martedì 30 settembre 2008

Il sincretismo, nemico storico del Cristianesimo

Introduzione. In quest’Occidente stanco e disorientato, alla ricerca di senso e delle proprie radici, ove sempre più figli suoi, condividendo la nota affermazione crociana, "non possono non dirsi cristiani", da cui emerge un ordine sospetto definito degli "atei devoti" che, a loro dire, si riconoscerebbe nei valori del cristianesimo; quest’antica religione a cui si richiamano pacifisti e tagliagole, monarchi e medici obiettori, plutocrati e teologi della liberazione, teocon e teodem, capimafia e buoni samaritani; questo caleidoscopio di chiese multicolori alcune delle quali sole detentrici della salvezza; questo strano edificio cresciuto a dismisura, ove le toppe hanno coperto gran parte dei mattoni originari; quest’oggetto misterioso che si richiama alle chiese apostoliche, di esso ci chiediamo cosa sia adesso: mutatis mutandis, è sempre la stessa cosa o è un’altra cosa? E in tal caso cos’altro è?

Infatti venti secoli non sono trascorsi senza produrre effetti. Che i cambiamenti ci siano stati nessuno in buona fede lo mette in dubbio. Ciò su cui non ci sarebbe accordo è l’interpretazione che ne viene data. Chi accetta i cambiamenti, dottrinali e strutturali, non li considera un’aggiunta all’originaria rivelazione di Gesù bensì una chiarificazione di questioni non ancora pienamente comprese o, semplicemente, delle scelte d’opportunità che la Chiesa era in diritto di poter compiere; chi non li accetta li considera delle immissioni aliene che hanno snaturato il deposito della fede trasmessoci dagli apostoli. Li considera cioè il risultato di un processo sincretistico ove dottrine, rituali e modelli organizzativi mutuati dal mondo pagano hanno gradualmente trasformato il cristianesimo primitivo in qualcos’altro qualitativamente e quantitativamente da definire. La ragione per cui ciò sia avvenuto andrebbe ricercata nel conformismo; nella tendenza, cioè, a conformarsi alle opinioni, agli usi e ai comportamenti culturalmente, socialmente e politicamente prevalenti nel mondo greco-romano nel cui seno il cristianesimo ha principalmente trovato sviluppo.

Scopo della presente riflessione è quello di individuare il ruolo svolto dal sincretismo nel processo di trasformazione della Chiesa identificando, al contempo, alcuni di questi elementi estranei allo spirito e alla dottrina della predicazione apostolica fino al punto da stravolgerne il significato.


Un nemico di vecchia data

La piaga rappresentata dal sincretismo che altera il culto reso a Dio accompagna tutta la storia del popolo del Patto. Il vitello d’oro costruito appena dopo la grande liberazione, a prescindere che s’ispirasse al bue Api o al toro di Adad, voleva essere una rappresentazione del Dio d’Israele (cf Es 32,5). Anche il vitello d’oro introdotto da Geroboamo voleva "solo" rappresentare il Dio dei padri. Tutti i culti idolatrici introdotti dai re di Giuda volevano quasi sempre essere "solo" un Pantheon al cui vertice sedeva il Dio del cielo. Gli ebrei che offrivano profumi alla "regina del cielo" (Ger 44,17), la famigerata dea madre euro-asiatica, erano gli stessi che dicevano: "Il Signore Dio vive" (v. 26). Le donne che piangevano la morte ricorrente del dio Tammuz, andavano a farlo davanti al Tempio di Gerusalemme. Il sincretismo non sostituisce; è più sottile; nelle sue sintesi altera e snatura il culto reso al vero Dio. Affiancando altri dei a Yahweh non arricchisce ma impoverisce la gente d’Israele, la sua morale, la sua dignità, la sua vocazione di popolo del Patto stabilito con l’Eterno, l’unico vero Dio, "all’infuori del quale non ce n’è altri" (Dt 4,35). Questa degradazione le costerà la libertà, così male utilizzata, e la perdita della terra promessa.


L’Oikumene di Alessandro e poi dei Cesari

Conquistato l’impero, Alessandro pone le basi e i suoi generali proseguono un programma di ellenizzazione forzata dei territori sottomessi. Tra l’altro vi vengono importati la visione greca della teologia, dell’antropologia e dell’escatologia. Anche la Giudea dovrà sottoporsi a questo progetto che raggiungerà il massimo d’intensità e di violenza, per le resistenze incontrate, al tempo del sovrano seleucida Antioco IV Epifane. Questo movimento culturale, sul momento unidirezionale, ben presto diviene multidirezionale: le culture particolari dei popoli conquistati escono dai loro confini e innescano un processo d’interscambio anche in ambito religioso; come qualcuno ha detto, gli dei d’Oriente si misero a parlare greco e a occuparsi di filosofia. In tal modo, divenute compatibili tra loro, le religioni locali invadono il campo altrui, si trasformano a vicenda e si mescolano in modo inestricabile. Si verifica così il fenomeno sincretista più vasto e imponente della Storia che troverà il suo punto culminante negli anni dell’impero romano quando nell'Urbe vengono importate, spesso dalle legioni vittoriose, le religioni dei territori sottomessi. Da sottolineare a proposito i culti delle associazioni Iside/Osiride/Horus, Cibele/Attis, Astarte/Adone, Semele/Dioniso, Anahita/Mitra generalmente riconducibili al modello Grande Madre/Dio paredro della vegetazione che muore e rinasce, con forti connotazioni misteriche e portatrici d’un messaggio di salvezza, con cui il cristianesimo dovrà confrontarsi con risultati spesso contraddittori.

Questi culti di sintesi, talvolta creati a tavolino come nel caso del tolemaico Serapide, si diffusero su tutto il territorio dell’Impero ed ebbero gran successo. Furono anche causa di grande confusione teologica non solo perché essi stessi frutto di sintesi e rimaneggiamenti, ma perché spesso la gente ne confessava più di uno contemporaneamente. Edesio, un alto funzionario romano, si presentava come sommo sacerdote di Mitra, ierofante di Ecate, capo pastore di Dioniso, rinato per taurobolium alla Gran Madre Cibele. E il problema coinvolse anche il cristianesimo che per alcuni secoli fu una fede tra le tante. L’imperatore Adriano scriveva nel 134 d.C.: "Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo". Per non dire del culto al Sol Invictus, esso stesso prodotto di sintesi, che lascerà strascichi per lungo tempo. Nella metà del IV secolo il vescovo Pegasio ammetteva d’invocare segretamente il Sole; e ancora nel quinto c’erano cristiani che si prosternavano davanti all’astro nascente, pronunciando la formula: "Abbi pietà di noi!".

Come spiegare questo comportamento spudoratamente sincretista? Innanzi tutto con ragioni culturali prima ancora che cultuali. Per i greci, e ancor più per i romani, era invalsa l’abitudine di assimilare culti simili ma di origine diversa, a cominciare dal Pantheon greco-romano, nota con il nome di interpretatio. E questo spiega la tendenza a unificare le varie divinità sino a formare una sorta di monoteismo nel quale gli dei vengono visti come forme diverse dell’unica realtà, tendenza che le classi colte hanno fortemente appoggiato e che causerà problemi quando queste confluiranno nel cristianesimo; e ciò perché tale monoteismo di sintesi tenderà a introdurre elementi spuri nel monoteismo cristiano. Ma c’è anche un’altra ragione che spiega l’adesione contemporanea a più culti, soprattutto a quelli da poco importati: è che da essi il neofita vuol soprattutto trarre i benefici taumaturgici e salvifici offerti in modo impersonale. Più che al rapporto con la divinità egli è interessato al rito "efficace in sé" che gli consente di appropriarsi dei doni soprannaturali. Seguire più religioni significa perciò approfittare di più opportunità. Una religione senza riti, secondo il comune modo di sentire, non è pertanto vera religione. Da qui l’accusa di ateismo che veniva mossa ai cristiani. Questo è il contesto in cui dovette muoversi il cristianesimo nascente: tra una concorrenza di culti che a modo loro annunziavano anch’essi il mistero della salvezza, e una generale tendenza ad accomunarli tutti nel medesimo calderone, sia per appropriarsi dei benefici che ciascun culto prometteva, come in un grande buffet delle religioni, sia in un ulteriore sforzo sincretistico di giungere ad una sorta di monoteismo "patchwork".


Il sincretismo delle parole

C’è chi afferma che nel momento stesso in cui il cristianesimo è uscito dalla Palestina è inciampato nel sincretismo; perché ha dovuto utilizzare parole e concetti riferibili ai sistemi religiosi, filosofici e antropologici propri delle popolazioni non ebraiche che esso intendeva evangelizzare. Ad esempio, la parola greca psychè che traduce l’ebraico nephesh (respiro) presso i rabbini di Gerusalemme significava "essere vivente" ma già ad Antiochia, città di cultura ellenica, significava "anima" nel senso platonico di unità incorporea e immortale contrapposta al corpo vile e corruttibile. Quindi, pur senza tradurla, la stessa parola riferita a visioni antropologiche differenti cambiava significato. In realtà l’uso in sé delle parole in ambiente d’altra cultura non comporta automaticamente lo scadere nel sincretismo, tuttavia la suddetta affermazione sottolinea un pericolo reale con cui la proclamazione dell’Evangelo ha dovuto fare i conti e suggerisce lo sforzo che gli apostoli hanno dovuto compiere non solo per trovare le parole più adatte alla predicazione, ma anche per spiegare il senso in cui venivano usate e per vegliare continuamente perché non fossero fraintese.

A proposito è interessante individuare la logica con cui sono state scelte le parole della predicazione, in funzione antisincretista, analizzando gli scritti del Nuovo Testamento indirizzati alle comunità non ebraiche. In effetti ci sono termini che vengono accuratamente evitati nel vocabolario neotestamentario, quali eros o enthusiasmos, più adatte a concezioni religiose antropocentriche che teocentriche quale è la cristiana. Vi sono poi termini che vengono solo usati in senso negativo, come mythos (che viene contrapposto all’intervento di Dio nella storia) e daimon che, al contrario della concezione greca, indica soltanto potenze maligne. Mentre per parlare di Dio si usa senza esitazione la parola Theos (quale altra se no?) pur essendo carica di connotazioni pagane. E così pure per parole come Kyrios (Signore), Logos (Parola), Soter (Salvatore), Evangelion, gnosis (conoscenza), mysterion che appartengono al vocabolario religioso ellenistico ma anche a quello della versione greca dell’Antico Testamento (Septuaginta); ovviamente vengono utilizzate con il significato veterotestamentario. La conoscenza (gnosis), ad esempio, nelle dottrine gnostiche rappresentava il grado più alto della vita religiosa, superiore persino alla fede. Ma il Nuovo Testamento non pone mai la conoscenza al vertice della vita cristiana, soprattutto mai da sola. Anzi, come afferma Paolo, la conoscenza verrà abolita mentre la fede resterà, insieme alla speranza e alla carità. Sia Paolo che Giovanni subordinano la gnosi all’agape. "Chi non ama non ha conosciuto Dio" (1 Gv 4,8). Così pure per la parola mysterion, tipicamente usata con il senso di rivelazione particolare di Dio che svela il suo intervento nella Storia futura. Non viene invece mai utilizzata nel senso religioso ellenistico. Mysterion nei culti, appunto, "misterici" è il processo per cui l’uomo, attraverso una iniziazione segreta e l’osservanza di determinati riti, riceve la salvezza. E va notato, a proposito, che nel N.T. il termine mysterion non viene mai usato in riferimento ai sacramenti. Infine, troviamo talvolta parole specificamente greche estranee alla terminologia giudaica. Metamorphosis è una di queste. Nella mitologia è un processo di trasformazione che avviene in un contesto magico e iniziatico, spesso su uno sfondo di profonda tristezza; Paolo invece adopera il termine per indicare la trasformazione che ci pone in sintonia con Dio e ci permette di comprendere "ciò che è buono, a lui gradito, perfetto" (Rm 12,3). Tutt’altro contesto e tutt’altra finalità. Possiamo notare che in genere gli apostoli mettono molta cura nella scelta delle parole, laddove la preoccupazione principale è quella di rendere comprensibile il messaggio a costo talvolta di usare termini comuni con il mondo sincretistico; ma anche quando le parole possono essere ambigue non lo è mai il messaggio. La forma non prende mai il sopravvento sul contenuto. E finché c’erano loro a vegliare sulla sana dottrina, "il mysterion dell’empietà" (2 Ts 2,7), pur già in azione, sarebbe stato trattenuto.

Quando Paolo scriveva, la spinta all’apostasia era "già in azione". Dalle sue lettere e dagli Atti traspare il suo grande impegno per contrastare le pressioni verso il sincretismo. Quando a Listra guarì uno storpio gli abitanti pensarono che lui e Barnaba fossero Giove e Mercurio venuti a visitarli; Paolo non volle approfittare dell’equivoco, reagendo con la massima fermezza e a costo di trasformare l’entusiasmo della folla in aperta ostilità. Anche ad Efeso rischiò il linciaggio perché insegnava che "gli dei fatti con le mani non sono dei" (At 19,26), mettendo a rischio l’economia della città fondata sui commerci attorno al culto della dea Artemide. I cristiani non accettavano il patto di convivenza basato sull’armonia fra tutti gli dei e fra tutti gli uomini. Gesù non poteva essere un dio da collezionare assieme agli altri come si fa con i francobolli, così come cercò di fare Simone il Mago quando chiese a Pietro di acquistare i poteri taumaturgici di questa nuova religione. Paolo lottò contro il sincretismo anche nella chiesa di Corinto quando concezioni gnostiche cercarono d’infiltrarsi nella comunità insidiando sia la dottrina della risurrezione sia la morale di alcuni membri. Ma è particolarmente interessante la riprensione che egli indirizzò ai Colossesi che alla fede in Cristo avevano mescolato pratiche giudaiche, sull’osservanza di regole alimentari e di alcuni giorni festivi, e speculazioni cosmologiche d’origine orientale, probabilmente legate a un culto misterico. I Colossesi ritenevano d’aver bisogno di qualcos’altro oltre a Cristo e rendevano il culto anche a certe entità angeliche (Col 2,18) ritenendo che fossero più influenti sull’umana realtà fisica. Paolo invece ricorda loro che ogni cosa è sottomessa a Cristo e che i loro timori non hanno ragion d’essere finché essi rimangono uniti a lui. Cercando di fondere il cristianesimo con concezioni non cristiane i fedeli di Colosse pensavano che tali aggiunte costituissero un arricchimento anziché un impoverimento della loro fede, ma Paolo spiega loro che aggiungendo qualcosa a Cristo in realtà essi gli tolgono qualcosa e rinnegano il suo dono che al contrario di quanto pensano è pienamente sufficiente. Qui vediamo l’apostolo all’opera mentre salva la chiesa dal divenire un culto misterico e sincretistico. Ma purtroppo l’appuntamento con il sincretismo è solo rinviato.


Alla ricerca del marchio di conformità

Bisogna considerare che una religione viva non è solo un messaggio ma anche un’organizzazione di uomini che, nel loro interagire, rispondono a precise dinamiche studiate da discipline scientifiche quali l’antropologia culturale e l’etnologia, la psicologia (sociale, delle folle, dei gruppi, in particolare religiosi) e la sociologia, di cui un ramo ha come oggetto il fenomeno religioso. Secondo studi condotti dai sociologi delle religioni, lo sviluppo di un movimento religioso che fa proselitismo universale (cioè rivolto a tutti) è certamente influenzato dal contesto specifico in cui avviene il fenomeno, ma tende anche a seguire una direzione caratteristica e prevedibile nelle sue linee essenziali. Un nuovo gruppo religioso, al suo nascere inevitabilmente minoritario rispetto alla popolazione di riferimento, di norma è da questa visto con sospetto soprattutto se sono già presenti delle confessioni "istituzionali" alle quali aderisce la classe dominante. Il neo-convertito pertanto subisce una perdita di status rispetto alla società, ed anche se ne acquisisce all’interno del gruppo ciò non basta a motivare l’adesione. Secondo la tesi della deprivazione relativa, egli aderisce alla nuova religione perché la considera una compensazione alla sua attuale condizione di deprivazione, che avverte perché non si riconosce nello status che attualmente la società gli ha assegnato. E in questa logica è aiutato dalla religione quando essa stessa si propone come compensazione. Pertanto il gruppo che fa proselitismo, finché fa proselitismo, in questa fase di crescita non ripropone al suo interno la stessa composizione sociale della popolazione esterna ma tende a livellarsi verso il basso, aggregando a sé in prevalenza adepti poco scolarizzati e privi di privilegi sociali. Questa lettura sociologica non tiene conto di coloro che si aggregano perché semplicemente rimasti folgorati dal messaggio religioso, però sottintende che l’offerta di compensazione dia una mano alla folgorazione.

Sempre secondo l’osservazione sociologica, il movimento religioso in fase di sviluppo tende a trasformarsi nell’arco di una sola generazione in "denominazione" religiosa. L’attività di proselitismo perde il suo vigore iniziale come pure s’attenua, se c’è, lo spirito di rivalsa nei confronti della società. I fedeli si concentrano sull’educazione e sull’istruzione dei figli e prendono interesse negli impegni secolari come l’acquisto e l’amministrazione di proprietà immobiliari. Quest’allineamento con gli interessi propri della maggioranza esterna, s’accompagna con la ricerca di un’adeguata rispettabilità sociale. I membri cercano una condizione sociale consona alla loro crescente ricchezza personale e al contempo chiedono alla loro confessione religiosa di assumere atteggiamenti che ne aumentino la rispettabilità agli occhi del mondo. Questo processo è stato definito sia "denominazionalizzazione" che "istituzionalizzazione", in quanto implica non solo una perdita di tensione morale e spirituale e una minore intransigenza nel rapportarsi con l’esterno, ma anche una maggiore disponibilità di beni materiali (grazie all’incremento delle offerte e dei lasciti) e un sempre maggiore formalismo; che si traduce in uno stile di culto più ritualistico come pure nell’istituzione di un corpo di funzionari permanenti, che viene a sostituire la spontaneità iniziale che caratterizza le prime fasi del movimento. D’altra parte il ricorso ad un ordine di "specialisti", ad un clero, tende ad accentuare da un lato la dipendenza e la subordinazione dei laici, dall’altro a contenere le modalità espressive troppo emotive con il sostegno a modelli di culto sempre più ritualizzati e convenzionalizzati. In altri termini, tende ad accentuare il formalismo. Inoltre i rappresentanti del clero iniziano a preoccuparsi della propria socializzazione e del proprio status, sia confrontandosi tra loro sia con i ministeri di altre realtà religiose che godono di maggiore consenso sociale. Il sommarsi di queste dinamiche porta un movimento, con il tempo e inevitabilmente, a configurarsi sempre più come denominazione religiosa. Come dire che una cosa, con successive aggiunte e modifiche, si trasforma in un’altra cosa, più o meno simile all’originale. Questo è il modello generale, la linea di tendenza. Le situazioni specifiche, per influenza di fattori particolari della realtà storica in cui esse si sviluppano, possono evolversi in un percorso che veda accentuare o attenuare questo trend, o anche discostarsene, ma mai ignorarlo del tutto. Perché esso risponde a un complesso di esigenze molto forti dell’animo umano che spaziano dal bisogno di ordinare e di controllare la realtà, a quello di autoaffermazione, alla ricerca di conferme e di omologazione che alla fine porta al conformismo. Ecco, l’evoluzione di un movimento religioso universalista è sempre caratterizzata da questa forte spinta verso il conformismo.


L’evoluzione del cristianesimo

Il modello sociologico che abbiamo illustrato può aiutarci a leggere l’evoluzione del cristianesimo dal suo nascere? La risposta è affermativa. È anzi impressionante osservare quanto tale evoluzione abbia ricalcato il modello teorico, soprattutto se si pensa che questo non è stato ricavato pensando alla Chiesa primitiva, bensì a movimenti religiosi sorti negli Stati Uniti a cavallo tra l’800 e il ‘900.

È risaputo che a partire dalla predicazione di Gesù il cristianesimo faceva proseliti soprattutto tra le classi umili. La Chiesa dei primi tempi era ampiamente rappresentata dalle classi inferiori e molti erano gli schiavi convertiti. Non pochi schiavi emancipati occuparono posizioni di rilievo in seno alla Chiesa, uno divenne anche papa (Callisto, 217-222). Questa situazione si mantenne per un certo tempo, anche perché la scarsa considerazione per il movimento, che era religio illicita, e le periodiche persecuzioni non la rendevano appetibile alle classi superiori. "Superstizione malvagia e sfrenata", la definiva Plinio; e Tacito riferiva che i suoi adepti erano "individui… detestati per i loro abomini". Tuttavia proprio le persecuzioni, mantenendo alta la tensione spirituale della Chiesa, prolungarono la fase del proselitismo attivo e quindi la sua espansione. Giustamente notava Tertulliano che "il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani". Ciò non toglie che simpatizzanti si trovassero persino in casa dei Cesari, che molti padroni venissero guadagnati alla fede dai loro schiavi e che i cristiani nel frattempo prosperassero sia economicamente che socialmente, e questo costituì inevitabilmente una spinta verso la mondanizzazione. Aumentò il numero di aristocratici e di funzionari statali che si avvicinarono alla Chiesa ed essa cominciò ad acquisire prestigio e ricchezza. Con l’imperatore Decio (249-251) avvenne un fatto nuovo: la Chiesa fu sottoposta ancora a persecuzione non tanto però per il suo messaggio quanto per ridimensionarne il potere economico e l’autorità. I beni ecclesiastici, infatti, soprattutto le proprietà immobiliari, avevano raggiunto una concentrazione mai vista nell’Impero e il potere del papa, ormai assimilabile a quello di un praefectus urbis (una sorta di sindaco/questore/magistrato della Capitale) insidiava l’autorità dello stesso Imperatore che affermò di temerlo più di un rivale nell’Impero. Questa persecuzione provocò inoltre divisioni nella Chiesa, e la nascita del movimento dei Novaziani che denunciavano, tra l’altro, la rilassatezza di molti cristiani che vivevano nel lusso e abusavano così della loro libertà. Ma il trend del modello sociologico viene rispettato: la crescita economica e sociale dei fedeli trasferisce ricchezza e prestigio sull’istituzione che si rafforza e attira a sua volta nuovi membri facoltosi e potenti; la ricca nobiltà latina aderisce sempre più spesso al cristianesimo e grazie alle donazioni e ai lasciti le diocesi si arricchiscono ulteriormente. Quando Costantino decide d’incorporare la Chiesa tra le istituzioni dell’Impero non fa che sanzionare uno stato di fatto.

Sempre secondo il nostro modello sociologico, il processo di istituzionalizzazione della Chiesa si compie anche attraverso l’irrigidimento nel formalismo; e nei fatti si traduce in uno stile di culto più ritualistico come pure nell’istituzione di un corpo di funzionari permanenti addetto all’amministrazione di una liturgia sempre più ritualizzata e meno spontanea. E qui il trend viene non solo rispettato ma persino accentuato. Concentriamoci al momento sui rituali e sull’organizzazione, perché ce ne sarà anche per le dottrine.

Le riunioni di culto dei primi cristiani non erano caratterizzate dalla scelta di particolari luoghi di culto o dall’adozione di liturgie ritualizzate. Un’ampia sala domestica era sufficiente ad ospitare la chiesa locale e la funzione, semplice e informale, ricalcava il culto della sinagoga. Ricordiamo il capitolo 4 di Luca, quel sabato, quando Gesù entrò nella sinagoga di Nazaret e, prendendo la parola, lesse e commentò alcuni versetti della Bibbia? Ebbene era quello il modello a cui si rifacevano i cristiani (cf Atti 2,42). In uno scritto che risale alla metà del secondo secolo, Giustino ci descrive il culto così come avveniva allora; esso si svolgeva così: "Vengono letti i fatti memorabili degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, per quanto il tempo lo consenta. Poi il lettore si ferma ed il capo istruisce a viva voce, esortando all’imitazione di queste buone cose. Quindi tutti ci alziamo in piedi e leviamo preghiere". Alla fine si amministrava la Cena del Signore (l’Eucarestia), distribuendo ai presenti pane e vino benedetti. Fino alla fine del secondo secolo, questi erano gli atti del momento comune di adorazione, così riassumibili: Preghiera d’apertura, lettura dell’Antico Testamento o degli scritti apostolici (con prevalenza di questi ultimi), sermone, canto, preghiera comunitaria, Cena del Signore, libera raccolta di offerte per i bisognosi. Quanto alla Cena del Signore, bisogna precisare che essa non rappresentava l’atto centrale del culto, tant’è vero che agli inizi veniva consumata, spesso in un locale adiacente, nell’ambito di un vero pasto detto agape, di cui costituiva non il momento solenne ma un momento toccante di commemorazione ("fate questo in memoria di me" - 1Cor 11,24) e al contempo di speranza nell’attesa di quel giorno ("fino a quando egli ritornerà" - 11,26) in cui quei commensali si sarebbero seduti a tavola con Lui e con i salvati di tutti i tempi (cf Mt 8,11; Lc 22,30).

Oggi però buona parte della cristianità assiste a funzioni religiose che somigliano molto poco al prototipo originale: cattolici, ortodossi, episcopali, anglicani sono spettatori passivi di cerimonie cristallizzate ove la "Liturgia stravolta del Cenacolo" ha surclassato la "Liturgia della Parola". Cerimonie rigidamente ritualizzate che sembrano concepite per suscitare emozioni e al contempo per imbrigliarle: cori che rimbombano per le navate di ardite cattedrali, note d’organo, processioni di officianti in vesti sontuose, luccichii di ori e di gemme, mille luci di lampade e candelabri, sbuffi d’incenso, aspersioni, genuflessioni e ostensioni. Il tutto possibilmente formulato in lingue morte e inintelligibili. Che ne è stato delle riunioni di fratelli in Cristo, libere, spontanee e partecipate, ove chiunque aveva qualcosa da dire, di comprensibile ed edificante, poteva dirlo? Che ne è stata della Santa Cena, momento gioioso e conviviale di riconoscenza, tramutata in sacrificio ripetibile e misterico del corpo e del sangue del Crocifisso, come ideato concettualmente per impressionare e intimidire? Che ne è stato di tutto ciò? È possibile risalire al percorso storico di questo cambiamento così radicale e alle ragioni che lo hanno determinato? È possibile.

Abbiamo visto che attorno alla metà del III secolo la Chiesa aveva già acquisito ricchezza e sufficienti prestigio e autorità da scatenare la repressione imperiale. Ebbene, nel rispetto del modello sociologico, in questo periodo avviene pure la svolta verso il formalismo. La Chiesa da sodalizio mutualistico si tramuta in un ente burocratizzato, e i legami di carità e di fede lasciano il posto ai vincoli gerarchici, alla dipendenza dai vescovi e dalle altre autorità ecclesiastiche. Si verifica una riorganizzazione funzionale al governo dell’ente chiesa a discapito delle ragioni per cui essa era stata fondata. Pertanto struttura gerarchica e presenza territoriale, ma anche dottrina e liturgia, vengono ripensate funzionalmente per i nuovi fini. Il che purtroppo comporta un graduale allontanamento dalla fede evangelica e dal culto informale testimoniati negli scritti apostolici, una metamorfosi che cambierà irreversibilmente il carattere del cristianesimo primitivo. Tutta la storia della Chiesa è caratterizzata da un accumulo di cambiamenti graduali, i primi che aprono la strada ai successivi, e rendono la trasformazione quasi impercettibile e naturale come il percorso degli astri che sembrano fissi nel cielo e che tuttavia lo attraversano tutto dall’oriente all’occidente.

Già all’inizio del III secolo abbiamo testimonianze che ci indicano un significativo cambiamento nella liturgia. Ippolito di Roma (170-235) ce la descrive come già avviata verso una considerevole complicazione delle forme sebbene conservi ancora molte caratteristiche della struttura originaria a cominciare dalle preghiere che erano in gran parte libere. Quanto all’aspetto organizzativo, il terzo secolo vede l’apertura delle prime scuole teologiche che si avvalgono anche degli strumenti della cultura greca e romana. Ciò rende i presbiteri più preparati ma anche più soggetti alla speculazione, e inoltre contribuisce alla formazione di questo corpo di funzionari, quest’ordine sacro di specialisti, che approfondisce la distinzione tra chierici e laici, e fa passare il messaggio che la salvezza non può giungere a nessuno se non attraverso il loro ufficio; passa cioè l’idea che il presbitero sia un sacerdote che si fa tramite tra Dio e i semplici fedeli.

L’ulteriore virata che trasforma definitivamente l’organismo vivente dei credenti in istituzione ecclesiastica si verifica con l’avvento di Costantino, l’archetipo degli atei devoti. Egli non solo rende il Cristianesimo religione licita, ma la prende sotto la propria protezione diretta conservando egli il titolo di Pontifex Maximus, suprema autorità religiosa dell’Impero. Tale connubio si rivelò reciprocamente vantaggioso: per l’Imperatore, che trovò nella Chiesa una grande forza morale unificatrice; per il vescovo di Roma, ché aveva bisogno di consolidare la propria organizzazione e il proprio potere dalla prospettiva dell’Ufficio Pietrino, anche a costo di cedere al compromesso e di subire le continue ingerenze imperiali. Ingerenze che aumentarono con il figlio di Costantino, Costanzo, al punto da dichiarare questi che la propria volontà andava considerata canone della Chiesa. Ma i vantaggi erano ben superiori. Nel 380 Teodosio dichiarò l’ortodossia di Roma religione di Stato: "Vogliamo che tutti i popoli sottoposti al Nostro governo professino la religione che il Santo Apostolo Pietro ha trasmesso ai Romani, che viene annunziata fino ai nostri giorni come Lui l’annunziava… Noi ordiniamo che il nome di Cristiani cattolici spetti unicamente a coloro che consentono in questa fede, e che tutti gli altri insensati che se ne allontanano siano chiamati eretici e pazzi, e devono portare la vergogna dell’eresia. Le loro associazioni non potranno insignirsi del nome di Chiesa (Ratzinger non ha inventato nulla!), essi saranno puniti prima dall’ira divina e poi dai provvedimenti che Noi prenderemo sotto l’ispirazione celeste". Nel 391 egli vietò i culti non cristiani e nel 392 venne prevista la pena di morte per chi effettuava sacrifici e pratiche divinatorie. I provvedimenti erano stati fortemente voluti dal ministro degli interni, il cattolico Flavio Rufino, e da sant’Ambrogio vescovo di Milano. A questo punto la Chiesa raggiungeva il massimo grado di collusione con i poteri civili, fondando la propria identità nel rapporto con il potere secolare e con le classi dominanti. Gli interessi dell’Impero e del Papato convergono, si compenetrano e si esprimono in una cosciente collaborazione volta a eliminare ogni forma di dissenso politico e religioso. Infine, con il declino dell’impero, il Papato, nella persona di Leone Magno, si appropria del titolo di Pontifex Maximus e degli onori imperiali che contemplavano il saluto con genuflessione e il bacio della pantofola. Adesso i ruoli s’invertono, se papa Siricio aveva decretato l’identità del pontefice romano con Pietro, papa Gelasio formula la teoria dei due poteri – quello sacrale e quello regale – di cui il primo è superiore al secondo, per cui il buon imperatore è un bravo sovrano cattolico se non cede a pretese contrarie alla Chiesa. Infine, per assicurarsi il governo diretto almeno sull’Italia centrale papa Stefano II sfodera in presenza di Pipino il Breve un documento contraffatto, la cosiddetta Donazione di Costantino, che fa dire all’ignaro imperatore romano diverse cose molto ambite dalla Chiesa di Roma. Egli avrebbe accettato il principio che il sovrano temporale governi per volere del papa e quindi di Dio; avrebbe concesso al papa il primato sugli altri patriarcati cristiani di Antiochia, Costantinopoli, Alessandria e Gerusalemme, e il dominio diretto su parte dell’Italia; inoltre riconosceva il pontefice giudice supremo del clero, stabiliva l’equiparazione fra la gerarchia ecclesiastica e quella civile e dava disposizioni sul governo dei beni temporali della Chiesa. Un documento che si rivelerà molto utile al potere temporale del papato. In realtà la vera donazione di Costantino alla Chiesa riguardava qualche basilica romana e la rendita di alcuni oliveti per assicurare il funzionamento delle lampade del Laterano.

La svolta costantiniana, facendo di fatto della Chiesa la religione di rappresentanza dell’Impero, l’assorbe nel sistema e ne muta gli obiettivi. Gradualmente, essa si riorganizza ricalcando i modelli giuridico-amministrativi imperiali. Si suddivide territorialmente in diocesi; istituisce una cancelleria e un archivio per i documenti emanati e ricevuti dalla sede di Roma; istituisce un tribunale per l’arbitrato episcopale in materia di fede e di dogmatica; su imitazione dei decreti imperiali, il vescovo di Roma comincia a usare la cosiddetta decretale papale, strumento giuridico in forma epistolare che impartisce direttive con valore vincolante su tutta la Chiesa in materia di fede, dogmi e disciplina ecclesiastica; il governo della Chiesa assume la forma piramidale al cui vertice il vescovo di Roma si porrà come un monarca assoluto. Ma per il momento la Chiesa è subordinata all’Imperatore e svolge un compito di rappresentanza e di freno nei confronti delle spinte centrifughe e delle rivendicazioni sociali. I vescovi sono nel libro paga dello Stato. La nuova immagine pubblica del Cristianesimo spinge a edificare splendidi edifici di culto e a escogitare servizi religiosi di grande solennità e sfarzo, elaborati e lunghi. Molti pagani cominciano a saltare sul carro del vincitore, e quando Teodosio fa del Cristianesimo di Roma l’unica religione licita, l’invasione dei pagani diviene un fenomeno travolgente e devastante. Eusebio denuncia il vizio dominante di quel tempo che era la dissimulazione e l'ipocrisia, e che esse caratterizzavano coloro che entravano nella Chiesa, la maggior parte dei quali erano dei falsi cristiani. La Chiesa è troppo intorpidita e confusa per opporre valide difese. Osservandosi crescere in quel modo pensa persino che stia vincendo, ma il trionfo è del sincretismo, avviato appena la Chiesa mette piede fuori dalla Giudea e magnificato dalla sua affermazione temporale! I culti pagani, distrutti nelle loro organizzazioni, introducono di soppiatto le loro dottrine e le loro superstizioni all’interno della Chiesa. Altrettanto dicasi per i loro rituali. Il servizio religioso cristiano diviene una sintesi di tutto ciò che offrivano le liturgie pagane del tempo. Virtualmente tutti gli elementi del rituale cattolico, dalla mitra all’ostia, all’altare, alla dossologia sono presi dai culti tradizionali e dalle religioni misteriche, così come ammettono gli stessi studiosi cattolici. “Appena la fede cominciò a espandersi fuori dall'area giudaica, l'ostilità iniziale verso il mondo pagano si trasformò in uno sforzo di accoglienza e di adattamento a culti, riti e tradizioni altrui”, afferma mons. Pier Giorgio Micchiardi, esperto di storia del primo cristianesimo. "I templi, l’incenso, le lampade, le candele, le offerte votive, l’acqua santa, giorni e stagioni di speciali devozioni, processioni, benedizioni di campi, vestimenti sacerdotali, la tonsura, le immagini – ammise il cardinale Newman – son tutte cose di origine pagana". Da sole queste contaminazioni basterebbero a stravolgere il senso del culto cristiano; il fatto è però che esse, oltre a comprimere e distogliere l’attenzione dallo studio della Parola e dalla preghiera comune, tendono a infondere un’aura di "mistero" sulla Cena del Signore e a far passare il messaggio che è il rito in sé a procurare la salvezza e che sia necessario un "sacerdote" che si rechi all’altare e offra un sacrificio per il popolo che ottiene giustificazione solo grazie a questo "medium". Non a caso proprio sul finire del quarto secolo, quando muta la concezione della presenza di Cristo nella Comunione, adesso vista estremamente localizzata nel pane e nel vino, cominciano ad elevarsi barriere tra l’altare e l’assemblea, tra il luogo santo e il cortile del popolo peccatore, fisicamente visualizzabili nella balaustra. Questo passaggio dalla Liturgia della Parola al Rito della Messa è un vero iato tra due modi di concepire il culto di adorazione e il rapporto con Dio. Lo spiega bene il Catechismo presbiteriano: "La messa insegna che ai vivi e ai morti non sono perdonati i loro peccati attraverso le sofferenze di Cristo a meno che Cristo non sia ancora offerto quotidianamente per loro dai sacerdoti. Perciò la messa essenzialmente non è altro che la negazione dell'unico sacrificio e delle sofferenze di Gesù Cristo e una condannabile idolatria". Tale impostazione, prima di un rito e poi di una dottrina (transustanziazione), divenne dogma di fede nel 1215 ed aprì la strada ad altre dottrine non evangeliche quali la penitenza, le opere meritorie e le indulgenze, che faranno da detonatore alla Riforma Protestante.

Il modello sociologico, che vede istituzionalizzarsi un movimento religioso al contempo crescendo in ricchezza e prestigio e irrigidendosi in una struttura di funzionari preposti all’amministrazione di una liturgia ritualizzata, applicato all’evoluzione della Chiesa cristiana, non solo è rispettato ma è anche accentuato per ragioni evidentemente inerenti al contesto particolare in cui essa è maturata. Sarebbe utile per concludere questa riflessione, nella parte che riguarda l’influenza del sincretismo sui rituali e sull’organizzazione, esaminare alcuni aspetti del contesto storico che possano spiegare l’esasperazione di questa linea di tendenza. Ne esamineremo tre che riteniamo particolarmente significativi.

La collusione con il potere e il confronto con i modelli organizzativi esistenti. Certamente la collusione con il potere civile ha impresso al cristianesimo una spinta verso un modello rigidamente piramidale e gerarchizzato. Non era scontato. Nel senso che il cristianesimo non è nato né come religione etnica, né come culto ufficiale di Stato, né come confessione per le classi dominanti. Il suo fondatore, cioè Gesù, non ha cercato né mai accettato tale collusione. Anzi ha denunciato le ingiustizie e i vizi dei potenti e per questo venne eliminato. Se avesse cercato alleanze, con le sue capacità personali, avrebbe certamente trovato appoggi e avrebbe potuto anche fondare il regno messianico per il quale i giudei lo attendevano. Ma non sarebbe stato il "suo" regno, un regno etico dove il potere ha la funzione di servire non di essere servito, dove il cuore è il primo prigioniero da liberare dal male. Egli si rivolgeva principalmente ai derelitti, ma non chiudeva la porta ai potenti purché accettassero le sue condizioni. Ne fecero le spese Giuda, che non guadagnò nulla a seguirlo, e il Giovane ricco "che aveva di gran beni" e non volle rinunciarvi. La Chiesa non fece tesoro di quest’insegnamento e tradì la propria vocazione alleandosi con i potenti alle loro condizioni. Probabilmente neppure s’avvide dell’errore, evidentemente perché quelle condizioni erano ormai pure le sue. Qualcuno osserva che il modello organizzativo della gerarchia cristiana era molto simile a quelli delle contemporanee religioni tradizionali e misteriche. Il Mitraismo fu un temibile concorrente del Cristianesimo, e trovò il favore di non pochi imperatori quali Diocleziano, Galerio, Licinio, Massimiano, Commodo, Caracalla e Giuliano. La sua organizzazione avrebbe potuto rappresentare un modello prestigioso da imitare. Il suo sommo sacerdote si chiamava papa, acronimo di Pater Patrus, portava un "pastorale" e un alto copricapo, i suoi "vescovi" vestivano di rosso, come di rosso vestivano pure i sacerdoti della dea Vesta. Può darsi che vi sia stato un influsso. Quel che importa è che il rosso era il colore dei potenti, e la Chiesa aveva scelto d’allearsi con i potenti e ne aveva adottato i fini e gli strumenti per conseguirli. Così facendo ha reso un cattivo servigio alla fede. La democrazia in Europa per avanzare ha dovuto combattere la Chiesa che, ponendosi dalla parte dei potenti, ha gettato discredito anche sulla religione.

Le due anime. Prima della venuta di Cristo, il contatto diretto con il Dio tre volte santo era un evento considerato estremamente rischioso. Quando Isaia vide per la prima volta Dio in visione, esclamò atterrito: "È finita! Sono morto. È finita perché sono un peccatore e ho visto con i miei occhi il Re, il Signore dell’universo!" (Is 6,5). Di fronte ai segni della presenza di Dio, gli israeliti ebbero paura e chiesero a Mosè di farsi suo tramite: "Se sei tu a parlarci, potremo ascoltare; ma se Dio stesso ci parla, noi moriamo!" (Es 20,19). Lo stesso corpo sacerdotale fu previsto per farsi tramite tra Dio e il popolo; solo essi avevano accesso al tabernacolo e potevano officiarvi. Anche nel mondo greco-romano erano i sacerdoti a mediare tra gli uomini e gli dei. In più, secondo la concezione antropologica del paganesimo, era avvertita la separazione tra anima e corpo, tra sacro e profano, tra le ambrosie dell’Olimpo e la condizione legata alla fisicità che rendeva l’uomo indegno di accostarsi alla divinità. Dio era al più presente nel tempio ove non era ammessa la presenza d’altri uomini all’infuori dei sacerdoti a lui consacrati. Quest’elemento di separazione viene superato dall’incarnazione di Cristo che unisce inscindibilmente il divino con la dimensione umana. L’uomo in tutte le sue dimensioni è ora reso degno d’accostarsi direttamente alla Divinità perché essa si pone all’interno d’ogni uomo che diviene esso stesso tempio che la ospita (cf 1Cor 3,16). In tal senso tutti i fedeli, avendo accesso diretto a Dio, sono adesso suoi sacerdoti. Per tale motivo le chiese cristiane non sono templi ma luoghi di riunione ove tutto il popolo è ammesso; Dio stesso è presente nell’edificio poiché è presente nei fedeli che vi si riuniscono "nel suo nome" (Mt 18,20). Non è l’edificio che comunica sacralità ai fedeli ma sono gli uomini/tempio che rendono sacro l’edificio, come qualsiasi altro luogo ove essi si riuniscono. Nonostante il conferimento di questa nuova dignità, che estende a tutti loro lo status e le prerogative che prima erano riservate ai soli sacerdoti, i cristiani stentano a separarsi dalla superata concezione veterotestamentaria, e dalla mentalità duale ereditata dalla cultura greco-romana, e continuano a ritenere necessaria la mediazione di un luogo sacro e di un sacerdozio dedicato a tale funzione di medium. E mentre cade in disuso il sabato, istituito in Eden e ribadito nel Decalogo, memoriale della creazione e saggio della nuova creazione, si sono moltiplicati i tempi sacri intesi anch’essi in funzione di mediazione. Come non attendersi allora che anche la Cena del Signore non venisse ripensata in funzione di mediazione? E infatti quella della presenza di Dio in chiesa, nell’Eucaristia piuttosto che nelle persone, è una delle credenze più diffuse nella cultura cristiana contemporanea ed è uno dei cardini della fede stessa per il Credo cattolico romano in quanto rappresenterebbe il culmine del contatto mistico e fisico con la divinità. Questo bisogno spasmodico di mediazione trova la massima corrispondenza nella ritualizzazione della funzione religiosa, non solo perché giustifica la presenza del luogo sacro in cui si svolge e dell’ordine sacerdotale che la officia, ma perché il rito stesso funge da mediatore in sé e nella mentalità comune raggiungerebbe "il risultato" per una via più "economica", senza dover coltivare una relazione troppo intima e assidua con Dio. Questa mentalità magico-propiziatoria è comune a tutte religioni che pongono l’accento più sugli adempimenti che sul rapporto di fiducia con la divinità. Da che esiste il mondo. E ciò valeva, potremmo dire, in modo particolare a Roma. La religione romana era infatti molto primitiva (antropomorfica e animistica) e formalista, poiché il favore della divinità e dei "santi" numi lo si otteneva con il rispetto scrupoloso dei riti. Essa era inoltre sostanzialmente contrattualista, in quanto più che la divinità si venerava la sua funzione e si basava sul principio del do ut des. Mancava un vero rapporto personale tra il credente e l’essere divino e la religione si riduceva di fatto alla credenza diffusa in tante superstizioni e nell’ espletamento di una serie di riti ritenuti necessari o anche solo utili. Quest’atteggiamento spiega come mai i romani potessero, soprattutto con l’arrivo dei culti misterici, professare più religioni contemporaneamente. Essi credevano nell’efficacia in sé dei riti; quindi più riti, più benefici; anche se provenivano da culti differenti. Questa difficoltà a trovare il rapporto diretto e personale con la divinità e questa spiccata attitudine al sincretismo fecero sì che inizialmente il cristianesimo venisse associato ai culti preesistenti e che in seguito gli altri culti fossero assorbiti, con gli opportuni aggiustamenti, dal cristianesimo. A cominciare dai riti.

Sincretisti per negare l’ateismo. Una delle accuse più gravi che venivano mosse ai cristiani era quella di ateismo. Può sembrare incredibile e calunniosa, eppure era un’accusa assai fondata se vista dalla prospettiva idolatra, politeista e ritualista dei romani. I cristiani erano atei nei confronti della religione dominante (perché non credevano negli dei) e nei confronti dell’imperatore, al quale non riconoscevano il culto divino. Sotto Domiziano molti di loro furono condannati con l’imputazione specifica di ateismo. Ma c’era un’altra ragione altrettanto valida che giustificava l’accusa e la apprendiamo dall’avvocato Minucio Felice, un pagano del secondo secolo convertitosi al cristianesimo: i cristiani erano atei perché "non hanno altari, né templi, né simulacri conosciuti" e il loro è un "Dio unico, solitario, avvilito… che non riescono né a mostrare né a vedere". Tutte le religioni avevano altari, templi e simulacri tranne il cristianesimo che non era quindi una vera religione perché gli mancavano gli strumenti e l’oggetto fisico a cui attribuire il rito esterno a lui dovuto. A prescindere dalla devozione interiore che il fedele potesse coltivare. Questa critica è rivelatoria di una concezione formalista che pone il sentimento religioso in secondo piano rispetto agli unici certi mezzi di salvezza costituiti dall’adempimento esatto di certi gesti, formule e osservanze, in altri termini: dei riti. Mette bene in rilievo questa mentalità, con le relative implicazioni, Lattanzio quando scrive: "Il culto degli dei… non ha in sé sapienza… perché in esso di nulla si tratta che giovi a migliorare i costumi ed a regolare la vita; e neppure tale culto importa qualche ricerca della verità ma soltanto un complesso di cerimonie a cui non deve partecipare l’animo ma il corpo". Come stupirsi allora della rapidità con cui la Chiesa di Roma, sospinta dal conformismo, si dotò di templi, altari, simulacri, cerimonie rituali e di sacerdoti che le officiassero? Chi meglio dei romani, culturalmente animisti, formalisti, contrattualisti e strutturalmente sincretisti poteva compiere questa metamorfosi così radicale? Non che in altre parti dell’Impero i cristiani fossero immuni da questa tendenza. Ma è un fatto, storicamente documentabile, che la Chiesa di Roma ha quasi in ogni dottrina spinto più delle altre nel movimento centrifugo dall’insegnamento evangelico.


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