martedì 1 luglio 2008

Il defilé degli indifferenti

Ricordate le battute surreali di Cochi e Renato? Una faceva all’incirca così: “Incidente aereo, dispersi i passeggeri. Decine di volontari all’affannosa ricerca dei portafogli”. Questa battuta rende l’immagine immediata di come si possa essere molto interessati alle persone e al contempo del tutto indifferenti. Ricordate l’incipit della parabola del buon samaritano? “Un uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico, quando incontrò i briganti. Gli portarono via tutto, lo presero a bastonate e poi se ne andarono lasciandolo mezzo morto” (Lc 10,30). Ovviamente l’interesse dei malviventi per quell’uomo era del tutto strumentale: egli rappresentava esclusivamente una risorsa per la loro bramosia di denaro; era solo un salvadanaio ambulante che poteva tranquillamente essere rotto per accedere alle monetine. La strada che portava da Gerusalemme a Gerico era tortuosa e attraversava un territorio desertico: un luogo da sempre ideale per tendere agguati ai viandanti allo scopo di rapinarli. E così era successo pure al nostro uomo. Fortuna volle che da lì passasse un sacerdote, un uomo di Dio. Questi vide il malcapitato giacere in terra, davvero un brutto spettacolo, e pensò bene di… scansarlo, passando dall’altra parte della strada, e di proseguire il cammino come se nulla fosse. Che delusione! Ma ecco passare un altro viandante: è un levita del tempio, un diacono, uno meglio abituato a sporcarsi le mani, certamente lui si fermerà a soccorrere il ferito. E invece no, anch’egli aggira l’ostacolo e prosegue senza fermarsi. Il tempo scorre e se il nostro uomo non è morto presto lo sarà. Ma ecco scorgersi in lontananza la sagoma di un animale, anzi di due, sono due somarelli, il primo è cavalcato da un uomo mentre il secondo porta un grosso basto: è chiaramente un mercante, uno del popolo anche lui, si spera che almeno questi si fermi a soccorrere il malcapitato. Ma un momento, l’uomo veste alla foggia inconfondibile dei samaritani, è uno di quei luridi meticci incirconcisi, figuriamoci se quel bastardo si fermerà, è finita. E invece no, il “lurido bastardo” si ferma, sta rischiando grosso: i predoni potrebbero essere ancora nelle vicinanze e anche lui, con il suo carico appariscente, potrebbe finire vittima di quei malviventi. Si scorge nel suo volto un bagliore di compassione. Si china sul ferito, ne medica le piaghe con olio e vino, le fascia con le bende che ricava dalla propria sottoveste, poi lo carica sul proprio asino e lo trasporta in una locanda di sua fiducia dove lo assiste fino all’indomani. Dopo avere affidato il poveretto al locandiere, a cui anticipa una somma cospicua di denaro, riprende il viaggio con la promessa che al suo ritorno gli avrebbe rimborsato le eventuali spese ulteriori.

In questo magnifico racconto, al contempo sintetico e traboccante d’informazioni, il motivo dominante è l’indifferenza degli uomini per i loro simili. È sottinteso che appartengano tutti alla stessa comunità: è giudeo il viandante aggredito, lo sarebbero anche i suoi aggressori come lo sono certamente i due religiosi che passano oltre. Davvero un bel quadretto di solidarietà comunitaria. L’unico che mostra spirito compassionevole è un samaritano, uno cioè a cui non è richiesta solidarietà e che avrebbe tutte le ragioni umane per tenersi fuori da quel sociodramma, e che tuttavia, per sola umana solidarietà, decide (o meglio, non può fare a meno) d’intervenire.

In che occasione e per quale motivo fu narrata questa storia? Presto detto. Un maestro della legge (oggi diremmo un teologo biblista) è favorevolmente impressionato dall’insegnamento di Gesù e decide d’interrogarlo per metterne ulteriormente alla prova la dottrina. Gli si rivolge con il titolo di Rabbi, per cui riconosce già in lui un collega. La prima domanda verte sulla via per ottenere la salvezza. Se i tre passi paralleli di Mc 12,18-34, Mt 22,34-40 e Lc 10,25-37 si riferiscono al medesimo episodio, viene rivolta a Gesù una duplice domanda:
1). Cosa bisogna fare per avere la vita eterna.
2). Qual è il più importante di tutti i comandamenti.
Perché le due domande insieme? Per la semplice ragione che i giudei facevano derivare la salvezza, di fatto esclusivamente, dall’osservanza scrupolosa dei comandamenti. Al ritorno dall’esilio babilonese avevano messo sù un sistema giuridico imponente e vessatorio, di ben 613 precetti, che disciplinava nei minimi dettagli i doveri nei confronti di Dio e degli uomini. Erano le cosiddette “buone opere” (mitzvot) che ogni ebreo devoto era (ed è ancor oggi) tenuto a compiere. Erano tutte ritenute importanti; tuttavia di tanto in tanto sorgeva la questione di quale fosse, in questa selva intricata, la più importante di tutte. Con questa duplice domanda accademica il nostro maestro della legge intendeva verificare se il rabbi Joshua di Galilea fosse ferrato sull’argomento e se anche lui si fosse posta questa domanda che circolava tra i rabbini di Gerusalemme.

Gesù, pur denotando padronanza delle Scritture, sorprende il nostro rabbino con una risposta inattesa. Anziché scegliere una delle 613 mitzvot da dichiarare più importante, Egli indica due comandamenti contenuti nei libri del Deuteronomio e del Levitico che associa insieme nel duplice comandamento dell’amore. “Gesù gli rispose: - Ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il comandamento più grande e più importante. Il secondo è ugualmente importante: Ama il tuo prossimo come te stesso. Tutta la legge di Mosè e tutto l'insegnamento dei profeti dipendono da questi due comandamenti” (Mt 22,37-40). L’insegnamento rabbinico si basava sulla servile esecuzione di un soffocante numero di precetti. In questo duplice comandamento, invece, Gesù riassume lo spirito di tutta la legge; Egli pone in mano agli uomini le chiavi per comprendere le ragioni di quel che viene loro comandato e li rende responsabili delle loro azioni.

Il maestro della legge avverte le implicazioni rivoluzionarie delle parole di Gesù e sente in qualche modo di condividerle, ma il suo schema culturale lo condiziona pesantemente. Ciò traspare dall’ulteriore domanda che pone a Gesù: “Ma chi è il mio prossimo?”. È un’osservazione tutt’altro che superficiale. Nel definire i doveri nei confronti degli uomini, secondo una concezione universalmente condivisa dalle antiche culture, era necessario individuare chi fosse il prossimo, ovvero chi dovesse essere considerato membro del gruppo e chi no. Anche tra i giudei, questa linea di demarcazione era indispensabile per identificare quelle persone che potevano accedere alla solidarietà prevista dai precetti religiosi, e quindi verso cui sentirsi in obbligo. Presso gli antichi ebrei erano considerati membri del gruppo, oltre al popolo di Dio nel suo complesso, anche gli stranieri che vivevano in pace entro i confini della nazione. Al tempo di Gesù le cose erano cambiate; da secoli la Giudea aveva perso la propria indipendenza ed era diventata terra di conquista. Vi dimoravano come ospiti indesiderati greci, siriani e romani, e quindi non era più sufficiente il criterio della residenza per essere considerati membri della comunità. Inoltre all’interno della società giudaica si erano accentuate le differenziazioni di classe; i farisei tendevano ad escludere dal gruppo solidale chi non si conformava alle rigide prescrizioni della legge rabbinica; gli esseni esigevano che si dovessero odiare “tutti i figli della tenebra”; come dire che entrambi facevano gruppo a sé. In genere il popolo non si sentiva in obbligo d’aiutare i delatori, gli eretici e gli apostati, e men che mai i nemici personali. Gli unici stranieri che potevano contare sulla solidarietà della comunità erano i proseliti, cioè quelli pienamente convertiti alla fede israelita. Il maestro della legge chiede a Gesù di dire la sua su questo dibattito in corso tra i tecnici della Torah, con la speranza magari di definire eventuali ulteriori esclusioni non ancora prese in considerazione.

Gesù sorprende ancora una volta il nostro rabbino con una risposta inattesa; e per meglio accompagnarlo nel proprio ragionamento gli racconta una parabola: quella che abbiamo riportato in apertura, poi nota con il nome “del buon samaritano”. Sul momento la storia segue uno schema prevedibile; anche lo stesso contesto in cui si svolge potrebbe aver preso spunto da un avvenimento di cronaca: le aggressioni sulla strada per Gerico erano un fatto purtroppo ordinario. Perfino la presenza insensibile del sacerdote e del levita potrebbe essersi riferita alla cronaca, e comunque non avrebbe sorpreso gli ascoltatori poiché i religiosi non godevano di buona reputazione. Qui Gesù sembra criticare coloro che alzavano steccati nei confronti del popolo, come i farisei che consideravano prossimo solo gli appartenenti alla loro cerchia. Ma il suo insegnamento va ben oltre. Ecco quindi pronto a scattare il colpo di scena. È tipica nelle parabole di Gesù la costruzione detta “a doppio vertice”: quando il racconto sembra giungere alla naturale conclusione, ecco che riprende quota e proprio lì viene inserito l’insegnamento più importante; in tal caso esse vengono anche definite con il “peso a poppa”, perché la cosa che conta viene introdotta alla fine. Secondo “la regola del tre”, tipica dei racconti popolari, dopo il sacerdote e il levita l’ascoltatore si aspetta il passaggio di un altro viandante, e precisamente di un ebreo non appartenente alla casta dei religiosi, che soccorre la vittima dei predoni, e che quindi si dimostra più umano dei primi considerando il ferito suo prossimo. Ma ecco che qui Gesù come terzo elemento inserisce un samaritano, cioè una persona considerata dagli ebrei un nemico, oggetto del massimo disprezzo ed esecrata persino nella liturgia della sinagoga. Perché fare interpretare il ruolo dell’uomo misericordioso proprio a un samaritano? E che esempio di misericordia!

Se Egli si fosse attenuto allo schema di racconto che si attendeva il suo ascoltatore, la sua definizione di “prossimo” non si sarebbe potuta sganciare da una logica d’appartenenza ad un gruppo, sia pur ampio quanto tutto il popolo d’Israele, e non si sarebbe potuta sganciare da una logica di “dovere”, dove il problema è sempre esterno a noi e il nostro interesse rimane sempre preminente su quello altrui. In questa logica, volendo capire se un determinato individuo mi è prossimo, non posso evitare di chiedermi cosa egli rappresenti per me, sin dove arriva il mio obbligo, cosa si può pretendere da me. Mi chiederò: “Se mi fermo a soccorrere quest’uomo, che cosa mi capiterà?”. Anche quando lo avrò individuato come prossimo, vi sarà sempre una barriera che ci divide e che divide i suoi interessi dai miei. Per non dire di tutte le motivazioni che posso accampare per non riconoscerlo come prossimo. Non a caso Gesù non spiega i motivi per cui il sacerdote e il levita ignorano il malcapitato e passano oltre. Essi avrebbero semplicemente potuto non riconoscersi in dovere di soccorrere l’uomo in quanto questi non apparteneva alla loro casta, ma avrebbero persino potuto appellarsi al precetto mosaico che vietava loro di non toccare i cadaveri per non contaminarsi. Accostandosi a quell’uomo, che avrebbe potuto essere morto, essi avrebbero trasgredito la legge. Avrebbero persino potuto sostenere che il loro era stato un atto d’amore. Amore per Dio e per i suoi precetti. O anche, qualcuno ha suggerito ironicamente per attualizzare, i due religiosi erano diretti a Gerusalemme per partecipare alla “Commissione per la riorganizzazione della strada di Gerico”. Soccorrendo l’incidentato si sarebbero lasciati impantanare in un intervento su scala individuale mentre era importante, nell’interesse generale, che essi non mancassero ai lavori per dare il loro contributo alla soluzione radicale del problema. Comunque sia, qualunque fosse stata la motivazione addotta: dalla non pertinenza, allo zelo per Dio, all’interesse generale, resta il fatto che un uomo bisognoso di soccorso non è stato soccorso.

Ecco allora che Gesù sceglie come agente misericordioso un samaritano che, agli occhi dell’ascoltatore, ha in comune con un giudeo il solo fatto di essere un uomo. Venendo in soccorso del malcapitato, egli non risponde ad alcuna logica d’appartenenza che non sia quella del genere umano. La domanda che si pone il samaritano non può essere: “Cosa mi capiterà soccorrendo quest’uomo?”. Perché in tal caso non si sarebbe fermato. Egli, mosso a compassione (qui sta la spinta al suo farsi vicino), si chiese invece: “Se non mi fermo a soccorrerlo, cosa succederà a quest’uomo?”. Non pretende che quell’uomo gli sia prossimo, è lui stesso a farsi prossimo nei suoi confronti; e, sempre in quest’ottica, il suo intervento trova la sua misura nell’entità del bisogno. Egli farà tutto ciò che è nelle sue possibilità per venire pienamente incontro alle necessità di chi in quel momento è nel disagio. Vediamo che così Gesù sposta la domanda del rabbino dall’esterno (“Chi è l’altro?”) all’interno (“Chi sono io?”). Sono uno che ci tiene alle distanze, a ciò che mi divide dagli altri? Che si chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà? O quali siano i meriti necessari per guadagnarsi la vita eterna? Oppure sono uno che accetta di lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro, che – andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo – accetta di fargli spazio nella propria vita? Sono uno disposto a interrompere il mio viaggio, a mettere tra parentesi le mie mete e i miei obiettivi, a fare dono all’altro del mio tempo?

Il buon samaritano è figura del Figlio di Dio che ha scelto di lasciare la gloria del suo regno celeste per farsi prossimo dell’umanità ferita e depredata dalla potenza del male. La sua azione solidale si fonde con la sua stessa esistenza. Non è un valore accessorio da vivere in situazioni o ambiti particolari. Noi rispondiamo alle sue attenzioni amorevoli, facendoci a nostra volta agenti di solidarietà vibrante di partecipazione personale. Il che è possibile soltanto nell’ambito di una concezione rinnovata della vita. Non è osservando legalisticamente la sua legge che gli dimostriamo riconoscenza; sarebbe solo una parvenza di giustizia. Noi rispondiamo al suo amore soltanto amando l’umanità sofferente. Il vero servizio di Dio non si compie nel tempio, ma ovunque ci sono persone nel bisogno e nella sofferenza. «Non tutti quelli che dicono: "Signore, Signore!" entreranno nel regno di Dio. Vi entreranno soltanto quelli che fanno la volontà del Padre mio che è in cielo» (Mt 7,21). E qual è questa volontà? Ce la indica lo stesso Gesù nel discorso sul giudizio delle genti:

"Quando il Figlio dell'uomo verrà nel suo splendore, insieme con gli angeli, si siederà sul suo trono glorioso. Tutti i popoli della terra saranno riuniti di fronte a lui ed egli li separerà in due gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dalle capre: metterà i giusti da una parte e i malvagi dall'altra."Allora il re dirà ai giusti:- Venite, voi che siete i benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché, io ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi."E i giusti diranno:- Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti?"Il re risponderà:- In verità, vi dico: tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!"Poi dirà ai malvagi:- Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che Dio ha preparato per il diavolo e per i suoi servi! Perché, io ho avuto fame e voi non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e non mi avete dato i vestiti; ero malato e in prigione e voi non siete venuti a trovarmi."E anche quelli diranno:- Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, forestiero, nudo, malato o in prigione e non ti abbiamo aiutato?"Allora il re risponderà:- In verità, vi dico: tutto quel che non avete fatto a uno di questi piccoli, non l'avete fatto a me” (Mt 25,31-45).

Qualcuno ha visto nell’azione del samaritano, ancor prima che un atto umanitario, un atto di trasgressione di un modello culturale. La sua compassione lo spinge a trasgredire quella norma, non scritta ma non per questo meno vincolante, che vieta i rapporti tra giudei e samaritani. L’amore verso questo giudeo ferito è un vero atto sovversivo; e, in generale, l’amore è sempre sovversivo nei riguardi di ogni ordinamento nella misura in cui questo contiene elementi d’ingiustizia, oppressione, discriminazione. Forse aveva in mente questa parabola quell’autore francese quando affermò che talvolta bisogna avere il coraggio di mettersi nell’illegalità per poter continuare a rispettare la legittimità. Al contrario, coloro che si appellano rigidamente alla legge e alle consuetudini, spesso è perché il loro cuore è incapace di compassione.

Per approfondire: Una civiltà al crepuscolo

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