che il battesimo dei bambini fosse già praticato in epoca apostolica come si evincerebbe da tracce evidenti riscontrabili nel Nuovo Testamento, “anche se sono solo tracce”; e che in qualche modo esso si sostituisca al rito della “circoncisione in Israele praticata l’ottavo giorno dalla nascita”. Pertanto, a suo giudizio, “ogni chiesa cristiana dovrebbe adottare due forme di battesimo: quello delle persone che, venute alla fede, chiedono di essere battezzate e in questo modo mettono in luce l'importanza del “si“ dell'uomo; e quello dei bambini, che mette in luce il grande “si“ di Dio che non solo precede, ma anche permette e fonda il “si“ dell'uomo”. Non so se Ricca, che pure è teologo su altri temi stimabilissimo, si renda conto quanto sia contraddittorio questo ragionamento! Dovendo alla fine sostenere l’esistenza di due battesimi (quello dei due “sì” e quello del solo “sì” di Dio, quando la Bibbia parla di un solo battesimo: quello di coloro che hanno creduto) di cui il secondo basabile solo su “tracce”, analogie e ragionamenti, ovvero sulla “pura speculazione teologica senza fondamento biblico” (sono parole sue) che egli difensore della Sola Scriptura critica in altri. Perché non ammettere insieme a Barth che “non c'è una base biblica per il battesimo infantile” e che “questa tradizione è semplicemente un antico errore della Chiesa"? A proposito spicca per umiltà e onestà intellettuale l’ammissione del teologo calvinista Jean Cadier, che otto anni prima della morte scriveva: “I riformati, come gli altri, sono più sottomessi alla tradizione di quanto vogliano riconoscere. Sulla questione della domenica…, del battesimo dei bambini… l’apporto della tradizione è stato nettissimo. Allorché una confessione cristiana, come gli Avventisti, nel nome della Scrittura, inizia su questi difficili soggetti una controversia con i riformati, essa è in anticipo vittoriosa, e i testi con i quali la nostra chiesa difende la sua posizione, al di fuori del ruolo della tradizione, e senza invocare lo spirito della rivelazione, sono rari e non apportano l’adesione. Noi preferiamo dirlo molto chiaramente e affermare che c’è una tradizione protestante” (J. Cadier, Christianisme Sociale, Parigi 1973).


Non c’è base biblica

Alcuni teologi pedobattisti, sia cattolici che protestanti, cercano come abbiamo visto di far passare il messaggio che questa pratica risalga ai tempi apostolici, e che nella Bibbia vi siano delle “tracce” (solo tracce, sia chiaro) che sostengano questo convincimento. Questa posizione è comprensibile, perché, ovviamente, disturba loro l’idea che essa non abbia alcun fondamento biblico. In realtà gli studiosi più preparati e obiettivi, persino tra coloro che come Kurt Aland accettano il pedobattismo, escludono questa ipotesi. È bene comunque, perché ognuno possa giudicare da sé, accennare brevemente a queste “tracce”. I passi biblici che di solito i pedobattisti utilizzano per corroborare la loro tesi riconducono a quattro temi di fondo: l’apologia dei bambini che fa Gesù, l’indispensabilità del battesimo, il battesimo delle famiglie e il parallelismo con la circoncisione.

L’apologia dei bambini. Gesù lodò spesso i bambini che per natura si trovano in una posizione spirituale più favorevole rispetto agli adulti; e per questo li additò ad esempio. E lodò anche il Padre per aver rivelato ai piccoli le verità che aveva nascosto ai saggi e agli intelligenti (Mt 11:25). Vari sono gli episodi riportati nei Vangeli. Quello della lode ricevuta nel tempio (Mt 21:14). Quello della risposta ai discepoli che gli chiedevano chi fosse il più grande nel regno dei cieli. E Gesù, chiamato a sé un bambino, “lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico, se non vi convertirete e non diverrete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 1-4). Poi c’è l’episodio di Gesù che benedice i bambini. Leggiamolo così come ce lo riferisce Marco: “Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s`indignò e disse loro: "Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso". E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani li benediceva” (Mc 10:13-16). Era probabilmente il giorno dell’espiazione, quando le madri usavano portare i loro bambini a un rabbino perché li benedicesse prima di introdurli nello studio della Torà. Alcune donne pensarono di portare i loro al rabbino Gesù. I discepoli pensarono invece che per il loro oberato Maestro questa sarebbe stata un’inutile seccatura, ma si sbagliavano. Anzi, Gesù ne approfittò per restituire lo spirito di quella ricorrenza religiosa. Quello dell’espiazione era il giorno del pentimento e della cancellazione delle colpe. Gli ebrei ne avevano fatto il giorno del conteggio delle buone azioni e dell’ingresso, per i meritevoli, nel Libro della Vita. Gesù, prendendo in braccio quei bambini, spiegò invece che per entrare nel regno di Dio bisognava convertirsi alla semplicità d’animo dei fanciulli; e così come essi dipendono fiduciosi dai loro genitori, bisognava imparare ad aver fede in Dio. I pedobattisti, estrapolando dal suo contesto il comando di Gesù: "Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite”, ne deducono che Egli volesse raccomandare di non escluderli dal battesimo e quindi dalla comunione dei credenti. Ma è evidente dal contesto che Gesù non si riferisce al battesimo, che in questo caso avrebbe dovuto nominare esplicitamente, e che ancora egli non aveva reso obbligatorio neppure per gli adulti. Semmai qui Egli afferma che i bambini appartengono già al regno di Dio, sono già suoi, adesso, non dopo un presunto battesimo; giusto il contrario di quel che affermano i pedobattisti.

L’indispensabilità del battesimo. "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio”. I pedobattisti riferendosi a questa frase di Gesù che si trova nel vangelo di Giovanni, affermano: “Ecco la prova che senza battesimo non si va in cielo; dobbiamo quindi impedire ai bambini di salvarsi?”. Come al solito anche in questo caso si utilizzano delle parole strappate dal loro contesto e facendo dire cose a Gesù che egli non aveva alcuna intenzione di dire. La frase in questione è tratta dal famoso colloquio notturno con Nicodemo, un fariseo autorevole, membro del Sinedrio. Un uomo quindi che pensava di salvarsi per i propri meriti e che attendeva un messia che instaurasse un regno terreno. Più che i discorsi di Gesù lo avevano colpito i suoi miracoli: Egli doveva essere un maestro guidato da Dio, per compiere tali prodigi. Comunque sotto la scorza del fariseo Gesù coglie una profonda sete di Dio e decide di rivelargli la grande verità: Egli è più che “un maestro”, è “il Maestro”, ovvero il Messia. Ma leggiamo questo contesto: «C`era tra i farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: "Maestro, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall`alto, non può vedere il regno di Dio". Gli disse Nicodèmo: "Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t`ho detto: dovete rinascere dall`alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito". Replicò Nicodèmo: "Come può accadere questo?". Gli rispose Gesù: "Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell`uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell`uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna"» (Gv 3:1-15). Come possiamo notare, in questo colloquio non si parla di battesimo ma del Salvatore Gesù. Appare subito evidente il contrasto tra il giudeo ancorato agli insegnamenti dogmatici e il figlio di Dio che va dritto al sodo con parole cariche di significato simbolico, su più livelli, allo scopo di trascinare il fariseo nella propria dimensione spirituale. “Per vedere il regno di Dio bisogna nascere dall’alto”, afferma Gesù. Nell’espressione “dall’alto” (gr. ànothen) c’è il senso di quel dislivello dimensionale. L’avverbio greco può significare “dall’alto” ma anche “di nuovo”. Gesù lo intendeva in entrambi i significati: si nasce di nuovo solo se si nasce dall’alto. Nicodemo non riesce (o, forse, non vuole) andare oltre il primo senso: come si può rinascere da vecchi, rientrando nel grembo materno? Allora Gesù aggiunge un altro tassello al suo discorso, attingendo all’immagine del lavacro d’acqua e di spirito, ben nota a Nicodemo perché si trova in Ezechiele: “Verserò su di voi acqua pura… vi darò un cuore nuovo… Metterò dentro di voi il mio Spirito e vi renderò capaci di ubbidire ai miei ordini, di osservare e di applicare le leggi che vi ho dato” (Ez 36:25-27). Infatti, prosegue Gesù, di carne si nasce ma si rinasce di spirito, che viene dall’alto. A questo punto Gesù si rivela e rivela la sua missione. La rigenerazione dall’alto è possibile solo nel Figlio Unigenito, l’unico disceso dal cielo, che conosce il Padre e può rivelare il suo carattere amorevole. Sebbene non corrisponda alle attese dei giudei, Gesù è il Messia che rivela l’amore del Padre morendo sulla croce. Bisogna che sia così “perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna". Sempre nello stesso vangelo egli afferma: “Quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me” (12:32). Chi accoglie Gesù non è più nella morte, non è più nella vecchia vita, ma diventando figlio di Dio rinasce a vita eterna. "Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio" (1 Gv 5,1). La condizione “sine qua non” per accedere al regno di Dio non è il battesimo ma l’accettazione del sacrificio di Cristo che esso raffigura. E che dire del ladrone pentito sulla croce, salvato per aver creduto in Gesù ma senza battesimo? Per far quadrare i conti s’inventarono allora il battesimo di desiderio e il battesimo di sangue. Altre speculazioni non scritturali.


Il battesimo delle famiglie. Nel libro degli Atti e nella prima lettera ai Corinzi si raccontano episodi in cui intere famiglie pervengono alla fede e chiedono il battesimo. Accadde così al centurione Cornelio che “era un uomo religioso e con tutta la sua famiglia credeva in Dio” (At 10:2). Accadde così a Lidia, la commerciante di porpora, che “si fece battezzare lei e tutta la sua famiglia” (16:15). E lo stesso al carceriere di Filippi che “si fece battezzare lui e tutta la sua famiglia” (16:33). A Crispo, il capo della sinagoga di Corinto, che “credette nel Signore insieme con tutti i suoi familiari” e che, insieme ad altri Corinzi, “ascoltarono quello che Paolo diceva, e così credettero e si fecero battezzare” (18:8). L’Apostolo ricorda d’aver “pure battezzato la famiglia di Stefana” (1Cor 1:16). I pedobattisti fanno questo ragionamento: è normale che nelle famiglie vi siano bambini e quindi se si afferma che “tutta la famiglia” venne battezzata significa che lo sono stati pure i bambini. Ecco dimostrato che il battesimo degli infanti era praticato anche in età apostolica. Ma questo ci sembra un modo serio di ragionare? Che logica è questa che confonde le prove con le supposizioni, che non tiene conto del contesto dei singoli racconti e del contesto generale della narrazione neotestamentaria, e che forza le espressioni idiomatiche in sé evidenti anche nei nostri modi di dire? Intanto non è affatto detto che nelle suddette famiglie ci fossero figli. Bisogna considerare che della famiglia potevano far parte anche altri oltre agli sposi e ai figli, come i vecchi genitori; allora anche la servitù veniva considerata parte integrante della famiglia. Quindi con casa o famiglia si poteva anche intendere un nucleo ove non fossero presenti dei figli. Ed anche in presenza di figli, nei casi in questione, non è detto che essi fossero in età di non capire. Ci sono almeno due casi in cui tale possibilità appare come improbabile. Il primo è quello di Crispo: in quanto capo della sinagoga doveva essere una persona avanti con gli anni, pertanto anche se avesse avuto figli essi dovevano essere già grandi, in grado quindi di capire, di credere e di chiedere in modo responsabile il battesimo. L’altro caso è quello della famiglia di Stefana: Paolo descrive i membri di questa famiglia come fortemente impegnati nelle attività ecclesiali “al servizio dei credenti” (1Cor 16:15), pertanto l’Apostolo si riferisce ad un gruppo familiare di persone adulte. Un altro elemento che viene ripetutamente sottolineato in questi racconti è che il battesimo è preceduto dall’ascolto della predicazione e dal credere, anche con manifestazioni entusiastiche; il carceriere “insieme con tutti i suoi fece festa (gr. êgalliasato = si rallegrarono oltremodo) per la gioia di aver creduto in Dio” (At 16:34). Il verbo qui adoperato agalliàomai, che appare undici volte nel NT, anche quando è adoperato nella versione greca dell’AT, esprime – come osserva la cattolica saveriana Teresina Caffi – “la gioia cultuale che si manifesta nel celebrare le opere salvifiche che JHWH ha compiuto nel passato e compie nel presente (Sal 32,11; ecc.; gioia però aliena dalle manifestazioni orgiastiche dei culti cananei. Poi il senso va oltre il culto: è l’esultanza del singolo e della comunità, una gioia piena di gratitudine di fronte a Dio (Sal 9,15; 31,8; 35,27; 92,5;…)”. Nel Nuovo Testamento esprime gratitudine e fede gioiosa nel Cristo; pertanto un atteggiamento consapevole che non ci si può attendere dai piccoli. Il contesto dei singoli racconti lascia dunque intendere che questi battesimi familiari non includessero i piccoli. Ed è poi quello che insegna il messaggio neotestamentario che contempla solo il battesimo dei credenti, cioè di quelli che possiedono e manifestano una fede personale. Quando, in alternativa al termine collettivo “famiglia”, ci si è riferito ai singoli credenti, i bambini, com’è logico attendersi, non compaiono tra i battezzati. Filippo che predica in Samaria battezza solo chi ha potuto credere, cioè “uomini e donne” (At 8:12); non i bambini, che in caso contrario dovevano essere citati; bambini che certo non mancavano tra la folla in ascolto (8:6). Poi, se vogliamo, è anche un fatto di buonsenso linguistico. Anche noi quando generalizziamo, riferendoci ad un’azione compiuta da tutti in famiglia, sott’intendiamo che da quell’azione sono esclusi i familiari che non ci si attende debbano compierla. Quando ad esempio affermiamo che a casa siamo andati tutti a votare, intendiamo dire: tutti quelli che avevano il diritto/dovere di voto. È sottinteso che non vogliamo riferirci ai bambini di casa. La stessa logica vale per il linguaggio biblico. Quando ad esempio Paolo mette in guardia Tito da certi apostati che, per amore di un guadagno disonesto, mettono scompiglio in intere famiglie (cf Tito 1:11) è chiaro che non si riferisce ai neonati di quelle famiglie che non possono essere raggirati da questi “seduttori delle menti” (v. 10). C’è anche un altro episodio biblico ove appare in modo esplicito che l’espressione “tutta la famiglia” può escludere i bambini. Quando Elkana andò “con tutta la sua famiglia” (1Sam 1:21,22) ad offrire il sacrificio annuale, si afferma subito dopo che suo figlio Samuele non vi sarebbe andato in quanto ancora troppo piccolo. Pur di cercare prove ad ogni costo, si è disposti a mettere da parte pure la logica e il buon senso.


Battesimo e circoncisione. “Uniti a lui (Cristo), avete ricevuto la vera circoncisione: non quella fatta dagli uomini, ma quella che viene da lui e che ci libera dalla nostra natura corrotta” (Col 2:11).
“Ci ha segnati con il suo nome (lett. sigillo) e ci ha dato lo Spirito Santo come garanzia di quel che riceveremo” (2Cor 1:22).

Alcuni, prendono spunto dal paragone che Paolo fa tra la circoncisione ebraica e il battesimo cristiano, per impostare il seguente ragionamento: Il battesimo con cui moriamo e risorgiamo con Cristo sostituisce la circoncisione ebraica e diventa la circoncisione di Cristo, per cui esso diviene il sigillo divino della salvezza offerta a tutti i popoli. Dato che il neonato, con la circoncisione effettuata l’ottavo giorno (cf Gen 17:12) entrava inconsapevolmente a far parte del popolo d’Israele, analogamente con il battesimo il bambino entra inconsapevolmente a far parte del popolo di Dio. Ciò rende attendibile l’ipotesi che anche in età apostolica i bambini ricevessero il battesimo all’ottavo giorno come sigillo dello Spirito Santo che dava loro la forza, tramite la famiglia e la comunità educatrice, di compiere il loro percorso di fede come figli e fratelli di Gesù.

Altri, per dimostrare che l’inconsapevolezza del bambino non è un ostacolo per ricevere il battesimo, richiamano l’episodio della lavanda dei piedi, quando Pietro dice a Gesù: “Non mi laverai mai i piedi!”. E Gesù gli risponde: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo” e “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13:7,8). Il battesimo – essi affermano – vuol dire rinascere alla vita eterna, e per nascere non è necessario sapere nulla, basta fidarsi. E chi meglio d’un bambino sa fidarsi? Il battesimo non è un nostro giuramento su Dio, esso è un dono di Dio, un giuramento di Dio su di noi. Egli dichiara: tu sei mio figlio.

Per quanto riguarda quest’ultimo paragone basta riferirsi, come sempre, al contesto. Perché estrapolando le parole dalla cornice del racconto si può dar loro qualsivoglia significato. In questo caso Gesù stava insegnando ai discepoli una lezione di umiltà e di servizio, non di rigenerazione battesimale. Poco tempo prima essi avevano discusso su chi di loro dovesse essere il maggiore nel nuovo regno, e Gesù, chiamatili attorno a sé aveva detto: “Come voi sapete, i capi dei popoli comandano come duri padroni; le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere così! Anzi, se uno tra voi vuole essere grande, si faccia servitore degli altri. Se uno vuole essere il primo, si faccia servo degli altri. Perché anche il Figlio dell'uomo è venuto non per farsi servire, ma per servire e per dare la sua vita come riscatto per la liberazione degli uomini” (Mc 20:25-28). Ma la lezione, sul momento, non era stata colta. Quando essi entrarono nella camera alta per celebrare la Pasqua, come allora si usava e mancando un servitore, occorreva che uno di loro si offrisse per lavare i piedi impolverati dei commensali. Ma dopo quella discussione, accettare quel compito avrebbe significato dichiarare implicitamente la propria subalternità. E, infatti, nessuno si faceva avanti. Allora Gesù, per accompagnare con un esempio pratico l’insegnamento che essi non volevano intendere, si mise lui stesso a lavare i piedi dei presenti. Alla fine, rimessasi la veste e tornato a sedersi, disse: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo sono. Dunque, se io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi. Certamente un servo non è più importante del suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi lo ha mandato. Ora sapete queste cose; ma sarete beati quando le metterete in pratica” (Gv 13:12-17). Lavando i piedi ai discepoli, Gesù non stava istituendo un rito o una cerimonia, stava solo impartendo una lezione pratica. La risposta “Ora tu non capisci quello che io faccio; lo capirai dopo”, data al recalcitrante Pietro, voleva semplicemente dire: “Lasciami fare perché quando avrò finito vi spiegherò la ragione per cui sto facendo questo”. Forse stava pure rivelandogli che alla fine egli avrebbe imparato quella lezione (cf 21:18). Qui il battesimo non c’entra nulla, neppure come analogia, perché il battesimo, per insegnamento dello stesso Gesù, non è affatto il solo “si” di Dio e la dottrina della rigenerazione battesimale è un’invenzione umana.

Ma, tornando al paragone tra la circoncisione e il battesimo, osserviamo che la deduzione, secondo cui la Chiesa apostolica battezzava il bambino di genitori cristiani così come gl’israeliti circoncidevano i loro bambini, non regge almeno per due motivi. Il primo riguarda la forma e il fatto storico. Fu Dio stesso a comandare che ogni figlio d’israeliti fosse circonciso l’ottavo giorno. Non ci risulta che Gesù abbia mai istituito il battesimo dei bambini né per l’ottavo né per qualsiasi altro giorno, mentre sappiamo che questa disposizione fu presa dai concili di Cartagine nel V secolo. Possiamo sfogliare il Nuovo Testamento dalla prima pagina all’ultima e non troveremo mai né un ordine in tal senso né il racconto su un solo bambino che sia stato battezzato. Gesù ha dato un preciso mandato per il battesimo; pensiamo mai possibile che non desse uno specifico ordine sul pedobattesimo, così come era stato dato per la circoncisione, se questa fosse stata realmente la sua volontà? Il secondo motivo tocca la sostanza della dottrina. La circoncisione dell’Antico Patto era ombra della vera circoncisione che Cristo avrebbe compiuto in coloro che si ravvedono e credono in lui, sostituendo loro il vecchio cuore di pietra con un nuovo cuore di carne (Ez 11:19). Ma questa “circoncisione di Cristo”, di cui parla Paolo, che da Lui viene e non è fatta dagli uomini, e che ci libera dalla nostra natura corrotta (Col 2:11), è legata ad una precondizione ben precisa che troviamo al vers. 12: “Infatti quando avete ricevuto il battesimo, siete stati sepolti insieme con Cristo e con lui siete risuscitati, perché avete creduto…”. Che poi è il mandato di Gesù e il motivo ricorrente d’ogni racconto biblico dove si parla di battesimo: questo è sempre accompagnato dalla fede. La circoncisione non richiedeva fede, il battesimo sì, e questa non è possibile ai bambini incoscienti. E poi, visto che ci riferiamo al discorso di Paolo, come possiamo attribuire ai bambini il versetto seguente: “Un tempo, quando voi eravate pagani (lett. incirconcisi) pieni di peccati, eravate addirittura come morti. Ma Dio che ha ridato la vita a Cristo, ha fatto rivivere anche voi. Egli ha perdonato tutti i nostri peccati”? Quindi, anche sull’analogia con la circoncisione, niente battesimo dei bambini.

Per inciso, viene da chiedersi se questo voler attribuire virtù salvifiche ai simboli della fede, questo voler coinvolgere a tutti i costi i bambini in azioni che non sono ancora alla loro portata, non implichi invece infantilismo nella religione degli adulti. Il popolo d’Israele che usciva dall’Egitto era un’accozzaglia di schiavi, rozzo e ignorante, certamente infantile. Per credere aveva bisogno di vedere e di toccare. Il simbolismo religioso era molto concreto; per comprendere la gravità del peccato, il peccatore doveva affondare personalmente la lama del coltello nel collo della vittima sacrificale. Per costruire rapporti corretti con Dio e con i suoi simili aveva bisogno di una legge cerimoniale, oltre alla legge morale. Aveva bisogno di sorveglianti. Con la sua venuta, Cristo volle crearsi un popolo di fratelli, di amici e non di servi. Il Cristianesimo vuole essere una religione matura, con pochi atti rituali e dal carattere profondamente simbolico. Quando i cristiani tornano ai segni aventi valore in sé, regrediscono all’infantilismo di una religione “pedagogica” (cf Gal 3:23-27) con molte regole da seguire pedissequamente in sostituzione di una fede forte. Ai Galati che avevano imboccato questo percorso regressivo Paolo rivolge un rimprovero insolitamente duro: “Siete così insensati (anoêtoi = imbecilli)? Dopo aver cominciato con lo Spirito, volete ora raggiungere la perfezione con la carne?” (Gal 3:3).


Prove contrarie al pedobattismo

Gli stessi pedobattisti hanno difficoltà a chiamare prove i passi biblici che abbiamo appena passato in esame; preferiscono definirli “tracce evidenti”. A nostro avviso, invece, essi hanno ben poco non solo dell’evidenza ma anche della traccia. Ovviamente il fatto che anche solo si possano tirare in causa queste presunte “tracce” lo si deve al silenzio degli scritti apostolici sull’argomento. Alcuni affermano che proprio il silenzio è la prova che la Bibbia non condanna il pedobattismo. Un sorta di silenzio-assenzo, se vogliamo. Ma questa affermazione avrebbe senso solo se avessimo le prove che la pratica fosse in uso al tempo degli scritti neotestamentari. In realtà abbiamo importanti evidenze documentarie che attestano il contrario. La Didaché, ad esempio, che è una sorta di catechesi battesimale del II secolo, non parla di pedobattismo quando invece avrebbe dovuto. Il discorso è proprio questo: non se ne parlava perché per la Chiesa primitiva il battesimo dei bambini era inconcepibile anche solo immaginarlo. Tuttavia abbiamo delle testimonianze bibliche, ovviamente indirette, che paiono escludere questa pratica. Anzi, una di queste, sebbene indiretta, è una vera e propria prova contro l’uso e lo scopo del pedobattismo. Passando oltre alle ragioni dottrinali che rendevano concepibile il solo battesimo degli adulti informati, credenti e consenzienti, perché ne abbiamo già abbondantemente parlato, (che già da sole costituiscono la condicio sine qua non per cui il pedobattismo non poteva verificarsi in una chiesa fedele), esaminiamo brevemente queste testimonianze che, pur sottintendendo la dottrina, si riferiscono alla prassi.

La prima riguarda la predicazione di Filippo nella città di Samaria. Ne abbiamo già parlato a proposito del battesimo delle famiglie. Sono elencate tutte le fasi necessarie che precedono il battesimo. C’è il testimone che annuncia la buona novella. C’è un uditorio; in questo caso addirittura una folla (At 8:6). C’è l’ascolto del messaggio; in questo caso corroborato da una serie di miracoli. C’è la conversione prodotta dalla fede (“credettero”, vers. 12). E solo dopo tutti questi passaggi c’è la richiesta del battesimo. Chi fu battezzato? “Uomini e donne”, viene detto. Cioè, come è logico attendersi, coloro che hanno ascoltato e creduto. I bambini non vengono battezzati, perché non viene indicato e perché non c’era alcun motivo per sottintenderlo. D’altronde è impensabile che non vi fossero bambini in una folla mediorientale, per giunta composta anche di donne.

Abbiamo poi due considerazioni paoline che si riferiscono alla chiesa di Corinto. La prima più che una prova è una semplice evidenza, la quale traspare dal discorso di Paolo ed indica che gli interlocutori dell’Apostolo non venivano battezzati ma si facevano battezzare. Vi era cioè una richiesta da parte loro. Ebbene Paolo lascia intendere che nella storia del loro battesimo vi fu l’incontro tra la volontà dei catecumeni e la volontà di Dio, cosa impossibile nel battesimo degli infanti che non sono in grado di esprimere volontà. Dopo aver elencato i comportamenti peccaminosi dei corinzi prima della conversione, egli afferma: “E tali eravate alcuni di voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e mediante lo Spirito del nostro Dio” (1Cor 6:11). Quel “siete stati lavati” è un’imprecisa traduzione del greco “apelousasthe” (da Loûo = lavare, purgare, fare il bagno, purificare) che è un aoristo medio ovvero riflessivo. Le altre due espressioni verbali “siete stati santificati” (hêgiasthête) e “siete stati giustificati” (edikaiôthête) essendo degli aoristi passivi sono stati tradotti correttamente. La giusta traduzione del brano è quindi: “Ma vi siete fatti fare il bagno (battesimale), siete stati santificati, siete stati giustificati…”. Appare chiaro qui, adesso, l’incontro tra la volontà dei corinzi di farsi battezzare e l’azione di Dio che santifica e giustifica. Incontro di volontà impossibile per definizione nel battesimo dei bambini.

Ma quella che è una vera e propria prova, anche se indiretta, del fatto che i corinzi non battezzavano i loro bambini la troviamo al capitolo 7 della prima epistola a loro indirizzata. Qui, dal verso 10 al 16, Paolo dà disposizioni sul divorzio e sui matrimoni misti, sul matrimonio cioè dei credenti con persone non credenti. Riportiamo per intero il passo che a noi interessa: “Se un cristiano ha una moglie che non è credente, e questa desidera continuare a vivere con lui, non la mandi via. E così pure la moglie cristiana non mandi via il marito che non è credente, se egli vuol restare con lei. Il marito non credente infatti appartiene già al Signore per la sua unione con la moglie credente; e viceversa, la moglie non credente appartiene già al Signore per la sua unione con il marito credente. In caso contrario, anche voi dovreste rinnegare i vostri figli (lett. i vostri figli sarebbero impuri), mentre invece essi appartengono al Signore” (1Cor 7:12-14). Per capire pienamente il senso del discorso di Paolo bisogna innanzi tutto tenere presente che, nella sintassi della frase, gli interlocutori di Paolo sono tutti i cristiani di Corinto e non le coppie miste; i “vostri figli” del vers. 14 sono pertanto i figli dei cristiani e non delle coppie miste, altrimenti egli avrebbe detto “i loro figli”. Qui Paolo fa un parallelismo tra i coniugi non credenti e i bambini della chiesa. Perché tale parallelismo abbia un senso bisogna desumere che quei bambini non fossero battezzati. Paolo vuole infatti chiaramente affermare l’analogia tra l’ambiente spirituale della famiglia cristiana, da cui anche i figli non ancora battezzati traggono beneficio e protezione, e la situazione della coppia mista che estende in qualche modo i benefici di Cristo al coniuge non ancora credente e battezzato ma che potrebbe esserlo in futuro (cf vers. 16), così, come d’altronde ci si attende che i figli non battezzati giungano al battesimo quando saranno in condizione di credere. Con questo paragone, che tocca direttamente tutte le famiglie della comunità di Corinto, Paolo vuole anche implicitamente invitare la chiesa a non ostracizzare i coniugi non credenti dei membri cristiani e a non spingere questi ultimi alla separazione. A noi questa osservazione di Paolo è provvidenziale perché dimostra inequivocabilmente, se ce ne fosse bisogno, che la chiesa di Corinto non battezzava i propri bambini e che l’Apostolo delle genti approvava questa prassi e la trovava del tutto logica. Implicitamente è anche una condanna delle dottrine del peccato originale e della rigenerazione battesimale perché dichiara espressamente che i figli sono santificati (cioè appartengono a Dio) per il solo fatto di esser membri di una famiglia cristiana.


Le conseguenze della prassi pedobattesimale

Nel confronto tra le denominazioni ci sono dottrine che appaiono subito caratterizzanti del messaggio cristiano, per cui anche solo porre l’accento su un certo aspetto di tale messaggio si avverte come una differenza significativa. Fa differenza, ad esempio, attendere o non attendere il ritorno di Cristo, credere alla risurrezione dei morti o all’immortalità dell’anima e alle pene eterne dell’inferno, o rivolgersi nelle preghiere a Dio anziché alla Madonna, od ancora osservare come giorno di riposo il sabato anziché la domenica. Al contrario il battesimo, per quanto possa essere amministrato in modo differente, è pur sempre la cerimonia di una volta e d’un momento che nella quotidianità della vita cristiana sembra interferire ben poco. In realtà le cose non stanno propriamente così. È vero che il battesimo non ha valore in sé ma è simbolo di qualcosa. Tuttavia, se Gesù lo ha voluto, è perché i simboli contano per la psiche umana. I segni, le manifestazioni esteriori, gl’impegni formali scandiscono e danno incisività ai comportamenti, agli atteggiamenti, agli stati d’animo. Il teologo cattolico Gramaglia per definire il battesimo, anziché sacramento, preferisce usare il termine “gesto”. Noi tutti ben sappiamo che i gesti contano. Il linguaggio dei gesti è più eloquente delle parole. Un gesto opportunamente espresso può disinnescare uno stato di tensione mentre quello inopportuno può scatenare conflitti furibondi. C’è una branca della psicologia che ne fa il suo specifico oggetto di studio. Perciò i gesti pesano, e valgono pure i modi e i momenti che li rendono opportuni. Così il battesimo per immersione esprime meglio d’altri il senso dell’identificazione con la morte e la risurrezione di Gesù. Per non dire del momento che rende il battesimo opportuno. Il battesimo dell’infante è chiaramente il meno opportuno dei momenti, perché esclude l’interessato dalla decisione e dalla cognizione dell’atto. Gli impedisce di fare incontrare il suo “sì” con il “sì” di Dio. Abbiamo prima citato quel bel pensiero di Paolo rivolto ai corinzi in cui appare chiaro l’incontro tra la volontà dei convertiti, che chiedono l battesimo, e l’azione di Dio che santifica e giustifica. Dov’è quest’incontro di volontà nel battesimo dei bambini?

Il battesimo dei bambini non è un semplice dettaglio perché della Chiesa determina la composizione, la coesione e l’organizzazione, la tensione spirituale, la forza morale e il ruolo nel mondo. In altre parole, determina la natura della Chiesa e la fedeltà al suo mandato. Scusate se è poco. Dicevamo di Tertulliano che, di fronte al costume del pedobattesimo importato a Cartagine dall’Egitto, levò la sua ferma protesta. Come osserva acutamente il cattolico Pierangelo Gramaglia, “passano 50 anni; Tertulliano non fu ascoltato e la chiesa di Cartagine ebbe subito la ricompensa; durante la persecuzione di Decio nel 250 le comunità si sgretolarono nell'apostasia e nella meschinità”. Era stata modificata la composizione della chiesa, in modo impercettibile ma sostanziale. I figli dei cristiani erano stati cooptati per procura non autorizzata dai diretti interessati. Così molti di loro, una volta cresciuti, divennero cristiani non perché gl’importasse di Cristo ma perché (per dirla con Croce) non poterono non dirsi cristiani. E così, di questo passo, la cristianità finì per identificarsi con tutta la popolazione, perse la connotazione di comunità di credenti per acquisire quella di civiltà culturalmente determinata, divenne la societas christiana. In alcuni idiomi la parola “cristiano” ha finito per significare semplicemente “persona”, a prescindere dal fatto che essa creda, non creda o in cosa creda. Il principio Cuius regio, eius religio non fu un’invenzione della Controriforma, risale alle conversioni forzate del IV secolo. Ma il vero periodo delle conversioni e dei battesimi di massa è l’alto medioevo, quando i popoli diventano cristiani al seguito della conversione dei loro capi: Clodoveo aderisce al cattolicesimo di Roma e tutti i franchi si fanno battezzare. In questo modello di societas christiana, dove il suddito e il cristiano si identificano in modo pieno e automatico, ciò che importa è pervenire quanto prima al battesimo; persino a discapito dell’itinerario catecumenale, cioè di quel lungo periodo di formazione dottrinale e di iniziazione alla vita cristiana che culmina con il battesimo. Scrive don Marco Busca, nel suo excursus di cui abbiamo detto, che «con i secc. VII-VIII la prassi catecumenale, già in decadenza verso la fine del V sec., è ormai del tutto scomparsa. L’elemento “culturale” decisivo consiste nella pratica identificazione tra l’Impero e il popolo cristiano per cui lo stesso battesimo, che segna l’ingresso nella chiesa, segna anche l’appartenenza all’Impero. Il rito del battesimo tende, progressivamente, ad essere assimilato al normale processo di socializzazione dentro la cristianità: per cui se nella Chiesa dei primi secoli il catecumenato era l’istituzione atta a promuovere la decisione libera e personale della fede, ora, nella societas christiana, doveva acquistare maggiore rilevanza l’atto stesso del battesimo, quale contrassegno fondamentale e pubblico di appartenenza nello stesso tempo alla società ecclesiastica e a quella civile. La scelta battesimale della fede, in un cristianesimo diffuso e “d’ambiente” tenderà a livellarsi su un cristianesimo di base, mentre il radicalismo intrinseco alla fede battesimale verrà raccolto dalle forme di vita monastica». Il battesimo dei bambini, pratica sorta nel II secolo ma “stabilmente acquisita dal XII secolo in avanti” ha la sua piena giustificazione logica in questo modello di cristianizzazione dell’impero. Di pari passo con il processo di cristianizzazione del suddito “dalla culla alla bara”, ed oltre, si verificò il processo di collusione della Chiesa con il potere, a causa del quale essa perse la tensione escatologica e si convinse d’essere il regno di Dio in terra.

In seguito a tale percorso storico oggi ci si ritiene cristiani semplicemente perché si è iscritti in un registro dopo essere stati battezzati da bambini. E ci si ritiene buoni cristiani perché basta una confessione, un Mea Culpa, per pulirsi la coscienza dalle illegalità commesse nella quotidianità. Grazie a questo modo “all inclusive” d’intendere il cristianesimo e la cristianità – come osservava il lettore di un giornale – ecco quello che oggi si presenta ai nostri occhi: i mafiosi vanno a messa, i tangentisti ricevono l’eucarestia, i figli di assassini vengono battezzati assieme ai figli della gente onesta e i componenti della banda della Magliana sono tumulati nelle chiese della Capitale.

Nel maggio del '93, nella Valle dei Templi di Agrigento, il Papa grida ai mafiosi: «Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio». Ma i mafiosi non ascoltano il Papa. Molti preti e vescovi sono amici loro, persino parenti. Costituiscono le cosiddette famiglie mafioso-sacerdotali. E poi, loro credono d'essere religiosi, perché sono stati battezzati e si confessano; sono devoti, conservano nel portafoglio l'immaginetta della Madonna o di Santa Rosalia, portano al collo grandi crocifissi d'oro, organizzano le feste patronali raccogliendo i soldi per pagare cantanti e fuochi d'artificio, da latitanti ricevono nei segreti rifugi il prete per farsi celebrare la messa, leggono la Bibbia.

C’è un bell’articolo di Umberto Santino, sull’argomento, che aiuta a riflettere. Che spiega come mentalità religiosa e mentalità mafiosa possano convivere e persino coincidere. Descrivendo oltre un secolo di rapporti tra la Chiesa , il mondo cattolico siciliano e la mafia, che ha visto talvolta levarsi figure eroiche ma più spesso torbidi legami di connivenza, cita un episodio seguito alla strage di Ciaculli del ’63. Allora il pastore della piccola comunità valdese di Palermo aveva fatto affiggere un manifesto che condannava esplicitamente la violenza mafiosa. Così il Vaticano, imbarazzato dalla presa di posizione dei valdesi mentre la curia palermitana taceva, scrisse al cardinale Ruffini, arcivescovo del capoluogo siciliano, per invitarlo a promuovere un’azione al fine di dissociare la mentalità mafiosa da quella religiosa e di indurre questa “ad una più coerente osservanza dei principi cristiani”. Per tutta risposta Ruffini dichiarò che la mafia non esiste, che esistono solo delinquenti comuni, tutt’al più vi sono “gruppi di ardimentosi” mobilitati da alcuni capi. Che è in corso una campagna per denigrare una terra che ha dato i natali a tanti uomini illustri. Con la guerra di mafia degli anni ’80, le stragi e la generalizzata condanna dell’opinione pubblica, per la prima volta la Chiesa prende una netta posizione attraverso le parole del Papa e del cardinale Pappalardo. Vengono coniate nuove definizioni, come “peccato sociale” e “struttura di peccato”, vengono gettate le basi per una “pastorale antimafia”. Ma a dimostrazione del fatto che la Chiesa e il mondo cattolico vanno ben oltre la comunità dei credenti, la denuncia non poté andare oltre un certo punto. Infatti le omelie dovettero fermarsi quando occorreva affrontare il nodo delle connivenze con il livello politico, con il sistema di potere ove i cattolici erano largamente presenti, e bisognava chiarire il ruolo della Chiesa all’interno di questo sistema di potere. Ma “a cosa alludeva il sostituto della segreteria di Stato – si chiede l’autore dell’articolo – nella lettera al cardinale Ruffini del 1963 quando parlava di mentalità mafiosa e mentalità religiosa? Il discorso allora non fu sviluppato ma successivamente non sono mancati contributi significativi. Teologi, moralisti, sociologi hanno sottolineato che c'erano e ci sono concezioni, linguaggi, riti, pratiche, che spiegano come in società ufficialmente cristianizzate si possano affermare e istituzionalizzare comportamenti e organizzazioni criminali. I mafiosi devoti, da Michele Greco ad Aglieri, assidui lettori della Bibbia e di testi edificanti e con altarino da latitanza, come pure i sicari di Medellín che pregano Maria Ausiliatrice prima di recarsi a compiere il loro omicidio quotidiano, condividono una religiosità che è fatta di pratiche esteriori, di elemosine e processioni, di frequentazioni con uomini di Chiesa che li esortano al pentimento, assicurando che Dio non farà mancare il suo perdono. Qualcuno ha visto nel culto dei santi come intermediari tra Dio e gli uomini qualcosa di molto simile al clientelismo, una sorta di proiezione celeste della pratica della raccomandazione; certamente l'autoritarismo della struttura gerarchica non aiuta a promuovere la partecipazione democratica e un'etica che dà maggiore importanza agli "atti impuri" che ai comportamenti sociali non stimola i fedeli a diventare cittadini impegnati per il rinnovamento della società” (U. Santino, “La mafia è male, però…”, Narcomafie, lu/ago 2001).

Gesù disse: “Chi avrà creduto e sarà stato battezzato, sarà salvato”. Ma la Chiesa preferisce battezzare a prescindere dalla capacità di credere perché ciò è funzionale al sistema di potere. Preferisce la quantità alla qualità. Così molti entrano in chiesa solo quando si battezzano; o, tutt’al più, quando si sposano e per i loro funerali. La parrocchia si riduce per tanti ad un ufficio anagrafico. Ma si continua a battezzare a prescindere che si creda. Vengono “battezzati” tutti. Lo si fa – si afferma – perché il battesimo è strumento indispensabile di salvezza. Ma se il battesimo costituisce un viatico per la salvezza come mai milioni di battezzati non credono in nulla o affermano di credere mentre commettono le peggiori nefandezze? Come mai le nostre carceri sono sovraffollate di battezzati, quindi di membri di chiesa? Così, intuitivamente, non si avverte che qualcosa non funziona in questo meccanismo? Se Gesù ha ordinato il battesimo di persone informate, credenti e consenzienti (o, meglio, richiedenti) avrà avuto le sue buone ragioni logiche, no? Escludendo l’interessato, come avviene per l’infante, dalla decisione e dalla cognizione dell’atto non sorge il dubbio che in realtà non stiamo facendo un cristiano ma soltanto un cattolico, un luterano o un anglicano? Qualcuno ha detto: “Credo che al di là della spiegazione ufficiale data dalla Chiesa, (rimozione del peccato originale, e misura precauzionale nel caso di morte prematura del bambino) vi sia un altro significato. Credo che la Chiesa voglia mettere un sigillo sull'anima del bambino per segnarla per prima”, cioè prima d’altre organizzazioni concorrenti. Una forma di peculato per prevenire l’abigeato, diremmo in termini giuridici. Giochi di potere, che c’entrano poco con la salvezza delle anime.


Conclusione

Confrontando il messaggio neotestamentario, quindi le disposizioni di Gesù e degli apostoli, con l’evoluzione storica del cristianesimo, salta agli occhi una generale tendenza ad alterare prassi ed insegnamenti rispetto a tali disposizioni talvolta in modo assai significativo. Sono i documenti che parlano. Le chiese cristiane odierne divergono su molte dottrine e molte pratiche rispetto alla chiesa primitiva. Il battesimo non sfugge a questa regola al punto da sfiorare, quando non proprio centrare, il travisamento del messaggio originario. C’è chi ha voluto rimarcare questo contrasto con una constatazione secca e concisa: Gesù dice: Battezzare (cioè, immergere)? Le autorità religiose dicono: Aspergere. Gesù dice: “Prima credere e poi battezzare”? Le autorità religiose dicono: “Prima battezzare e poi credere”. Gesù dice: “Voi siete miei amici, se fate le cose che vi comando” (Giovanni 15:14)? Le autorità religiose dicono:… Che dicono? Farfugliano di tradizione, di ispirazione progressiva, di improbabili concordanze con il testo biblico. Più obiettivamente Alessandro Esposito, pastore della Chiesa valdese di Trapani, ammette: “Risulta assai più fondata la lettura che del battesimo, in seno alla tradizione sorta dalla Riforma, fanno gli anabattisti, i quali riconoscono soltanto il battesimo degli adulti che segue alla dichiarazione di disponibilità al cambiamento. Purtroppo l'anabattismo fa parte di quel ramo della tradizione protestante che la riforma cosiddetta “classica” sconfessò e perseguitò: proprio a causa, probabilmente, del fatto che le posizioni che esso sosteneva, per quanto assolutamente rivoluzionarie, risultavano al contempo pericolosamente riscontrabili e, pertanto, difendibili e degne di credito. Ma la storia della chiesa è, ahinoi, storia del potere assai più che della verità”. Presa di posizione ammirevole da parte di Esposito, a maggior ragione se si pensa che è minoritaria all’interno della sua Chiesa.

Non possiamo nasconderci che il battesimo sia di fatto anche un rito d’iniziazione per l’ingresso nelle chiese che lo somministrano, sebbene, per amor di precisione esso dovrebbe meno particolaristicamente iniziare alla vita cristiana, senza connotazioni denominazionali. Invero ci sono chiese che accettano di battezzare, chi faccia richiesta in tal senso, senza pretendere di iscrivere il catecumeno nei propri registri. Può infatti esserci chi vuol testimoniare con questo gesto il proprio desiderio di entrare a far parte di quella Chiesa i cui membri Dio solo conosce e che purtroppo, come dovremo constatare, non necessariamente coincidono con i nomi segnati nei registri di qualsivoglia denominazione particolare. Alla Chiesa ci si aggiunge (cf Atti 2:41) ma è a Cristo che ci si unisce. È l’unione a Cristo che consente agli uomini di sentirsi fratelli. Ma la componente comunitaria del battesimo c’è ed è rilevante. Non ci si battezza da soli: c’è un ministro che battezza e c’è un’assemblea che prende atto di questo gesto deciso dal catecumeno, di questo impegno ad appartenere al Salvatore, di indirizzare la propria vita verso un obiettivo ben preciso, con quella forte compenetrazione tra presente e futuro che il Moltmann riassume nella formula “escatologia battesimale”. La componente comunitaria comunque, anche se forte, fa da contesto e testimone ai due grandi “sì”, che sono appunto due; né uno né tre; due: quello dell’uomo che risponde alla chiamata e quello di Dio che chiama. Tra tutte le definizioni del battesimo, che troviamo o ricaviamo dalla Bibbia, quella che ritengo più significativa ce la offre l’apostolo Pietro: il battesimo è “la richiesta di una buona coscienza fatta a Dio” (1Pt 3:21). Mi piace perché prende atto del peccato (presuppone l’esistenza di una cattiva coscienza) ma per passare oltre. Sempre Pietro aveva collegato il battesimo al perdono dei peccati (cf 2:38). Ma il perdono dei peccati ha un senso se si smette di compierne ancora, se si è disposti a cambiare il proprio animo, il proprio stile di vita, i propri obiettivi. Senza tale tensione propositiva verso un “camminare in novità di vita” si scade inevitabilmente verso quella teologia “negativo-purificativa” e quella dimensione unicamente rituale di cui parlava don Busca. Verso quella dimensione magico-propiziatoria che non è più invocazione a Dio ma è un tentarlo (cf Mt 4:7), uno sfidarlo, cioè un volere appropriarsi delle sue virtù senza credere o importarsene del suo amore. E qui andiamo al rapporto personale con Dio che non tollera alcuna procura. La richiesta corretta di una buona coscienza, intesa come gesto battesimale, è quella fatta dal titolare della coscienza, non da altri per lui. Perché, come possiamo vedere, rendere figli di Dio per volere d’altre persone non è che dia poi tutti questi gran risultati. Il battesimo insegnato nella Bibbia è accettazione cosciente del Cristo, professione di fede nella sua morte e risurrezione. Il bambino che crede per mezzo di un altro perché peccò per mezzo di un altro è un’elucubrazione agostiniana. Come abbiamo visto, il ragionamento di Paolo esclude ogni fantasticheria sul peccato originale e sulla rigenerazione battesimale. Sulla scia delle affermazioni di Gesù, che dichiara il regno dei cieli appartenere ai fanciulli, egli dà per scontato che i bambini a maggior ragione appartengono al Signore se cresciuti in una famiglia cristiana. Non è necessario inventarsi – come fanno alcuni teologi – una sorta di fede corporativa biblica, non personale ma legata al gruppo, che giustifichi il battesimo dei bambini per questa fides aliena poggiante sulla fede dei genitori, dei padrini o della chiesa. Però è vero che i potenti angeli di Dio vegliano sulle famiglie dei cristiani e tutti i loro componenti beneficiano di questa particolare protezione. “L' angelo del Signore si accampa intorno a quelli che lo temono, e li libera” (Salmo 34:7). Inoltre, “la preghiera sincera di una persona giusta è molto efficace” (Gc 5:16). I genitori possono molto per la salvezza dei loro figli, non certo facendogli versare un po’ d’acqua sulla testa, ma pregando con fervore Dio perché li protegga e, cosa non meno importante, impartendo loro una sincera educazione cristiana; facendo loro respirare aria di cielo in famiglia. Il focolare cristiano gode di una sorta di extraterritorialità, come una rappresentanza consolare; si trova nel mondo ma è preso in consegna dagli angeli di Dio. I demoni hanno meno libertà d’azione sui suoi componenti. Un compito particolare degli angeli sembra essere quello di lavorare perché tutta la famiglia si salvi e, nella misura del possibile, nessuno dei suoi componenti vada perduto. È come se la preghiera delle persone care dia ulteriore autorità agli angeli e ne sottragga alle potenze delle tenebre. Non dobbiamo comunque dimenticare che la salvezza è un fatto individuale: ognuno di noi, giunto all’età della ragione, sceglie da sé il proprio destino e nessuno può sostituirsi alla sua volontà. Vorrei concludere spendendo due parole sulla consuetudine di presentare i bambini alla comunità ecclesiale. Quest’uso si riscontra soprattutto, ma non esclusivamente, in quelle chiese che non praticano il pedobattismo: il ministro di culto, se richiesto dai genitori, affida a Dio il bambino con una preghiera in presenza e con il consenso dell’assemblea. Se vogliamo questo è un modo “forte” di affidare il pargolo a Dio perché implica un impegno pubblico dei genitori accompagnato dall’amen e dalla testimonianza dell’intera comunità. Riproponendo in qualche modo l’esempio di Gesù che si battezzò da grande ma a quaranta giorni dalla nascita fu presentato al Tempio, così come si faceva con tutti i primogeniti di cui si richiedeva la consacrazione a Dio. Ci sono pedobattisti che ravvisano in questa cerimonia una sorta di battesimo camuffato e anch’esso non autorizzato da alcuna testimonianza biblica. Dirò di più: probabilmente il battesimo dei bambini è nato proprio così: inizialmente come “presentazione” dell’infante alla comunità, acquisendo poi connotati di “propiziazione” e infine come un battesimo a tutti gli effetti e relativa iscrizione all’albo dei fedeli. Però finché la presentazione, come azione libera e spontanea, si limita ad essere impegno e consacrazione, richiesta d’aiuto e di protezione come ravvisarvi un atto arbitrario e in contrasto con l’insegnamento biblico? Magari le chiese pedobattiste tornassero sui propri passi, incoraggiando la presentazione dei piccoli e riservando il battesimo alla libera scelta del fedele adulto! Come abbiamo visto si levano voci in tal senso persino all’interno della Chiesa cattolica; voci che auspicano un lungo catecumenato che si apra con una semplice cerimonia d’accoglimento del bambino e riservi il battesimo alla fine del percorso. Apprezziamo altresì, come un primo passo però importante, la decisione di alcune chiese riformate di consentire ai genitori di scegliere tra il battesimo dell’infante e la semplice presentazione a Dio, rinviando il battesimo all’età della ragione quando il congiunto potrà essere “parte interessata alla decisione”.

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