domenica 28 dicembre 2008

Natale, vale o non vale?

La ricorrenza natalizia oltre ad essere la più bella festa del mondo cristiano ci è pure invidiata dalle altre fedi e dalle altre culture. Pensiamo ad Hanukkah, la festa ebraica delle luci che commemora la riconsacrazione del tempio di Gerusalemme dopo la cacciata dei seleucidi. Ebbene, come ha osservato lo scrittore ebreo Herman Wouk, essa era “una semifestività di mezzo inverno” che “non sembrava quasi una festa”; erano normali giorni di lavoro, senza “ufficiature in sinagoga né rotoli di pergamena da leggere né tradizioni pittoresche da osservare né storia biblica da narrare”. Consisteva giusto in una melodia che s’intonava alla sera e in otto candeline arancione pallido, accese per otto giorni sul davanzale, per ricordare il miracolo della menorà. Questa ricorrenza minore, appena sollevata dai pochi spiccioli e dai dolci fritti di fecola e uova che nonni e genitori regalavano ai bambini, era destinata a richiamare “per sempre la tristezza dei crepuscoli invernali… poca cosa se paragonata al Sukkoth, a Pasqua o anche al sabato”. E così fu sino al XX secolo. Ma Hanukkah possiede una particolarità: ha inizio il 25 del mese di kislev, cioè all’incirca quando ricorre il Natale dei cristiani. E con la crescente popolarità di questo come maggiore festività del mondo occidentale, Hanukkah cominciò a rappresentare l’opportuna occasione per scambiarsi i doni in quel periodo come sostituto ebraico del Natale. Ma se persino gli ebrei sono rimasti condizionati da questa festa cristiana, essi, che verso la figura del Cristo non serbano la migliore delle simpatie, quanto più ha affascinato altre fedi e culture. A cominciare dall’altro monoteismo intransigente che è la religione islamica, la quale non vede in Gesù-Issa un falso messia bensì un vero profeta superato solo da Maometto. I musulmani riconoscono la ricorrenza del Natale, che chiamano “Aid al Ualid”, sebbene non la onorino come le altre ricorrenze islamiche. Ma quelli che vivono tra i cristiani, i meno integralisti, hanno imparato ad apprezzare le atmosfere che crea e l’attendono con simpatia. E proprio il fascino dell’atmosfera natalizia ha fatto sì che anche altre culture molto lontane dalla nostra, come quella cinese e giapponese, in qualche modo se ne appropriassero. In Giappone sono soprattutto i fidanzati a scambiarsi doni sotto l’albero, mentre l’uso di mettere le decorazioni natalizie è più recente in Cina e limitato alle sole aree urbane. Qualcuno ha fatto notare che persino Babbo Natale è cinese dato che gran parte dei doni che il mondo occidentale si scambia e degli stessi alberi sintetici è prodotto in quel Paese.

Ma, nonostante questa generale popolarità, all’interno del mondo cristiano la ricorrenza natalizia non viene vista con unanime simpatia. Non mi riferisco ai neopagani d’occidente, agli atei o anche solo agli indifferenti che di Cristo pensano non aver bisogno. Ma parlo di quei cristiani che accettano riconoscenti Gesù come loro personale salvatore. Ebbene, alcuni di questi ultimi sono in varia misura critici nei confronti del Natale. A cosa si deve questa ostilità? Due sono sostanzialmente le ragioni che essi adducono a sostegno di quest’atteggiamento critico. Una d’ordine storico e l’altra d’ordine etico. E sono ragioni più che fondate.

I cristiani detrattori del Natale affermano che questa festività non ha fondamento biblico, non è stata comandata cioè né da Gesù né dagli apostoli, e che ha anzi un fondamento pagano ben documentato. Hanno ragione. Il fatto che essa cada il 25 dicembre la dice lunga sulla sua reale origine. Il 21 dicembre è il giorno del solstizio d’inverno, quello cioè in cui il sole raggiunge la sua minima altezza rispetto all’orizzonte, il suo moto apparente sembra fermarsi (solstitium = sole fermo), per poi prendere a risalire nei giorni che seguono. Questa inversione apparente del moto diviene visibile tre/quattro giorni dopo e dal 25 dicembre il sole sembra rinascere a nuova vita e le giornate cominciano a crescere. Tale fenomeno astronomico, ben noto agli antichi, venne associato ai vari culti solari di culture molto distanti tra loro, dai celti agli arabi. Con la sintesi religiosa, iniziata in età ellenistica e compiuta in età romana, anche i culti solari subirono un interscambio sincretistico e si mescolarono tra loro a partire dai simboli. Helios, Apollo, Serapide, Dusares, Mitra ed altre divinità finirono per condividere caratteri solari. Persino il Cristo risorto venne raffigurato con la corona raggiata e il carro solare. Nel 272 l’imperatore Aureliano sconfisse Zenobia, regina di Palmira, grazie all’aiuto determinate della città di Emesa. L’appoggio dei sacerdoti di Emesa, cultori del dio Sole Invitto, bendispose Aureliano che adottò questo culto e trasferì a Roma i suoi sacerdoti. Prima di lui gl’imperatori d’origine siriaca Caracalla ed Eliogabalo erano stati adoratori del sole ma Aureliano fece del Sol invictus la religione ufficiale dell’Impero. E, a partire dal 274, il 25 dicembre divenne ovunque sul territorio di Roma il Dies Natalis Solis Invicti. In questo modo Aureliano manifestava la propria gratitudine alla divinità solare e al contempo cercava di dare coesione culturale alle varie province dell’Impero. Anche Costanzo Cloro e il figlio Costantino furono cultori del dio Sole. Le monete ufficiali di Costantino portavano l’iscrizione Soli Invicto Comiti, ovvero “al Compagno Sole Invitto”. Fu Costantino, nel 321, a stabilire che il giorno del Sole (la futura domenica) fosse dedicato al riposo; e sempre lui, nel 330, fece coincidere per decreto la natività di Gesù con la festività pagana della nascita del Sol Invictus. Nel 337 papa Giulio I ratificò questa decisione in modo che – come scrisse Giovanni Crisostomo nel 390 – “in questo giorno, [25 dicembre], anche la natività di Cristo fu definitivamente fissata in Roma”.

A questo punto sorge la domanda: perché la Chiesa accettò di far coincidere il Natale di Gesù con quello del Sole? E perché diede ufficialità all’evento a più di tre secoli dai fatti? La risposta è banale. La comunità cristiana primitiva semplicemente ignorava la data di nascita di Gesù, come del resto la maggior parte dei dati biografici che lo riguardavano, soprattutto antecedenti al ministero. Essa era principalmente concentrata sulla sua missione e sul suo messaggio. Gesù per essa non era un personaggio del passato da commemorare, ma una persona vivente che dimorava nei cuori dei fedeli e che presto sarebbe tornata per prenderli con sé. Il focus temporale su cui era fissata la sua attenzione era un momento centrato in un imminente futuro. Di questo era almeno convinta inizialmente. Comunque il messaggio della risurrezione sopravanzava per importanza quello della nascita. L'unica ricorrenza che essa ricordava di Gesù e dei suoi testimoni era quella della loro morte. La commemorazione pasquale dei cristiani di fatto s’innesta senza soluzione di continuità su quella ebraica, anche se dagli apostoli non fu mai comandata. La commemorazione natalizia era invece sconosciuta alla Chiesa primitiva. La prima festività in tal senso di cui si ha notizia è l’Epifania, sorta nel II secolo tra i cristiani d’Egitto, ovvero nella patria storica del sincretismo. E già qui ha verosimilmente a che vedere con il culto solare, nella specificità del mito di Osiride. Dagli scritti di Epifanio di Salamina si evince infatti che la festività cristiana fu introdotta in relazione alle celebrazioni solari che avevano luogo il 6 gennaio ad Alessandria d’Egitto. Riferendosi alla manifestazione della Divinità in forma visibile, essa commemorava insieme alla nascita di Gesù, anche il battesimo e il primo miracolo da lui compiuto.

Col tempo comunque sorse la curiosità di conoscere la data di nascita di Gesù. Sempre Epifanio scriveva che alcuni cristiani la festeggiavano a giugno ed altri a luglio. Clemente Alessandrino supponeva che tale data potesse farsi cadere il 17 novembre del 3 a.C., ma che c’era dibattito così che altri la indicavano nel mese di gennaio ed altri ancora nel 19 aprile o nel 20 maggio. Cipriano si diceva invece convinto che la data dovesse cadere il 28 marzo, sia perché i pastori che andarono a visitare il bambino (Lc 2:8) potevano vivere all’addiaccio solo in un mese mite, sia per l’opinione che Gesù sarebbe nato nello stesso giorno in cui fu creato il sole, che secondo i calcoli del tempo cadeva in quella data. C’era quindi il desiderio di commemorare quel giorno e al contempo un’infinità di proposte tutte legate a supposizioni di vario genere. Pertanto la decisione di papa Giulio I di fissarlo per convenzione al 25 dicembre fu accolta come una buona soluzione. Anche perché in questo modo si cercava di contrastare la tendenza di molti neoconvertiti di continuare a prender parte ai festeggiamenti che in quel giorno si dedicavano al natale del dio Sole. Non bisogna infatti dimenticare che la festa del Sole invitto si era affermata come la ricorrenza più importante dell’Impero che concludeva il popolare festeggiamento dei Saturnali.

Questa consuetudine della Chiesa di sovrapporre le categorie cristiane a quelle pagane per sostituirsi alle ricorrenze e ai luoghi sacri del paganesimo non era, tuttavia, priva di rischi. Con la sovrapposizione, infatti, raramente le categorie pagane venivano del tutto soppiantate e qualcosa d’esse passava nel culto cristiano sotto forma di prestito sincretistico. Ciò si verificò pure con i culti solari. L’adozione del giorno del Sole (la domenica) come giorno di riposo settimanale da dedicare al culto e il festeggiamento del Natale cristiano nella stessa data dedicata al natale solare portò inevitabilmente a commistioni e a confusione. L’imperatore Adriano scriveva già nel 134 che “gli adoratori di Serapide (divinità solare) sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo”. Significativa anche l’osservazione di Tertulliano quando scriveva: “Molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia”. Non era sufficiente che i conduttori della Chiesa fossero in maggioranza ben consapevoli che le sovrapposizioni e le sostituzioni fossero solo un’operazione di “marketing”, che – come invitava a fare Agostino – il 25 dicembre non andava festeggiato il Sole bensì Chi aveva creato il Sole, e che tutti i riferimenti alla luce e al sole che la Bibbia attribuisce a Cristo sono da intendersi in senso simbolico. E comunque non tutti i conduttori avevano le idee chiare se nella metà del IV secolo il vescovo Pegasio ammetteva d’invocare segretamente il Sole. Le commistioni producono inevitabilmente confusione nei deboli, negli impreparati, negli inconvertiti. Tale confusione si protrasse per molti secoli, e l’editto di Teodosio, che vietava i culti diversi dal cristianesimo, non determinando automaticamente la conversione istantanea e sincera dei pagani, non fu certo d’aiuto. Ancora ottant’anni dopo, nel sermone di Natale del 460, papa Leone I prendeva atto sconsolato: “È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei”.

I critici del Natale, oltre all’origine non biblica e alla sovrapposizione con il culto solare, fanno notare i prestiti giunti alla ricorrenza dal paganesimo, soprattutto nordico, sotto la forma di tradizioni popolari. Ma non solo nordico. Pensiamo al presepe, attribuito all’iniziativa di Francesco d’Assisi che l’avrebbe realizzato per la prima volta a Greccio nel 1223. Sembrerebbe un’invenzione originale, sorta in ambito cristiano. In realtà essa affonda le sue radici nella festa, detta Sigillaria, introdotta nel primo secolo e che si svolgeva il 20 dicembre. Era detta così perché i parenti si scambiavano le statuette (sigilla) dei familiari defunti durante l’anno e che, poste in apposite edicole, erano oggetto di venerazione come Lares familiares. In attesa della celebrazione che vedeva riunite le famiglie nella casa patriarcale, i bambini avevano il compito di lucidare le statuette e di disporle, così come la creatività suggeriva loro, in un piccolo recinto che rappresentava un ambiente bucolico in miniatura. Realizzavano, insomma, un presepe ante litteram. Nella vigilia della festa, dinanzi a questo presepe, la famiglia si raccoglieva per invocare la protezione degli avi e offrir loro ciotole con bevande e vivande. Il mattino seguente, al posto delle ciotole, i bambini trovavano dolci e balocchi lasciati loro “dai morti”, cioè dai nonni e bisnonni trapassati. La cosa interessante, che suggerisce la continuità storica tra le due tradizioni, è la vicinanza tra il grande mercato di Natale che a Roma si svolge a Piazza Navona e il mercato delle feste Sigillarie, ove in veri e propri presepi si esponevano per la vendita i sigilla, che si teneva nei Saepta Iulia, appena due passi più il là. Ma ciò non deve stupire perché, come s'è detto, era consuetudine dei cristiani appropriarsi delle feste tradizionali pagane, mantenendone i riti e le date. Essendo una tradizione molto antica e sentita (volgendosi al ricordo dei familiari defunti), il “presepe pagano” sopravvisse nella cultura rurale almeno fino al XV secolo, quindi anche dopo che Francesco prese l’iniziativa di cristianizzarlo. Ciò che purtroppo s’è mantenuto nella conversione di quest’antica tradizione è il culto delle immagini che l’accompagna e che la dottrina cristiana originale invece proibisce.

Altro prestito giunto dal paganesimo è l’uso di piante beneauguranti come il vischio e l’agrifoglio; il primo considerato pianta sacra soprattutto dai celti e dai germani, il secondo ritenuto in grado di scacciare gli spiriti maligni e usato a scopi rituali da molti popoli, in Europa e persino tra gli indiani d’America. I romani usavano regalarlo agli sposi in segno di augurio e di simpatia. Entrambe le piante venivano appese in casa come oggi si fa con il ramo d’ulivo benedetto.

Altro elemento ornamentale che caratterizza fortemente l'atmosfera natalizia è l’abete decorato. Si trova ovunque: per le strade, nelle vetrine, in casa. Sotto l’albero si lasciano i doni. Ma nulla lega l’albero alla narrazione biblica se non l’ancestrale ricordo dell’albero della vita. È anch’esso una tradizione nordica, richiama l’albero cosmico della mitologia germanica (Yggdrasil) ed è simbolo del risveglio della natura nell’ambito della rinascita del sole solstiziale. Era associato al culto degli spiriti e del dio dell’albero, che ogni anno muore e risorge. L’uso di addobbare l’albero a Natale risale alla Germania del XVI secolo. Prima con ghirlande, nastri, frutti colorati. Poi con le candeline. Infine, verso la metà dell’800, con palline e ninnoli di vetro soffiato e colorato.

E di Babbo Natale che dire? Cos’ha a che vedere con una festa cristiana? È un personaggio di fantasia, prodotto di sintesi con l’apporto di tradizioni mediterranee e nordiche. L’appellativo anglosassone di Santa Claus ricorda la figura di San Nicola vescovo di Mira (Sanctus Nicolaus) da cui prende origine. Vissuto in Asia Minore tra il III e il IV secolo, di lui si tramandano racconti leggendari in cui egli viene esaltato come protettore dei bambini e munifico dispensatore di regali agl’indigenti. In uno di questi racconti si narra che egli lanciò tre sacchetti d’oro a tre vergini senza dote, due per la finestra aperta e uno giù dal camino. Da qui l’immagine di un vecchio fisicamente atletico, perché in grado di arrampicarsi sui tetti. Man mano che la sua leggenda si diffondeva per tutta Europa, egli divenne il sostituto cristiano di personaggi pagani dispensatori di doni quali la romana Befana e i germanici Berchta e Knecht Ruprecht. Al contempo il personaggio di San Nicola cominciava a caricarsi di connotazioni nordiche. Era ancora vestito di abiti vescovili ma si accompagnava talvolta all’elfo Schwarzer Peter (l’uomo nero) che aveva il compito di castigare i bambini cattivi. Cavalcava per i cieli un cavallo bianco o, nei paesi scandinavi, una capra e nella notte tra il 5 e il 6 dicembre consegnava regali in molte zone d’Europa. Dopo la Riforma protestante, in molti Paesi la tradizione di San Nicola che porta doni ai bambini venne soppressa e questo compito passò a Gesù Bambino, non più il 6 bensì il 25 dicembre. Da questo momento, complice involontaria la teologia protestante contraria al culto dei santi, la figura leggendaria di San Nicola subisce una sorta di mascheramento, perdendo la connotazione religiosa e assumendo una fisionomia simile alle figure mitiche dei boschi, retaggio della mitologia nordico-pagana, a cui inizialmente si era sovrapposta per sostituirle. In questa versione “laicizzata”, la figura del buon vecchio dalla barba bianca passò negli Stati Uniti dove nel XIX secolo subì le ultime trasformazioni. Apparve la slitta tirata dalle renne, s’immaginò la sua dimora collocata al Polo nord come una sorta di fabbrica ove con l’aiuto degli elfi egli confezionava i doni destinati ai bambini buoni. La lunga veste, spesso di colore verde, venne sostituita nel 1863 dal vignettista Thomas Nast con una giacca rossa bordata di pelliccia bianca. Nel 1931 questa rappresentazione venne raccolta dalla Coca-Cola Company e utilizzata nelle sue campagne pubblicitarie che contribuirono a diffondere nel mondo l’immagine a tutti nota del simpatico nonnetto rubicondo che a Natale porta i doni ai bambini. La forza della pubblicità per una festa sempre più connotata da componenti consumistiche.

E qui dalle ragioni storiche passiamo alle ragioni etiche. Il Natale cristiano non si è soltanto innestato su un natale pagano, non si è soltanto arricchito di simboli e consuetudini provenienti da tradizioni pagane e dal folclore popolare, ma ha finito per assumere connotazioni che con la religione non c’entrano nulla. La nostra società secolarizzata ed edonista ha ormai da tempo sostituito le cattedrali con i centri commerciali ed ha rimpiazzato gl’ideali spirituali con i beni materiali, con il consumismo. Questa festa per molti consiste in grandi acquisti e in pasti pantagruelici, quando non finisce al teatro o in discoteca. Che c’entra la nascita di Gesù con tutto questo? È la festa dei consumatori e ancor più dei commercianti che attendono con ansia questi giorni, dal buon esito dei quali può dipendere l’attivo dell’intero anno. La mente corre allora inevitabilmente allo sdegno che provò Cristo quando vide il Tempio trasformato in un mercato; e una volta entratovi egli “scacciò tutti quelli che vi trovò a comprare e a vendere” (Mt 21:12). Quello era un luogo sacro, questo vorrebbe essere un tempo sacro ma, a quanto pare, con queste fortissime contraddizioni.

Ecco allora i duri e puri, i detrattori senza distinguo del Natale dare addosso alla ricorrenza. Come si fa – affermano questi cristiani tutti d’un pezzo – ad associarsi a questi festeggiamenti con tutte le premesse che sono state evidenziate? Chi lo fa non può essere sincero; semplicemente vuole adeguarsi alla maggioranza per non apparire diverso e subire le critiche degli altri, con la scusa magari dei bambini, per non metterli in imbarazzo a scuola e tra gli amici. E poi, perché i bambini dovrebbero avere un regalo in più (che possibilmente romperanno o metteranno da parte dopo qualche ora) quando tanti altri bambini mancano del necessario? E ancora, perché appesantirsi con dannose e peccaminose gozzoviglie quando i due terzi della popolazione mondiale e milioni di bambini muoiono letteralmente di fame? Se il Signore nella sua sapienza non ha voluto farci conoscere il giorno esatto della nascita del Salvatore ci sarà stato un motivo! Tenersi alla larga dalle festività istituite dalla Chiesa cattolica, in ogni caso e a priori, è un sano esercizio di igiene spirituale che irrobustisce il movimento evangelico ed evidenzia le differenze tra ciò che è biblico e ciò che non lo è, e pone al riparo dalle pressioni secolari esterne. “Per ciò che ci riguarda, noi non festeggiamo il Natale, per noi è un giorno come tutti gli altri, anche se fuori di casa l’atmosfera che ci circonda in quel giorno è diversa da quella degli altri giorni. Non facciamo auguri, pranzi speciali, o riunioni speciali. E agli auguri di Natale che ci danno non contraccambiamo”, affermano questi fratelli integralisti.

Io parto da un presupposto del tutto diverso. Come afferma Paolo, noi cristiani siamo “stati chiamati alla libertà” (Ga 5:13). È vero che la nostra unica regola di fede è la Bibbia, ma Dio ci ha donato l’intelligenza e il buonsenso perché li usassimo. Ogni cosa che non contraddice l’insegnamento biblico dev’essere valutata dai suoi frutti. Per quanto riguarda l’istituzione del Natale, io mi chiedo, esso si dimostra un male in sé o è sbagliato lo spirito con cui talvolta lo si celebra, certi eccessi, accostamenti, ritualità collegate? Proprio alla luce di quel che finora abbiamo esaminato, io propendo decisamente per questa seconda impostazione. E in fondo anche tanti cristiani di buonsenso membri di denominazioni fondamentaliste sentono che le cose stanno così. Porto l’esempio di una ragazza pentecostale a cui era stato chiesto se nella sua chiesa si festeggiasse il Natale. Lei cominciò ad elencare tutte le motivazioni per cui non lo si faceva: il fatto che il 25 dicembre è una data convenzionale; che nostro Signore desidera essere ricordato 365 giorni all’anno e non in uno soltanto; che il vero Natale è quello in cui ci siamo convertiti perché è quello il giorno in cui Gesù è nato nel nostro cuore; delle varie contaminazioni dottrinali che hanno inquinato il cristianesimo dal momento che si è innestato sulle tradizioni pagane. Poi, dopo le spiegazioni di rito, la ragazza osservò: “Io però non ho i genitori evangelici, quindi in un certo modo devo un po’ adattarmi a quello che si è sempre fatto in casa, ma di questo giorno posso prendere anche alcuni lati positivi. Anzitutto può essere una bella occasione per stare assieme ai miei familiari. Può anche essere un’opportunità per aiutare chi ha bisogno; approfittare di questo clima di pace per rendere più incisiva la mia testimonianza; fare qualche pensierino d’amore alle persone a cui tengo; perché no, anche per riposarmi e rilassarmi un po’ dopo mesi di lavoro. Alla fine penso: è vero che molte cose sono sbagliate ma almeno una volta all’anno il mio Gesù viene ricordato!”

Quanto buonsenso nelle parole di questa giovane donna. Sicuramente, mi permetto di dire, ben più di quello espresso dalle sue guide fondamentaliste. Gl’integralismi, da qualunque pulpito provengano, non conoscono mai le ragioni del cuore e quindi neppure quelle di Dio, che è amore, del quale pretendono forzare il punto di vista, possibilmente Bibbia alla mano, dei cui versetti infarciscono le loro rigide sentenze. Ma allora prendiamo anche noi la Bibbia e cerchiamo elementi che impediscano di commemorare la nascita di Cristo nello spirito del Natale. Partendo proprio dalle obiezioni che vengono sollevate. Dove è scritto che è diseducativo fare doni ai propri bambini, così com’è d’uso a Natale? Gesù non biasima ma loda gli uomini che, nonostante i loro limiti, sanno fare buoni doni ai loro figli e li prende ad esempio della disponibilità di Dio che ancor meglio desidera donare “cose buone a quelli che gliele chiedono” (Mt 7:11). Certo, i doni devono essere buoni e appropriati ma non è il dono in sé che è sbagliato. E non solo ai bambini, perché tutti siamo un po’ bambini e a tutti fa piacere essere ricordati. Si critica la convivialità, il riunirsi insieme per consumare nella gioia un pasto speciale. Ma la Bibbia non solo non condanna la convivialità, addirittura la incoraggia. Vi erano circostanze in cui agli ebrei era prescritto di banchettare allegramente: “Comprerete quel che desiderate: bovini, pecore e capre, vino o birra, o qualunque altra cosa di vostro gusto. Farete un banchetto davanti al Signore, vostro Dio, e farete festa con le vostre famiglie” (Dt 14:26). Non sembra la prescrizione di un pasto frugale e mortificato. Certo si dice che il banchetto andava fatto “davanti al Signore”, come, cioè, se il Signore fosse seduto in mezzo ai festeggianti; il che significava che non bisognava scadere nello spirito profano, che bisognava mantenere quel minimo di sobrietà che impedisse di degenerare nella gozzoviglia e nell’ubriachezza. D’altra parte non è neppure opportuno banchettare tutti i giorni, riducendo la vita ad un unico, ininterrotto festino. Ma i censori dei costumi hanno sempre da ridire; lo fece notare Gesù parlando dei farisei: “È venuto Giovanni Battista, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere" (Mt 11:18,19). C’è il tempo della frugalità e quello della convivialità. Gesù, il nostro modello, quando invitato, non disdegnava di prender parte ai conviti. Iniziò persino il proprio ministero da una festa di matrimonio, ove il momento conviviale era ben più consistente che nelle nostre nozze, e il suo primo miracolo non riguardò una guarigione bensì la trasformazione dell’acqua in una bevanda voluttuaria. Non è far festa coi cibi che è sbagliato finche essi da strumento non si fanno fini. La gente portata via dal diluvio non fu condannata perché mangiava e beveva (cf Mt 24:38,39) ma perché si limitava a quello e non aveva coltivato la propria dimensione spirituale. Certo chi festeggia deve ricordarsi, nella misura del possibile, degli indigenti; non dovrà dimenticarsi dei leviti loro vicini “poiché non hanno ricevuto una proprietà come voi” (Dt 14:27). Ma attenzione a non usare la massa astratta dei poveri per criticare le risorse spese per dare concretezza agli affetti e ai sentimenti verso le persone care. Così fece Giuda quando criticò Maria per aver cosparso i piedi di Gesù con una costosissima essenza profumata. Quei soldi avrebbero potuto servire meglio ai poveri, osservò Giuda. Ma Gesù lo rimproverò. Giuda pensava allo spreco e criticò la donna; Gesù pensava al gesto e la difese. Dicono: “Ma Gesù non ha istituito il Natale e la Chiesa non ha il diritto di istituire una festa e di rendere sacro un giorno. Se Gesù non ha consentito che si conservasse il ricordo del giorno della sua nascita ci sarà un motivo e commemorando il 25 dicembre in realtà onoriamo una ricorrenza pagana e approviamo una delle innumerevoli commistioni con il paganesimo che hanno snaturato il cristianesimo”. È vero, il Natale non è stato istituito da Gesù e la Chiesa non ha il diritto di rendere santo un giorno. Tutte le festività dell’Antico Patto sono state abolite con il passaggio al Nuovo in quanto figura “di quella realtà che doveva venire che è Cristo” (Cl 2:17). L’unico giorno che conserva un carattere sacro è il settimo giorno della settimana in quanto proclamato con il Decalogo che non è stato mai abolito e continua ad essere valido. E forse è proprio per questo che Dio non ha voluto che si serbasse memoria della data di nascita di Gesù: perché non se ne facesse oggetto di idolatria rendendolo santo per iniziativa umana. Ma non è necessario che un giorno sia reso santo per svolgere la sua funzione di commemorazione. Le grandi istituzioni civili come l’ONU non proclamano delle giornate mondiali dedicate a dei temi di rilevante interesse generale quali i diritti umani o l’abolizione della schiavitù? Analogamente una chiesa o un consiglio di chiese non hanno il diritto di proclamare una giornata in cui commemorare un evento così determinate per i destini umani come la nascita di Dio che s’è fatto uomo? Ecco, per me è questo il Natale: la giornata mondiale della nascita di Gesù. Possiamo commemorare di tutto e non possiamo celebrare quest’evento, in modo che almeno una volta all’anno si sia in tanti a poterlo ricordare? Quanto al fatto che esso sia stato innestato sopra una festività pagana, effettivamente allora ha costituito un rischio e un motivo di confusione che per secoli ha consentito il protrarsi del culto solare. Come abbiamo già detto, la sovrapposizione dei culti cristiani su quelli pagani è stata una grave causa di sincretismo che ha introdotto in certe denominazioni cristiane gravi aberrazioni dottrinali come il culto delle creature, le pene eterne e la ripetizione del sacrificio nella messa. Tuttavia nel caso specifico del Natale, ormai queste commistioni si sono dissolte ed esso ricorda esclusivamente la nascita di Gesù. È vero che la cosiddetta messa di mezzanotte dà l’impressione che Gesù debba rinascere ogni anno e che la rievocazione simbolica di tale nascita nella notte santa è una rappresentazione carica di contorni idolatrici culminanti con il bacio della statua di Gesù bambino e la sua benedizione. Ma questa è una deviazione, legata al culto delle immagini e alla dottrina della messa, che riguarda una particolare denominazione e non coinvolge l’intero mondo cristiano. Quanto ai simboli che provengono dal paganesimo, soprattutto nordico, che contribuiscono all’atmosfera natalizia, quali l’uso del vischio, dell’abete decorato o dello stesso Babbo Natale, hanno perduto ogni connotazione religiosa e rimangono elementi folcloristici esterni alla dottrina. L’importante è sapere tutto questo e comunicarlo con chiarezza ai nostri figli in modo che sappiano discernere ciò che è fede da ciò che è costruzione umana. C’è infine lo svilimento in senso consumistico della festa che per molti si riduce al saccheggio dei centri commerciali e ad una grande indigestione. È il segno della carenza di valori spirituali che tocca profondamente anche la nostra civiltà. Gli stessi paesi anglosassoni, più vicini alla nostra cultura evangelica, in questa circostanza si dimostrano persino più consumisti e festaioli dei paesi latini e cattolici. È un’utopia pensare che a Natale si acquisisca d’incanto la fede e si diventi tutti dei buoni cristiani. Però c’è anche tanta gente sensibile alla dimensione spirituale, talvolta solo distratta dalle sollecitudini e dai ritmi che la vita sociale c’impone, e che trae beneficio dall’atmosfera natalizia; gente che può fermarsi un momento per ricordare l’evento della nascita del Salvatore e riascoltare il messaggio pieno di speranza che nella notte della natività gli angeli diedero ai pastori di Betlemme: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli gradisce”. Ecco, il Natale correttamente inteso, è una buona occasione per riunire idealmente la famiglia del cielo a quella della terra, ed anche le singole famiglie degli uomini, attorno a questa grande speranza che ha cambiato il destino dell’umanità. Natale vale, se Cristo Signore nasce nel cuore.

Per approfondire: Winter Light Festival

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