mercoledì 22 ottobre 2008

Il sincretismo, nella dottrina dell'anima immortale

Introduzione. “La dottrina dello stato cosciente dei morti si basa sull’errore dell’immortalità naturale; essa, come quella delle pene eterne, è contraria all’insegnamento delle Scritture, ai dettami della ragione e ai nostri stessi sentimenti di umanità. Secondo la convinzione popolare, i giusti in cielo conoscono tutto ciò che accade sulla terra e in modo particolare quello che riguarda la vita dei loro amici rimasti quaggiù. Ma il defunto, potrebbe essere felice vedendo le difficoltà nelle quali si dibattono i vivi, i peccati commessi dai loro cari, il dolore, i disinganni, le angosce della loro vita? Di quale felicità celeste potrebbero godere coloro che seguono le vicende dei loro amici sulla terra? Come è ripugnante credere che appena l’alito vitale lascia il corpo, l’anima degli empi viene abbandonata alle fiamme dell’inferno! Che tortura devono provare coloro che vedono i loro amici non convertiti scendere nel sepolcro impreparati e quindi destinati a passare un’eternità di dolore e di peccato!” (E.G. White, Il Gran conflitto, ed. ADV, p. 545)

La convinzione che vi sia una parte dell’uomo che sopravviva alla morte viene data dai più come un fatto assodato. Quel che è peggio è che tale convinzione è pure requisito indispensabile per l’accettazione d’una serie d’altre dottrine altrimenti a priori insostenibili. Tutte queste dottrine, come vedremo, sono comunque indifendibili perché strutturalmente estranee alla rivelazione che le Scritture danno del carattere di Dio e del suo progetto a favore dell’umanità. Profondamente radicate nella cultura pagana del tempo, esse si sono insinuate furtivamente nelle comunità cristiane sin dall’inizio e diedero parecchio filo da torcere agli Apostoli nella loro attività di predicazione e di difesa della “sana dottrina”. Ma è in concomitanza con le conversioni di massa del IV secolo, che esse hanno avuto uno sviluppo tanto impetuoso da modificare radicalmente l’impianto teologico, antropologico ed escatologico della Chiesa. Questo processo sincretista si è spinto tanto profondamente nell’azione di rimescolamento e fusione di elementi tra loro estranei che non è così facile trovarne una definizione univoca osservando il percorso storico e il risultato; è infatti più realistico chiamarlo processo di cristianizzazione del paganesimo o di paganizzazione del cristianesimo? Tale gruppo di dottrine sarà l’argomento dell’odierna riflessione.


Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti?

“Ponete a un cristiano, protestante o cattolico, intellettuale o no, la domanda seguente: cosa insegna il Nuovo Testamento sulla sorte individuale dell'uomo dopo la morte? Tranne rare eccezioni riceverete sempre la stessa risposta: l'immortalità dell'anima; e tuttavia, questa opinione, per quanto possa essere diffusa, è uno dei più gravi malintesi concernenti il cristianesimo… La concezione cristiana della morte e della risurrezione… è incompatibile con la credenza greca dell'immortalità dell'anima”. Osservava Oscar Cullmann, teologo riformato dei più autorevoli del Novecento, nel suo celebre saggio Immortalità dell’anima o risurrezione dei morti? E proseguiva affermando che esiste “una differenza radicale fra l’attesa cristiana della risurrezione dei morti e la credenza greca nell’immortalità dell’anima… Se poi il cristianesimo successivo ha stabilito, più tardi, un legame fra le due credenze e se il cristiano medio oggi le confonde bellamente fra loro, ciò non ci è parsa sufficiente ragione per tacere su un punto che, con la maggioranza degli esegeti, consideriamo come la verità…Tutta la vita e tutto il pensiero del Nuovo Testamento [sono] dominati dalla fede nella risurrezione… L’uomo intero, che era davvero morto, è richiamato alla vita da un nuovo atto creativo di Dio”. Il Simbolo niceno-costantinopolitano, l’ultimo Credo comune alle chiese storiche risalente alla fine del IV secolo, recita: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, e non: “Aspetto che la mia anima venga accolta nei cieli al momento della mia morte”. Come si è giunti a questa sovrapposizione di dottrine del tutto inconciliabili? A questo “grave malinteso”?


L’anima della Bibbia

Se è ancora valida la regola che l’unico sicuro riferimento del cristiano è la Bibbia allora è da lì che dobbiamo cominciare. L’uomo secondo il pensiero biblico, non importa se dell’Antico o del Nuovo Testamento, non è mai concepito come una composizione di vari elementi assemblati e separabili, un corpo materiale e un’anima incorporea. Per cui non è neppure concepibile l’esistenza di un “quid” che continua a vivere separandosi dal corpo. L’uomo della Bibbia o è tutto vivo o è tutto morto. È vivo quando il corpo basar riceve l’energia vitale, la ruach, e diviene un essere che respira e che vive, un nephesh. Etimologicamente nephesh significa gola, respiro, e in senso lato prende il significato di vita, di essere vivente. L’uomo vivo è un nephesh, un “respirante”; quand'egli muore Dio si riprende la ruach e il nephesh torna ad essere basar, cioè solo un corpo morto restituito agli elementi. “Allora Dio, il Signore, prese dal suolo un po' di terra e, con quella, plasmò l'uomo. Gli soffiò nelle narici un alito vitale (ruach) e l'uomo diventò una creatura vivente (nephesh)” (Gn 2:7). “Se Dio… si riprendesse il suo spirito, il soffio della vita, ogni creatura cesserebbe di vivere e l'uomo tornerebbe ad essere polvere” (Gb 35:14,15). Nephesh, che è il termine biblico da noi tradotto con “anima”, non è quindi la parte immateriale e immortale dell’uomo ma è l’uomo intero che vive. Secondo la concezione biblica, l’uomo non ha un’anima immortale ma è un’anima vivente. “Gene­si 2:7 non distingue, come si fa comunemente nel presente uso linguistico, fra “corpo” e “anima”, bensì, più realisticamente, fra corpo e vita. Il re­spiro vitale divino, che si unisce a ciò che è materiale, rende l'uomo un “essere vivente”, tanto nella parte fisica che in quella psichica. Questa vita proviene direttamente da Dio con la stessa immediatezza con cui il corpo dell'uomo, privo di vita, riceve l'inspirazione dalla bocca di Dio che è piegato su di lui. Se Dio ritira il suo respiro, (Sal 103, 104; Gb 35:14,15) l'uomo ridiventa materia morta… Ne segue perciò che la “anima” biblica non può essere paragonata senz'altro al nostro concetto filosofico o dogma­tico di “anima” (Claus Schedl, Storia del Vecchio Testamento, Ed. Paoline).


Immortalità o vita eterna?
Se non c’è un’anima che sopravvive alla morte, cosa insegna allora la Bibbia sul destino dell’uomo che cessa di vivere? Ciò che appare sempre chiaro nell'insegnamento biblico è che d'immortale c'è solo Dio, "Re eterno, immortale… il solo che possiede l'immortalità" (1Tim 1:17;6:16). L'uomo invece non possiede l'immortalità come qualità na­turale; l'avrebbe ricevuta in dono solo se si fosse mantenuto ubbidiente: "Il giorno in cui tu ne mangerai, tu morrai" (Gen 2:17). "L'anima che pecca sarà quella che morrà" (Ez 18:14). E se l'anima può morire non è immortale. Dal momento, infatti, che ha avuto un inizio può anche avere una fine. La continuazione delle funzioni vitali era assicurata all'uomo dall'accesso all'albero della vita (v. Gen 2:9). Con il peccato tale accesso gli fu vie­tato proprio per impedirgli di continuare a vivere (3:22-24). I redenti torneranno ad avere accesso all'albero della vita (cf Ap 2:7;22:2) in modo che possano vivere per sempre. Più che di immortalità, riferendoci alle crea­ture, è più corretto quindi parlare di vita eterna. L'uomo decaduto, dive­nuto mortale, potrà ricevere la vita eterna se per fede accetta il sacrifi­cio sostitutivo di Cristo. Può anzi contarci da subito, sebbene di fatto la riceverà nell'ultimo giorno (Gv 6,40) quando "questo mortale avrà rivestito immortalità" (1Cor 15:54). La vita eterna è un dono (Rom 6:23), la riceve­ranno coloro che persevereranno nel fare il bene (2:7). Giovanni associa ma al contempo distingue i due momenti impliciti nella fruizione della promes­sa fatta da Gesù: "Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai" (Gv 11:25,26). Il credente è grandemente consolato perché sa che la sua avventura nell'eternità comincia subito, con il perdono, ed egli già oggi è cittadino del cielo, e non dalla credenza che una parte di sé continua a vivere pure dopo la morte (diritto che spetterebbe anche ai reprobi se l’anima fosse immortale). La morte passa sullo sfondo non perché sia un'illusione o un trapasso di dimensione ma perché è un nemico vinto. Il trionfo sarà celebrato nell'ultimo giorno con la risurrezione (Gesù ripete quattro volte questo passaggio - Gv 6:39,40,44,54 - come a volerlo sottolineare); tuttavia quel giorno futuro è come anticipato per il credente che vive in Cristo "primizia di risurrezione" (1Cor 15:20).


I morti vivono?
Ma allora: se l'immortalità è in Gesù Cristo che risusciterà i suoi nell'ultimo giorno, che cosa accade a chi muore in attesa della risurrezione? I morti vivono? La Bibbia afferma che essi scen­dono tutti nel soggiorno dei morti. Il termine usato (Sceol - Hadès) non indica né l'inferno né il paradiso ma semplicemente il sepolcro, la tomba. Giobbe associa al pensiero dello Sceol quello dell'ultimo letto, dei vermi e del riposo nella polvere (cf Gb 17:13-16). Scrive G. Marrazzo: «La mor­te è un “addormentarsi” (Shakab = coricarsi, giacere a letto). L’espressione “Addormentarsi accanto ai suoi padri” (2Re 14:16; 22:20; 15:7,22,38; 2Cr 26:2,23…) vuol dire semplicemente “morire”… I morti non comunicano con il mondo dei vivi (Eccl 9:6). Essi dormono, sono in uno stato di incoscienza, “non conoscono nulla” (Eccl 9:5). La morte pone fine a tutte le attività tipiche dei viventi: lavoro, studio, preghiera, apprendimento (Eccl 9:10; Sal 146:4). Lo stato di incoscienza rende inattive tutte le emozioni: niente più amore, né odio, né invidia… (Eccl 9:6)». Si recitano spesso i Salmi sulla tomba del defunto per salutare l'anima verso il suo presunto viaggio cosciente ed immortale… niente di più inappropriato. Il teologo ebreo Isidore Loeb, che si dedicò allo studio dei Salmi, osservava: “I morti sono liberi da ogni preoccupazione, coricati nella tomba, Dio non si cura di loro (Sal 88:6), non sanno niente e non possono più comprendere le meraviglie della Provvidenza (vers. 13). Non è per loro che Dio governa il mondo (vers. 11). Così, nella morte, il ricordo di Dio è perduto, nessuno potrà lodarlo (Sal 6:6). Non sono i morti che lodano Dio né coloro che scendono nell'impero del silenzio e dell'oblio (Sal 115: 17; 88:11,12). Il povero vuole lodare Dio mentre è ancora in vita (Sal 63: 5; 104:33; 119:175). Non vuole morire, ma vivere per raccontare le grandez­ze di Dio (Sal 118:17). Può la polvere lodare il Signore e raccontare le sue virtù (Sal 30:10)? L'uomo è come un soffio che se ne va e non ritorna più (Sal 78:39); il suo soffio lo lascia ed egli torna alla terra da cui è stato tratto (Sal 146:4)”. Il Nuovo Testamento non dice nulla di diverso, sebbene vi siano dei passi per noi oggi di non immediata comprensione di cui ci occuperemo più avanti. “Gesù si raffigura i defunti sotto lo stesso aspetto indicato nell'Antico Testamento e cioè in uno stato di assoluta incoscienza, incapaci di pensare e di volere. Essi non possono conoscere Id­dio né servirlo, lodarlo o sfidarlo. Ogni rapporto fra loro e Lui è cessato e se non risuscitassero, sarebbe di loro come se non fossero mai esistiti… La dottrina di san Paolo è ancora più esplicita di quella di Gesù… Tutto lo spazio di tempo che intercorre fra la morte e la risurrezione è nullo, è come non avvenuto, di modo che se non ci fosse la risurrezione, bisognereb­be rinunciare ad ogni speranza di oltretomba e non sarebbe più il caso di parlare di vita futura” (Aloys Berthoud).


Il sonno presuppone un risveglio

L'immagine del sonno è legata all'idea della transitorietà e presuppo­ne un risveglio. Le promesse ad Adamo e ad Abramo, non ancora soddisfatte, implicano un ritorno alla vita. È scorretto, come fanno alcuni sostenitori dell’immortalità dell’anima, affermare che l'Antico Testa­mento abbia le idee poco chiare sulla morte e sulla vita futura. Che dire allora dei seguenti passi?

"Il Signore eliminerà la morte per sempre! Asciugherà le lacrime dal volto di ognuno…" (Isaia 25:8).

"Popolo mio tutti i tuoi morti vivranno di nuovo!… Quelli che dormo­no nelle tombe si sveglieranno e canteranno di gioia. Infatti tu, o Signore, al mattino mandi la rugiada che vivifica la terra; essa darà vita a quelli che sono morti da tempo" (Isaia 26:19).

"Io sto per aprire le vostre tombe: vi farò uscire, popolo mio, e vi condurrò nella vostra terra, Israele" (Ezechiele 37:12).

"E tu, Daniele, sii fedele sino alla fine. Allora ti riposerai e poi ti alzerai per ricevere alla fine del tempo la tua ricompensa" (Dan 12:13).

"Io ho agito con giustizia e vedrò il tuo volto: al mio risveglio, mi sazierò della tua presenza" (Salmo 17:15).

“Io so che il mio redentore vive, e nell’ultimo giorno io sorgerò dalla terra; e che nuovamente mi circonderò della mia pelle, e nella mia carne vedrò il mio Dio” (Gb 19:25,26. Vers. del Cardinal Ferrari, Firenze 1929).



Né premio né castigo senza risurrezione

Il Nuovo Testamento mette ancor più in evidenza lo stretto rapporto che passa tra la risurrezione dei giusti e la vita eterna. “Non vi meravi­gliate: viene un'ora in cui tutti i morti, nelle tombe, udranno la sua voce e verranno fuori. Quelli che hanno fatto il bene risorgeranno per vivere; quelli che hanno fatto il male risorgeranno per essere condannati” (Gv 5:28 e 29). "Dio stesso ti darà la ricompensa alla fine, quando i giusti risor­geranno" (Lc 14:14). “Tutti questi uomini, Dio li ha approvati a causa del­la loro fede. Eppure essi non hanno raggiunto ciò che Dio aveva promesso. Infatti Dio aveva previsto per noi una realtà ancora migliore, e non ha vo­luto che essi giungessero alla meta senza di noi” (Eb 11:39,40). Non c'è ricompensa né prima né senza risurrezione. Ancor di più! Non c'è castigo senza risurrezione. L'A.T. afferma: "Molti di quelli che dormono nelle loro tombe si risveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per la ver­gogna, per l'infamia eterna” (Dan 12:2). Ad esso fa eco il N.T.: "… quelli che hanno fatto il male risorgeranno per essere condannati" (Gv 5:29). “Ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti" (Atti 24:15); i due mo­menti però non coincideranno. Al ritorno di Cristo risorgeranno “quelli che sono morti credendo in lui” (1Tess 4:16). Di coloro che partecipano a que­sta prima risurrezione è detto che son beati. “Essi appartengono al Signo­re, e la seconda morte non ha nessun potere su di loro; anzi, essi saranno sacerdoti di Dio e di Cristo, e regneranno con lui per mille anni” (Ap 20,:6). "Gli altri morti non tornarono in vita finché non furono passati i mil­le anni" (20:5). Gli empi non risorgeranno per vivere in eterno ma per riconoscere la propria follia e per ricevere la meritata condanna, cioè la seconda morte (vers. 6).


Un tempo irrilevante

Sembrerà banale, ma la Bibbia insegna che i morti sono… morti. Quan­do la vita torna al Creatore non resta altro che un corpo restituito agli elementi. Certamente (usando un antropomorfismo) possiamo affermare che rimane il loro ricordo nella mente di Dio, il quale “è potente da risuscitare anche i morti” (Eb 11:19). Dal giorno del decesso a quello della risurrezione i morti non hanno coscienza di esserci perché ef­fettivamente non ci sono. A nessun livello. Sono sottratti alla nostra dimensione spazio-temporale. Sembra una realtà spietata e in parte lo è: la morte è un evento profondamente drammatico, è “l'ultimo ne­mico”, “il re degli spaventi”. Ma a ben pensarci, al di là dell'imprescin­dibile realtà, lo stato d'incoscienza è un atto di misericordia. Il Signo­re, pietosamente, risparmia alle sue creature decedute d'assistere a tutte le nefandezze che si compiono sotto il sole. Inoltre, non avendo cognizione del tempo che passa, esse risusciteranno nello stesso istante in cui si sono addormentate. Per questa ragione Paolo esprimeva il desiderio di “lasciare questa vita per essere con Cristo” (Fil 1:23; cf pu­re 2 Cor 5:8). Perché ben sapeva che morendo egli si sarebbe subito proiet­tato nell'ultimo giorno, quando “da quel momento saremo sempre con il Signore” (1Tess 4:17). In fondo la morte è più penosa per chi resta, e deve elaborare il lutto, che per chi se ne va.


Voi non morrete affatto

A questo punto è naturale chiedersi: se la Bibbia non insegna l’immortalità dell’anima, perché la maggior parte della cristianità invece la dà come un fatto sostanzialmente scontato? La risposta ce la offre candidamente Tommaso d’Aquino, uno dei padri della Chiesa, quando afferma: “L’anima è immortale, come dice il grande Platone”. Nella sua brevità questa affermazione ci illumina su un fatto storicamente documentabile: la suddetta dottrina non si fonda sulla Bibbia ma sulle superstizioni e sulle speculazioni pagane. E come stiamo per dire il pensiero del filosofo Platone ebbe una parte non indifferente nella sua sistematizzazione teorica. Ovviamente non fu Platone a inventare l’immortalità dell’anima. È la stessa Parola ispirata che, sollevando il velo del passato, ci svela il nome del suo autore: Satana, il serpente antico, quando rassicurò Eva che non avrebbe conosciuto affatto la morte disubbidendo a Dio ma che, anzi, sarebbe diventata simile a lui (cf Gn 3:4,5). Il messaggio dei demoni, nelle manifestazioni spiritiche, è sempre quello che la morte non esiste, che è solo un passaggio da una dimensione all’altra, che solo il corpo muore restituendo libertà all’anima, allo spirito disincarnato. Lo scopo è evidentemente quello di far sottovalutare agli uomini le conseguenze del peccato e di gettare discredito sulle intenzioni di Dio. Per dare forza a quest’inganno, spesso essi stessi si manifestano assumendo le sembianze dei defunti che descrivono la loro esistenza felice in un aldilà luminoso o anche di sofferenza temporanea nell’attesa di essere ammessi tra gli spiriti beati. Un altro messaggio che fanno passare, soprattutto tra le popolazioni primitive, è quello di un atteggiamento non sempre benevolo degli spiriti dei trapassati nei confronti dei viventi. Si manifestano come presenze potenti ma anche permalose e dispettose, desiderose di doni e d’attenzioni. Non a caso quella forma di animismo, che è il culto dei morti, è una tra le più antiche e diffuse pratiche religiose al mondo. Culto che comportava preghiere e offerte allo scopo di propiziarsi il favore o anche di placare l’ostilità dei trapassati. Non deve far meraviglia pertanto la diffusione e l’antichità nella credenza dell’immortalità dell’anima, come non deve sorprendere che fosse estranea alla religione ebraica, l’unica rivelata dal Dio vero.

Anche i greci e i romani non si sono mai liberati da una cultura animista. Pur quando la loro religione ha assunto caratteristiche più evolute, ha continuato ad accompagnarsi al culto per i morti e ad una concezione dualistica della natura umana. Secondo il sentire comune dei greci l’uomo era costituito da due elementi tra loro contrapposti e di diversa dignità: da un lato l’anima, d’origine divina e sede delle facoltà superiori, e dall’altro il corpo, vile e corruttibile, sede degli istinti. Questa concezione antropologica deriva peraltro da alcuni miti soprattutto legati alla figura del cantore semidivino Orfeo, non a caso nativo della Tracia, terra di sciamani che collegavano il mondo dei vivi con quello dei “morti”, cioè dei demoni. Da questi miti e da altri d’origine egiziana e mesopotamica sorse l’Orfismo, religione misterica tra le più importanti della Grecia antica. L’Orfismo insegnava che l’anima, abitante dei cieli, a causa del peccato, è stata precipitata sulla terra e qui trasmigra più volte nei corpi per espiare la propria colpa finché purificata ritorna nella casa celeste. Sempre al periodo pre-classico risalgono le esperienze estatiche di alcuni veggenti, “maestri di sapienza misteriosa”, quali Ermotimo di Clazomene, che riferiva di avere esperienze di distacco dell’anima dal corpo, ed Epimenide di Creta che separatosi dal corpo sarebbe stato istruito dai daìmones. Raccogliendo questi “misteri”, Pitagora fondò la scuola orfico-pitagorica che insegnava la liberazione dell’anima dai lacci della corporeità attraverso un cammino iniziatico che prevedeva norme ascetiche come il vegetarianismo, studi matematici e riti misterici. L’anima di coloro che si attenevano a questo cammino, al momento della morte sarebbe tornata a Dio, altrimenti avrebbe dovuto rinascere in altri corpi. Con l’avvento del pensiero speculativo, l’argomento passò ai filosofi. Già Empedocle nel V secolo, conveniva che l'anima dell'uomo, è un demone che, a causa di una colpa originaria, è stato bandito dall'Olimpo dei beati, gettato in un corpo e legato al ciclo delle nascite". Ma è Platone, nel III secolo a.C., che adottando la visione orfico-pitagorica del corpo “tomba dell’anima”, sistematizza la dottrina e la aggancia ad un mito escatologico costruito attorno ad un’anima che ha come obiettivo finale l’affrancamento dal corpo per librarsi verso le regioni celesti da cui era precipitata – sulle cause il filosofo non è certo – per espiare una colpa originaria o per una legge cosmica a cui non è possibile sottrarsi. In questa teoria sono previsti un Inferno, un Purgatorio e un Paradiso ante litteram (Tartaro, Acherusiade e Iperuranio) e, secondo il modello orfico-pitagorico, un ciclo più o meno lungo di rinascite da alternarsi con i soggiorni nell’Acherusiade finché l’anima non si fosse purgata. Sempre secondo tale modello, è da notare che l’anima preesiste al corpo mentre vi è assolutamente estraneo il concetto di risurrezione sia perché lo scopo finale è quello di liberarsi dal corpo vile sede degli istinti sia perché l’anima, essendo immortale, non ha bisogno di essere riportata in vita. Quanto agli eletti, i filosofi sono favoriti perché raggiungono un miglior grado di conoscenza e hanno più probabilità di raggiungere direttamente la dimora celeste senza passare per il “Purgatorio”. Al primato della conoscenza (anziché della fede o dell’amore) s’ispireranno le scuole gnostiche come pure al disprezzo per il corpo che influenzerà anche il pensiero cristiano. Altro elemento da considerare: ci sono le pene eterne del Tartaro, ma riservate a pochi, ai più impenitenti. D’altronde in quel tempo in cui la violenza la faceva da padrona era sentita soprattutto l’esigenza che vi fosse almeno una giustizia divina che non lasciasse impunite le malefatte degli uomini (“Se… la morte fosse la fine di tutto, sarebbe una fortuna insperata per i malvagi morire” Fedone, 57). E infine c’è la trasmigrazione delle anime concepita per offrire la prospettiva di un miglioramento del destino umano per mezzo delle buone opere. Dottrina che tuttavia apriva altri problemi, avvertiti soprattutto dalle religioni orientali che ne fecero il perno della loro soteriologia; dove la previsione di una serie interminabile di esistenze, tutte condizionate dai comportamenti tenuti nelle vite precedenti, finisce per provocare un senso di vertigine e di scoraggiamento, persino di disgusto per la vita. D’altronde erano queste le credenze del tempo e lo stesso Platone aveva esposto la sua costruzione come la migliore sistematizzazione possibile degli elementi a sua disposizione. Egli l’aveva presentata in termini propositivi e non assiomatici. Tuttavia essa s’impose nel mondo greco-romano di fatto come verità dogmatica poiché la migliore teoria fino a quel momento concepita nell’ambito di una cultura animista.


L’imposizione della cultura greca

Conquistato l’impero, Alessandro Magno pose le basi e i suoi generali proseguirono un programma di ellenizzazione forzata dei territori sottomessi. Anche la Giudea dovette sottoporsi a questo progetto che raggiunse il massimo d’intensità e di violenza al tempo del sovrano seleucida Antioco IV Epifane. Non bisogna tuttavia pensare che tutti gli ebrei fossero ostili ad adottare i costumi dei conquistatori. La cultura greco-macedone si trovava in una fase di decadenza e i cattivi costumi prevalevano sull’insegnamento delle grandi scuole filosofiche precedenti; ma anche così essa esercitava un grande fascino sui popoli conquistati. Anche sui Giudei, nonostante le numerose incompatibilità con la loro religione. Molti, per aderire alla cultura greca, apostatarono dalla fede o la considerarono alla stregua di una filosofia; essi costituirono il partito ellenistico che si schierò apertamente dalla parte di Antioco IV nel suo progetto di denazionalizzare i Giudei, togliendo loro culto, istituzioni e costumi. A questo partito, detto anche dei “sincretisti”, aderiva la classe dominante della nazione, cioè gli aristocratici e persino alcune famiglie sacerdotali. Questo stato di cose portò alla decadenza dei costumi (per la pratica del nudo nelle competizioni sportive molti infransero il precetto della circoncisione) e, infine, alla profanazione del Tempio. Nel 177 a.C. il Sommo Sacerdote Onias III è costretto alla fuga dal fratello Giasone che introduce usanze greche nel Tempio di Gerusalemme; nel 167 Antioco ordina di trasformare questo in un santuario di Giove e vieta l’osservanza dei precetti quali la circoncisione e la santificazione del sabato. A buona ragione si può affermare che il tentativo di Antioco di costringere i Giudei ad abbandonare la loro religione e la loro cultura nazionale, per adottare la religione, la cultura e la lingua dei Greci, costituisce l’avvenimento più significativo della storia giudaica durante il periodo che si estende tra i due Testamenti. Al punto da essere predetto con dovizia di particolari nelle pagine profetiche del libro di Daniele. Nonostante la rivolta dei Maccabei, secoli di dominazione greca lasciarono il segno, anche in alcune credenze religiose ebraiche. Scrive Ivo Fasiori: «Questi cambiamenti sono riflessi dagli scritti del tempo, soprattutto da quelli chiamati "apocrifi" e "pseudoepigrafici"; in essi compare chiara la credenza nell'immortalità dell'anima, nell'inferno, nel giudizio subito dopo la morte, ecc… Nel I libro di Enoch (che è una specie di "Divina Commedia" ante litteram) troviamo tra l'altro una descrizione del luogo in cui sono punite le anime degli empi: "Queste belle località (ci sono) affinché, in esse, si radunino gli spiriti, le anime dei morti… e io vidi gli spiriti dei figli degli uomini morti". L'angelo che accompagna Enoch nel suo "viaggio" risponde a una sua domanda: "Questo spirito è quello uscito da Abele" (22:3,7). Queste creden­ze si trovano anche in alcuni di quei libri apocrifi che sono stati accet­tati come ispirati dalla Chiesa Cattolica e quindi sono compresi nelle Bib­bie cattoliche (ma non in quelle protestanti!). Ad esempio, nel libro della Sapienza, scritto tra il 50 e il 30 a.C., troviamo: "Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi de­gli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro dipartita da noi una rovina, ma essi sono nella pace" (3:1-3, versione CEI), e ancora: "Ero un fanciullo di nobile indole, avevo avuto in sorte u­n’anima buona o, piuttosto, essendo buono, ero entrato in un corpo senza macchia" (8:19,20, CEI). È chiara qui la credenza non solo nell'immortali­tà, ma anche nella preesistenza delle anime! Sotto l'influsso greco si dif­fuse quindi in varie correnti del giudaismo, l'idea dell'immortalità dell’anima, anche se in alcuni scritti troviamo ancora l'idea biblica, come in Tobia e nel II Esdra. Va notato difatti che non tutti accettavano questa teoria. Ad esempio gli Esseni di Qumran (di cui si sono scoperti moltissi­mi manoscritti, a partire dal 1947, databili tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C.) sostenevano l'idea biblica che possiamo chiamare "dell'immortalità condizionata" e non innata. Nefesh, a Qumran, come nell'A.T. designa l'uomo totale, l'essere vivente che ovviamente, può morire».


Quando nephesh diventa psychè

Per quanto detto non c’è da stupirsi se agli inizi dell’era cristiana anche in Palestina la credenza nell’immortalità dell’anima facesse parte del sentire comune. Gesù però non incoraggiò mai questa dottrina e come lui gli apostoli. Ci sono, è vero, dei passi nel Nuovo Testamento che sembrano indicare il contrario ma solo se non interpretati correttamente. E questa è l’opinione dei maggiori studiosi sia cattolici che protestanti. Talvolta è la stessa traduzione che rende il testo ambiguo o gli fa dire cose che non intende dire. Avvenne così con il termine nephesh (essere vivente, vita) quando venne tradotto, già dalla Septuaginta, con psychè che significa anima con tutte le sue famigerate implicazioni platoniche. Gesù si esprimeva in aramaico, lingua affine all’ebraico; e quando occorse tradurre i suoi detti in greco sorsero gli equivoci. Pensiamo alla famosa frase: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima. Temete piuttosto Dio che può mandare in rovina sia il corpo sia l'anima” (Mt 10:28). Qui sembra che Gesù incoraggi una visione dualistica, ma ci troviamo in realtà di fronte ad una traduzione fuorviante, in quanto “la corretta accezione del termine psychè (anima) in questo contesto, conduce al significato di vita [dall’originale nephesh], la vita eterna presso Dio, messa a confronto con la vita incerta e caduca che ora conosciamo e riguardante non certo una singola componente della persona, ma l’uomo nella sua interezza” (A. Vaccaro). Il corpo in questo caso indica una vita illusoria, che fa a meno di Dio ed è occupata in interessi che distraggono dall’edificare la vera vita. Questa traduzione scorretta di psychè con anima è ancora più evidente nel passo di Marco 8:35-37: “Chi pensa soltanto a salvare la propria psychè la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria psychè per me e per il vangelo la salverà. Se un uomo riesce a guadagnare anche il mondo intero, ma perde la psychè, che vantaggio ne ricava? C'è forse qualcosa che un uomo possa dare per riavere in cambio la propria psychè?”. Qui il termine psychè viene ripetuto quattro volte: con quale parola tradurlo? Sempre con vita, ovviamente, intesa nella sua concezione unitaria, come fa la TILC, e il significato del testo è pienamente rispettato. Ma la tentazione di farci entrare l’anima è troppo forte, e infatti non poche versioni traducono con anima le ultime due psychè, travisando il testo. Si guardano bene, però, dal tradurre con anima le prime due per non cadere nel paradosso di far dire a Gesù che è giusto perdere la propria anima per lui. In realtà Gesù, sia qui che altrove, nel rispetto della concezione biblica, parla sempre dell’uomo inteso in senso unitario.


Il centro della predicazione

Nel rispetto della visione unitaria dell’uomo, la predicazione escatologica di Gesù punta verso un punto ben preciso. Essa assume i toni dell’apocalittica giudaica, cita volentieri Daniele, l’Apocalisse dell’Antico Testamento. Predice un futuro fosco: sconvolgimenti nel mondo fisico, nelle relazioni tra gli uomini, persino la sua Chiesa abbandonerà il primo amore e si prostituirà con i potenti della terra. Prospetta un solenne giudizio ove tutti gli uomini saranno giudicati sulla base di un principio semplicissimo: il bene o il male che avranno compiuto nei confronti dei bisognosi e degli ultimi, di coloro che non possono ricambiare, sarà considerato come fatto a lui. Un metro di giudizio infallibile che non richiede neppure d’avere conosciuto lui o il suo messaggio, mentre i bisognosi non sono mai mancati e mai mancheranno sino alla fine. Ma questo giudizio effettuato sulla base della risposta individuale sarà un processo collettivo e verrà celebrato alla presenza della più grande assemblea mai vista nell’universo e che mai più si vedrà: saranno tutti lì: gli uomini giustificati e gli uomini impenitenti di tutti i tempi, gli angeli leali e gli angeli ribelli nel numero di miriadi di miriadi. L’assemblea più solenne di sempre che si terrà dopo quell’evento verso cui converge la Storia: la RISURREZIONE dei morti! Attenzione: dei morti e non dei corpi come si comincerà a dire molto più tardi: “Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri… ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 5:28,29). Risurrezione di vita. Ancor meglio: di “vita eterna”, che è l’espressione usata nei Vangeli a indicare proprio la condizione dei salvati dopo la risurrezione. E come Gesù puntò alla risurrezione, anche gli apostoli ne fecero il centro della loro predicazione, a cominciare da quella del loro Maestro “primizia di risurrezione per quelli che sono morti” (1 Cor 15:20). Specialmente Paolo basa la propria predicazione essenzialmente sull’annuncio di quest’evento epocale. Se Cristo non è risorto vana è la fede, e viceversa, se i morti non risorgono neppure Cristo lo è. E come Cristo risuscitò con il corpo che mostrò e fece toccare, così sarà per coloro che dormono nella polvere: risorgeranno con un corpo glorioso, incorruttibile e potente. Allontanandosi ulteriormente dalla mentalità ellenistica, già inconciliabile con l’idea stessa di risurrezione, egli parla di “corpo spirituale” o di “uomo celeste”, un vero paradosso per i greci che ritenevano incompatibile il corpo con la realtà celeste.


La grande delusione

Ma Paolo sperava anche, come tutti i cristiani delle origini, di attendere in vita il ritorno di Gesù, di non dover conoscere la morte. Questo ritorno però tardava. Così cominciò a temere, e poi ne ebbe la conferma, che egli non si sarebbe trovato nel gruppo dei viventi che avrebbero incontrato il Signore. Gli fu anche rivelato che quel giorno non era vicino e che la chiesa avrebbe conosciuto un’apostasia grande e tracotante che sarebbe durata sino alla fine. La sua fede non venne mai meno ma dai suoi ultimi scritti traspare la delusione e la stanchezza, persino la tentazione di “lasciare questa vita per essere con Cristo” (Fil 1:23). E se questa delusione toccò lui che aveva potuto vedere Dio e il Cielo (cf 2 Cor 12:2) immaginiamo quanto poté toccare gli altri credenti! I discepoli, che rappresentavano il legame storico con il Risorto, lo sprone, l’entusiasmo, l’insegnamento e la barriera contro le derive eterodosse, ecco i discepoli ad uno ad uno morivano; e morivano le persone care e i convertiti che essi avevano condotto all’Evangelo. Osservava il cattolico Sergio Quinzio: ”Il Nuovo Testamento si muove in un orizzonte di concretezza. Annuncia che i morti resusciteranno, che Cristo ritornerà, ci sarà un giudizio, ci sarà la vita eterna, da intendere come restituzione all’uomo - in carne e spirito - di una integrità perduta. Dio asciugherà le lacrime dei nostri occhi, non ci sarà più morte, non ci sarà più lutto. Ora, quando si prende atto che tutto questo non è avvenuto, evidentemente l'unica possibilità che rimaneva di permanere nel riconoscimento della messianicità e della divinità di Cristo, era di dire che le promesse così come erano state formulate sono state interpretate male da noi. Di qui l’idea che queste espressioni materiali erano allusioni e simboli di beni spirituali, erano metafora di una immateriale congiunzione col divino. Di fatto, però, i testi biblici non dicono questo. Io non ho trovato questa concezione ellenizzante e platonica della salvezza né nell'Antico né nel Nuovo Testamento”. Si fa strada così l’idea che dopo la morte, ma prima della risurrezione, si torni alla casa del Padre, là dove Gesù ci ha preparato un posto. Le due concezioni, la visione unitaria dell’Antico Testamento e il paradigma greco con l’anima immortale, si alternano, si combattono e infine si frammischiano; le parole degli apostoli vengono fraintese ed essi non ci sono più per correggere i confusi e per riprendere i sincretisti. Persino quel quotidiano recitare “venga il tuo Regno” non fa più coppia con maranà tha, “vieni Signore” (1 Cor 16:22). Passano i secoli, l’attesa si sbiadisce, la Chiesa non predica più il ritorno di Cristo e i credenti, dimentichi della speranza nella risurrezione, si accontentano di un pallido sostituto qual è l’involarsi dell’anima disincarnata verso il suo immediato e definitivo destino.


Il dibattito dei primi secoli

«Appena sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni dei presenti cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero: “Su questo pun­to ti sentiremo un'altra volta”» (Atti 17:32). Quale fu la causa dell'insuccesso di Paolo presso gli Ateniesi? Proprio la predicazione della risurre­zione che per essi era pazzia. Immortalità e risurrezione erano e rimangono concetti incompatibili. Il sincretismo cui è andato incontro il cristiane­simo, un po' alla volta, riuscì a superare quest'ostacolo; non senza resi­stenze, così come è logico attendersi dal confronto degli opposti. Abbiamo le prove che il problema emerse nella Chiesa già al tempo degli apostoli. Paolo mise in guardia contro queste “dottrine malsane, che si diffondono come cancrena in una ferita. Così hanno fatto anche lmenèo e Filèto. Essi si sono allontanati dalla verità, e ora mettono in difficoltà la fede di altri insegnando che la nostra risurrezione è già avvenuta” (2Tim 2:17,18). L’operazione che stavano compiendo questi greci efesini era quella di trasportare nella Chiesa il loro bagaglio di cultura e religiosità pagane sul tema dell’immortalità e della risurrezione. E Paolo dovette più volte tirar fuori l’argomento dello stato dei morti e della risurrezione proprio perché i cristiani di cultura greca non riuscivano a liberarsi da questo concetto di anima immortale che alla morte si svincola dal corpo vile e incompatibile con l’eternità. Dovette farlo con i tessalonicesi, costernati per la morte di alcuni confratelli avvenuta prima del ritorno di Cristo, atteso come imminente (siamo nel 50 d.C.). Il loro timore era che questi defunti non risuscitassero e le loro anime rimanessero imprigionate in una sorta di Ades omerico, in un’eterna condizione di vita depotenziata e mesta. E dovette farlo anche con i Corinzi. “Le loro convinzioni culturali, e forse filosofiche – afferma il teologo cattolico Sergio Tommaso Stancati – impregnate di dualismo, avevano avuto la meglio sulla freschezza e giovinezza dei contenuti della fede cristiana. Il dualismo faceva loro disprezzare la dimensione corporea ed esaltare quella spirituale. Essi, quindi credevano soprattutto in una perfezione psichica o dell'anima. Ma questo andava a detrimento della concezione realista, corporalista della risurrezione” (S.T. Stancati, Escatologia, morte e risurrezione, EDI, p. 241). Per questi corinzi l’anima immortale era sufficiente e la risurrezione dei corpi era illogica e superflua. Ma Paolo non predicava la risurrezione dei corpi bensì quella dei morti. Egli non credeva nell’immortalità dell’anima, al punto d’affermare che senza risurrezione ci sarebbe solo questa vita: “Perché se i morti non risuscitano, allora, mangiamo e beviamo perché domani moriremo” (1 Cor 15:32). Questo continuo sciacquare le dottrine cristiane alla fontana dell’escatologia greca si accentuò ulteriormente quando non ci furono più gli apostoli a difendere l’ortodossia; già nel II secolo l’idea di una retribuzione dopo la morte rendeva superflua per una non trascurabile minoranza di fedeli l’attesa della risurrezione. Ma, come dicevamo, trovarono comunque delle resistenze. Il martire Giustino, venerato dalla Chiesa cattolica, non lascia dubbi su come la pensava la maggioranza della Chiesa a cavallo tra il II e il III secolo: "Se avete conosciuto persone che si proclamano cristiani e che negano la resurrezione dei morti, sostenendo invece che dopo la morte la loro anima sarà accolta in cielo, allora non considerateli cristiani!". Quest’affermazione è basata sulla convinzione biblica che l’uomo non è una composizione di elementi assemblabili e disassemblabili tra loro, nega la dottrina della preesistenza delle anime, e propone l’immortalità come dono di Dio e non come qualità naturale dell’anima. Si badi bene come qui, in poche parole, immortalità dell'anima e risurrezione dei morti vengano considerate concezioni antitetiche, e si condanni la dottrina della retribuzione immediatamente successiva alla morte! Tuttavia l’avvertimento di Giustino dimostra pure che il problema si stava ponendo seriamente. Le insidie più pericolose vennero dai filosofi e dagli esegeti pagani che aderirono al Cristianesimo portando con sé il loro bagaglio culturale. Cinque di loro in particolare contribuirono notevolmente alla diffusione delle credenze dell’anima immortale e delle pene eterne: Tertulliano (160-220) che per primo incorporò nel suo edificio dottrinale il Purgatorio, le pene eterne dell’Inferno e le preghiere per i defunti. Clemente d’Alessandria (150-215) che, pur sostenendo la dottrina biblica dell’annientamento degli empi, e negando pertanto la tesi delle pene eterne, credeva nell’immortalità dell’anima. Origene (185-254) che oltre ad affermare l’immortalità dell’anima credeva in una sua preesistenza e contribuì ad elaborare la dottrina del Purgatorio. Alla fine diverse sue affermazioni furono considerate eretiche, ma l'impianto generale della sua dottrina finì per essere acquisito dalla Chiesa. Vediamo così che pian piano si fa largo un linguaggio di stampo platonico, con la distinzione tra anima e corpo (che perde via via importanza) e le varie “stazioni” di retribuzione. Altri padri come Ireneo di Lione, Gregorio di Nissa, Arnobio e Girolamo, pur accettando l’immortalità dell’anima, tentano timidamente di porre un freno a questa tendenza insistendo sull’unitarietà dell’uomo, pur nella diversità delle funzioni, e ribadendo che l’anima e il corpo si realizzano nella loro unione da cui nasce la persona. Altri ancora, come Lattanzio Firmiano (vissuto nel IV secolo) seguono la vecchia scuola che afferma lo stato incosciente dei morti; egli dichiara: “Tutte le anime sono detenute in un carcere comune [il sepolcro] fino a che non giunga il tempo in cui il giudizio esaminerà i meriti degli uomini”. Ma è ormai una battaglia di retroguardia perché il platonismo, attraverso la scuola neoplatonica, esercita un influsso inarrestabile. Scrive Ambrogio (339-397), il vescovo di Milano: “L’uomo trova nell’anima non solo una parte limitata del suo io, ma la totalità intera dell’essenza umana”. Ed eccoci infine ad Agostino di Ippona (354-430), non a caso definito il Platone del Cristianesimo. Quand’era ancora un manicheo aveva scritto un libro sull’immortalità dell’anima, e una volta che divenne cristiano conservò le sue opinioni in merito. Scrive il cattolico Piergiorgio Cattani: «Con Agostino assistiamo ad una svolta decisiva. Influenzato da Platone e dal neoplatonismo e mai liberatosi completamente da alcune dottrine manichee, il vescovo di Ippona propone un pensiero nettamente dualistico con una sopravvalutazione del ruolo dell’anima e la conseguente drastica riduzione dell’importanza del corpo. In una delle sue opere teologiche più impegnative, il De Trinitate, Agostino sintetizza la sua visione antropologica: “L’uomo è una sostanza razionale che si compone di anima e di corpo”. Ma non solo: l’anima rappresenta l’immagine divina ed è unita al corpo solo accidentalmente o funzionalmente, l’anima è immortale ed è la sede delle qualità superiori dell’uomo, l’anima dopo la morte, se vissuta cristianamente, avrà il privilegio della visione intellettuale di Dio (la cosiddetta visio intuitiva et beatifica) meta ultima delle aspirazioni umane. Il corpo invece è visto come la sede del peccato. In pagine oscure e terrificanti Agostino descrive il corpo preda degli istinti sessuali, del male e del diavolo, sede in cui si trasmette il peccato originale e luogo della morte e della caducità. Certo Agostino non rinnega la risurrezione del corpo, ma la pone in un tempo lontano e quindi in secondo piano rispetto al paradiso destinato all’anima del giusto dopo la morte. Commenta il teologo Alfredo Marranzini e con lui Andrea Vaccaro: “Al posto della viva attesa del regno di Dio propria della primitiva comunità cristiana, [Agostino] fa subentrare la brama ansiosa della visione di Dio nell’aldilà perché la vera realtà è solo il mondo intellettivo di lassù”» (P. Cattani, L’anima, la vita e la morte: la mia umanità risorge?, Trento 2007). L’influenza di Agostino fu talmente grande che fino ad oggi, serve a poco negarlo, si può ben dire che il Cattolicesimo porti una matrice agostiniana. Anche se poi Tommaso, affascinato dalla filosofia aristotelica, cercò di correggere il tiro affermando che l’anima separata dal corpo non è più “persona”. Rimane il fatto che nel 1336 papa Benedetto XII dichiarò che l’anima gode della visione beatifica di Dio subito dopo la morte del corpo, ribadendo così la concezione agostiniana. Con il Concilio Laterano V, nel 1513, la dottrina dell’immortalità naturale dell’anima fu infine adottata quale dogma ecclesiastico. Appena in tempo, verrebbe da dire, per passare quasi inosservata nei movimenti della riforma protestante. Ma già nel V secolo essa poteva considerarsi pienamente consolidata.


Le conseguenze del dualismo

Il dualismo platonico influenzò negativamente la fede e la cultura cristiana, per molti aspetti: intanto per aver conferito al Cristianesimo un’impronta spiritualistica, di disprezzo della materia e della corporeità, assolutamente estranea alla visuale biblica, sin dalle prime righe del racconto ispirato, quando Dio dichiarò la creazione in tutte le sue componenti “molto buona”. Poi, perché la credenza in un’anima cosciente e immortale che riceve la sua retribuzione al momento della morte diminuisce l’importanza del sacrificio espiatorio e rende la speranza nel ritorno di Cristo superflua, una dottrina accessoria e ridondante, un antropologo direbbe: “vestigiale”, cioè residuale. Ancora, perché lascia indifesi di fronte a manifestazioni d’origine satanica, quali lo spiritismo ed altri fenomeni medianici, erroneamente attribuiti agli spiriti dei trapassati. Devastante l’apertura della strada a “dottrine di demoni”, quali i cosiddetti “culti non adorativi” che hanno profondamente paganizzato la religione cristiana, l’hanno distolta dall’unico culto legittimo, che è quello dovuto a Dio, e di lui hanno travisato il carattere sollecito e misericordioso, pronto ad ascoltare le sue creature, senza il bisogno di alcuna mediazione in aggiunta al sacrificio di Cristo. C’è poi il Purgatorio, con le distorsioni che comporta sul carattere di Dio, sulla sufficienza del sacrificio espiatorio di Cristo, sull’acquisizione dei meriti umani, sulla monetizzazione delle sofferenze, sulla discriminazione di chi non ha amici che offrano i suffragi, sull’illusione che sia possibile rinviare dopo la morte la correzione dei propri tratti di carattere. E le pene eterne da infliggere alle anime immortali degli impenitenti, rappresentano adeguatamente l’amore di Dio? Persino molti culti non cristiani, su quest’aspetto, offrono un’immagine più “umana” del loro dio. Diceva bene il saggio Pascal quando scrisse in uno dei suoi “Pensieri” che “tutto cambia” a seconda di cosa si pensi sull’anima.


Eunuchi per il regno dei cieli

Dalla concezione dualista di un’anima, d’origine divina e sede delle facoltà superiori, e di un corpo vile e corruttibile sede degli istinti non potevano che derivare aberrazioni prevedibili e del tutto estranee alla visione unitaria biblica della creazione tutta buona e benedetta. Questa concezione passò al cristianesimo sia dal confronto con lo gnosticismo e il manicheismo, che attribuivano la creazione del mondo fisico ad un demiurgo o a un dio malvagio, sia dall’adesione al neoplatonismo che dal dualismo platonico aveva mutuato la contrapposizione tra spiritualità e carnalità, l’avversione verso il mondo dei sensi e la necessità di liberarsi dalle catene della sensualità attraverso una rigorosa disciplina ascetica. Origene, studente di Ammonio Sacca, fondatore del neoplatonismo, giunse ad autoevirarsi e fu per questo elogiato dallo storico ecclesiastico e vescovo Eusebio. Agostino aderì al cristianesimo frequentando il cenacolo neoplatonico di Ambrogio, vescovo di Milano. Quando divenne vescovo di Ippona, fece subito costruire un monastero ove costrinse ad abitarvi tutti gli ecclesiastici della città perché vivessero in castità. Secondo questa visione dualistica, la vita spirituale andava coltivata reprimendo le esigenze della carne e, ovviamente i chierici, dovevano dare l’esempio. Il celibato dei preti fu già introdotto con il concilio di Elvira, nel 305. Scrive la teologa cattolica Uta Ranke-Heinemann: «La teologia è diventata sempre più una teologia di celibi, il peccato è visto sempre più nell’ambito della sessualità. Il cristianesimo, con la sua crescente nevrosi sessuale, con la sua ansia di spingere i laici verso il monachesimo, si allontana sempre più dall’origine ebraica dell’Antico Testamento e dall’ebraismo. Il verginale cristianesimo condanna il carnale ebraismo: le otto omelie contro gli ebrei che Crisostomo tenne nel 387 ad Antiochia sono una diffamazione unica nel loro genere. L’ebreo è “carnale”, “lussurioso” e “maledetto”. “Qui si racchiude fino ai nostri giorni l’arsenale di tutte le armi contro gli Ebrei”… In [papa] Siricio si trovano già riassunti molti aspetti tipici del cattolicesimo: l’avversione al piacere che conduce all’avversione al matrimonio, l’avversione al matrimonio che conduce al celibato e la dottrina del concepimento verginale e della verginità biologica perpetua di Maria… Siricio è una delle molte pietre miliari su una lunga strada che, da un cristianesimo originario, come era o come sarebbe dovuto essere, cioè luogo dell’esperienza personale di ciascun uomo dell’amore di Dio offerto a tutti, in cui il corpo ha la sua collocazione naturale e voluta da Dio, ha generato il dominio di una casta di celibi che impone la sua autorità su una massa immatura e in gran parte sposata. L’opera di Colui dal quale i cristiani prendono il nome è stata così travisata… Furono soprattutto i padri della Chiesa a impegnarsi a favore del celibato. Il padre della Chiesa Cirillo di Gerusalemme (morto nel 386) pensa che “un buon prete si astiene dalla moglie” (Catecheses 12,25) e Girolamo scrive contro i vescovi che tollerano “le mogli dei chierici incinte e i bambini che gridano tra le braccia delle madri”, nello scritto contro Vigilanzio: “Alla fine non ci distinguiamo più in nulla dai porci” (cap. 2). Dei preti che continuano “ad avere figli”, Ambrogio afferma che: “Pregano per gli altri con lo spirito e il corpo impuri” (De officiis ministrorum II, 249)… I movimenti di riforma nella Chiesa cattolica significarono sempre, oltre al rafforzamento del potere papale, soprattutto oppressione delle donne e imposizione del celibato… Non è un caso che il grande scisma tra chiesa orientale e chiesa occidentale abbia avuto luogo in seguito alla riforma gregoriana, poiché il matrimonio dei preti giocò un ruolo decisivo in questa riforma… Un altro seguace della riforma gregoriana è il quaresimalista e nemico delle donne Pietro Damiani (morto nel 1072). Egli dice che Cristo è nato da una vergine e dovrebbe quindi essere servito da anime verginali anche nella celebrazione eucaristica. Solo mani verginali possono toccare il corpo del Signore (De dignitate sacerdotii). Non gli andava che Pietro, il primo papa, fosse sposato: per questo zelante assertore del celibato, “Pietro ha lavato col sangue del suo martirio la sozzura del matrimonio” (De perfectione monachorum)» (U. Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli, Rizzoli, 1990). Nel giugno del 2005, alla vigilia del referendum sulla procreazione assistita, il cardinal Ruini affermò che “la fede cristiana non è affatto ostile al corpo e alla sessualità, ma al contrario ci aiuta a scoprire pienamente il loro genuino valore”. Evidentemente voleva riferirsi alla fede cristiana come l’intendeva Gesù, che inaugurò il suo ministero partecipando ad una festa di nozze, e non come l'ha intesa la Chiesa nella sua storia millennaria.


L’inganno dello spiritismo

La convinzione che i nostri cari defunti vivano in un’altra dimensione abbassa le nostre difese contro l’inganno dei fenomeni medianici. Pensiamo a quella forma moderna di negromanzia che è lo spi­ritismo. Iniziò quando una “entità”, contattando le sorelle Fox, si spacciò per lo “spirito” di una persona assassinata nella loro casa e di cui, in seguito, si rinvennero i resti. Missione di questi “spiriti” appare in tut­ta evidenza quella di propagandare l'immortalità dell'anima. Secondo i loro messaggi la morte non esisterebbe, sarebbe solo un passaggio dimensionale attraverso cui lo “spirito disincarnato” raggiungerebbe la beatitudine. Ta­li entità sono molto ambigue nei confronti della Bibbia: anche quando a pa­role ne esaltano il valore, di fatto ne disprezzano il contenuto. Rinnegano la dottrina della caduta in Eden, del pentimento e della redenzione tra­mite il sangue di Cristo. Negando la realtà della morte, tradiscono la pro­pria identità; sappiamo infatti chi affermò sin dall'inizio: “No, non mori­rete affatto”. Ma spesso queste entità si oppongono esplicitamente alla Bibbia, affermando ad esempio: “Finché rispondete ai nostri argomenti con un testo biblico, non possiamo istruirvi”. D'altra parte la Bibbia s'oppone alle pratiche spiritiche, condannandole con la massima severità. La ragione è evidente: se i morti sono incoscienti, le entità soprannaturali e bugiar­de che si presentano sotto le loro sembianze non possono che essere quegli “spiriti di demoni” che operano per la rovina del mondo. Afferma Paolo: “Io non voglio che siate in comunione con gli spiriti maligni… La luce può essere unita alle tenebre?” (1Cor 10:20; 2Cor 6:14). Eppure la cristianità “dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demoni” (1Tim 4:1), ha mi­schiato luce e tenebre ed ora brancola nel buio. Il fatto che l'immortalità dell'anima sia sostenuta con tanto impegno dai demoni, non dovrebbe quanto meno insospettire? Questi viaggi di gente “morta per qualche ora” fra le anime dei defunti e dei non ancora nati; o, ancora, queste entità che si rivelano ai familiari di persone scomparse di recente. Spacciandosi per i loro congiunti, esse dichiarano di vivere felici e leggeri anche quando, appena morti, devono passare per la sofferenza e superare delle prove (il Purgatorio!). Qualche anno fa a Torino duecento persone che praticano tali espe­rienze si sono incontrate in congresso con sacerdoti, teologi, docenti uni­versitari, medici, psicologi e scrittori. Che aiuto hanno dato gli uomini di chiesa a questa gente ingannata dai demoni? Don Silvio Faga, direttore della Scuola teologica di Ivrea, non seppe che definire tali fenomeni: “Un mistero del­la fede”; quando avrebbe dovuto subito stigmatizzarli come “mistero dell'empietà”. È vero che la Chiesa condanna il ricorso alle pratiche spiritiche, ma non è in grado di spiegarne le ragioni in tutta la loro portata. Afferma giustamente che la Bibbia le vieta con fermezza ma non sa dire il perché di tale fermezza. Sottolinea il rischio degli inganni e delle truffe di cui è spesso vittima chi frequenta gli operatori dell’occulto, il carattere superstizioso e alienante dalla realtà implicito nell’approccio a questo genere di pratiche, la presunzione di volersi porre al posto di Dio cercando di controllare la dimensione soprannaturale, il metodo in sé scorretto, la modalità con cui si cerca la comunione con le anime dei trapassati e, per ultimo, ma proprio per ultimo, la possibilità che talvolta tali pratiche non siano immuni da un “influsso demoniaco che comunque non viene escluso”. Ovvero la ragione principale, quella della comunione con i demoni, viene posta per ultima e come una semplice possibilità. Non bisogna pertanto stupirsi quando soprattutto i familiari di persone recentemente scomparse, di fronte alla prospettiva di comunicare con i propri cari, sottovalutino un rischio così ipoteticamente paventato. La confusione aumenta considerando che la Chiesa tollera al proprio interno la presenza di teologi e sacerdoti che condividono queste pratiche, le sanciscono prestando le loro firme ed esponendo le loro credenziali accademiche o gl’incarichi di una certa rilevanza ecclesiale. Nessuna confusione sarebbe invece possibile se si dicesse alla gente la verità, quella che insegna la Bibbia, e cioè che i loro cari riposano in stato d’incoscienza nell’attesa della risurrezione. Allora sarebbe chiaro che il contatto con l’aldilà è in realtà sempre comunione con i demoni, gli “spiriti bugiardi”, e sarebbe pienamente comprensibile la ragione per cui la Bibbia vieta con fermezza queste pratiche. D'altronde la Chiesa non erige santuari alle madonne che piangono, sanguinano e guariscono? Non sono anch'essi fenomeni medianici detti, appunto, paranormale religioso, come la lacrimazione di latte dall’effigie dei dio Ganesh in India?. La signora Candela, dopo la morte della figlia Beatrice, non riusciva a darsi pace finché non ha chiesto aiuto alla Madonna di Medjugorie; da allora la “figlia” ha iniziato a parlarle median­te la cosiddetta “scrittura automatica”. Il culto ai santi e lo spiritismo hanno una matrice comune e si basano su quel primo inganno pronunciato dal serpente antico: “Non è vero che morirete”.


I culti “non adorativi”

Il culto dei santi è sorto in qualche modo come calco e in sostituzione di quello delle divinità e delle semidivinità pagane, gli eroi divinizzati, chiamati dai greci “demoni” (daimones). Nella concezione religiosa degli antichi greci era infatti ammesso che una creatura umana potesse acquisire una dignità quasi divina e ci si poteva ad essa rivolgere per ottenere aiuto e protezione. Anche i romani avevano i loro numi tutelari che venivano invocati a protezione soprattutto della casa; ogni comunità, quartiere e città aveva i Penati ovvero demoni protettori, trapassati divinizzati. E così pure le corporazioni avevano i loro numi tutelari. Ad essi s’innalzavano altari, si accendevano candele, si bruciava l’incenso, si rivolgevano preghiere, spesso in funzione d’intermediazione tra l’uomo e le divinità. Come affermava Plutarco, i daimones “recano lassù le preghiere e le richieste degli uomini, e di lassù recano quaggiù oracoli e doni di cose benefiche”. Va ancora detto che secondo la concezione pagana del primo secolo non tutti i daimones avevano origini umane (o, meglio, per la visione platonica del tempo: non tutti avevano albergato in corpi umani) e tra loro potevano trovarsi i buoni e i cattivi, potevano cioè anche indicare figure angeliche e spiriti maligni.

Leggiamo questo avvertimento che l’apostolo Paolo rivolge ai cristiani che mangiavano la carne sacrificata ai daimones: “Perciò, carissimi, non adorate gli idoli… Non voglio dire con questo che il sacrificio offerto all'idolo abbia qualche valore o che l'idolo stesso valga qualcosa. Intendo invece dire che i pagani, quando fanno un sacrificio, lo offrono agli spiriti maligni (daimones), non certo a Dio. E io non voglio che siate in comunione con gli spiriti maligni. Non potete infatti bere il calice del Signore e quello degli spiriti maligni. Non potete mangiare alla mensa del Signore e alla mensa degli spiriti maligni” (1 Cor 10:14,19-21). Qui Paolo sembra utilizzare il doppio significato che la parola daimones consentiva, di semidivinità pagana (e per estensione, delle divinità in genere) e di demonio, per ricordare ai cristiani che sebbene gli déi pagani fossero un’invenzione umana i demoni che stavano dietro a tali culti erano al contrario una realtà concreta.

L’Apocalisse, nel descrivere una serie di calamità che si abbatteranno sugli uomini prima del ritorno di Cristo, afferma degli impenitenti: “Quelli che non erano stati uccisi da questi flagelli, non abbandonarono gli idoli fatti con le loro mani, e non smisero di prestare il culto ai demoni e agli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno, che non sono in grado di vedere, di udire e di camminare” (Ap 9:20). Qui Giovanni si riferisce nuovamente ad un culto offerto agli idoli e ai daimones da tutta l’umanità, compresa quindi la cristianità, sino agli ultimi giorni del mondo. In che modo la cristianità offrirebbe il culto ai demoni? Escludendo quello diretto, che appartiene al mondo inquietante ma marginale e dai più riprovato del satanismo, rimane quello indiretto dei daimones cristiani, gli eroi della fede che eserciterebbero l’ufficio di intermediari tra gli uomini e la Divinità, che a dire degli stessi padri della Chiesa deriverebbero di fatto dai daimones pagani. Scriveva il vescovo siriano Teodoreto (393-457): “Perché trovate voi sbagliato se lo facciamo anche noi nei confronti di coloro che sulla terra sono stati eminenti nella pietà e soffrirono il martirio? Noi cristiani non li chiamiamo demoni, che Dio ce ne guardi, ma amici e servitori di Dio, i quali essendo ora morti e quindi fuori dal loro corpo, hanno la capacità di guardare gli affari degli uomini. Ed è per questo che vengono invocati”. Il richiamo alla dottrina platonica è ancora più esplicito in Eusebio, vescovo di Cesarea (265-340), che si riferisce direttamente allo stesso Platone, “il quale vorrebbe che gli uomini morti per la patria fossero considerati demoni, e che i loro sepolcri fossero adorati come quelli dei demoni”, per giustificare le cerimonie che già al suo tempo i cristiani celebravano sulle tombe dei martiri e che a suo avviso è giusto che “siano accettati come campioni della vera religione... Da qui la nostra abitudine di andare presso i loro sepolcri e di rivolgere loro una preghiera e dare onore alle loro anime benedette”. Quindi proseguendo il culto dei daimones i cristiani hanno dato retta “a spiriti seduttori e a dottrine di demoni” (1 Tm 4:1); perché alla base della pratica religiosa per cui ci si “rivolge ai morti a favore dei vivi” (Is 8,19), comunque condannata dalla Bibbia, c’è la dottrina dell’immortalità dell’anima vero cavallo di battaglia dell’insegnamento satanico.

Infatti il culto dei santi si basa “sulla convinzione che i membri defunti della chiesa esistano ancora e che vivano con Cristo”, come afferma il catechista R. Aigrain. Ciò significa che all’inizio, quando la Chiesa credeva nel sonno dei morti, tale culto era inconcepibile. Allora i sepolcreti erano chiamati dai cristiani “cimiteri”, parola rimasta in uso fino ad oggi che significa semplicemente “dormitori”. Che senso avrebbe avuto parlare con i dormienti? Però già al tempo di Giustino, come abbiamo visto, alcuni cominciavano a credere “che dopo la morte la loro anima sarà accolta in cielo”. È un passaggio graduale: si comincia a pregare per i morti poi si pregano i morti. Come resistere, infatti, alla tentazione di comunicare con quelli che prima erano tra noi e che ora starebbero alla presenza di Dio? Si esordì con l’onorare il ricordo degli apostoli e dei martiri, quelli che avevano testimoniato con la vita la loro fedeltà all’Evangelo. Per l’anniversario della loro morte ci si recava presso la loro tomba e si celebrava il “refrigerium”, o pasto funebre, con l’eucarestia, preghiere e letture. Ma è verso la metà del III secolo che si cominciò ad invocare i martiri per ottenere la loro intercessione, e questa pratica è anche testimoniata dalle iscrizioni nelle catacombe. L’invocazione dei martiri si diffonde nelle chiese che ne accolgono i cenotafi e le reliquie; il vescovo Ambrogio esorta i fedeli a indirizzare loro preghiere perché intercedano per la remissione dei loro peccati. A partire dal IV secolo, quando cessano le persecuzioni, il culto viene esteso ai confessori e alle vergini. Al contempo, con l’ingresso in massa dei pagani, il culto dei santi sostituisce e si sovrappone a quello ormai proibito degli déi e dei semidei con riguardo alle loro competenze. I santi si specializzano e se ne trova uno per ogni arte, mestiere e corporazione, o per guarire particolari malattie. Ogni città, prima devota ad una divinità pagana, viene affidata alla protezione di un santo e vengono mantenute le feste patronali. Ormai i santi prendono il posto non solo degli déi pagani ma anche del Dio cristiano, persino sui portali delle cattedrali, e per visitare le loro tombe i fedeli sono disposti a compiere lunghi pellegrinaggi.

Cosa ha tutto questo a che vedere con la religione della Bibbia? Nulla. Si è mai sentito che gli ebrei invocassero i loro santi? Eppure ne avevano di eroi della fede, l’Antico Testamento è pieno delle loro gesta! La sequenza dei martiri fu inaugurata dal diacono Stefano, il racconto del suo martirio è riportato dettagliatamente nella Bibbia: in quale passo si raccomanda di rivolgergli preghiere? Non soltanto nel Nuovo Testamento manca il minimo accenno alla venerazione dei defunti ma da esso appare chiaro che le creature di Dio allontanano con orrore ogni atto di culto a loro rivolto, siano esse uomini (At 10:25s; 14:13ss) siano esse angeli gloriosi (Ap 19:10; 22:8s). Satana invece, che ha invidia di Dio, brama essere oggetto di culto; ma Gesù gli ricordò che “nella Bibbia è scritto: Adora il Signore, tuo Dio; a lui solo rivolgi la tua preghiera” (Mt 4:10). Nessuna creatura è degna di preghiera e nessuna creatura può vantare meriti di fronte a Dio, né per sé né per gli altri; quando essa ha agito bene ha fatto solo il proprio dovere, insegna il Maestro (cf Lc 17:10). E poi, Gesù non ha bisogno di assistenti, Egli è il “solo mediatore tra Dio e gli uomini” (1Tm 2:5). Il suo ministero è più che sufficiente e il suo amore per gli uomini ha superato la prova dell’estremo sacrificio. Il Padre stesso è un ascoltatore sollecito delle preghiere. “Dunque, se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, a maggior ragione il Padre vostro che è in cielo darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Mt 7:11). “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi; perciò, come potrebbe non darci ogni cosa insieme con lui?” (Rm 8:32). Egli “che già agisce in noi, con potenza, e in tutte le cose può fare molto più di quanto noi possiamo domandare o pensare” (Ef 3:20). Dio non è un monarca orientale, un imperatore romano o un re feudale che interpone tra sé e i suoi sudditi una gerarchia di vassalli, valvassori e valvassini. Non dobbiamo immaginarci il cielo sul modello delle società tronfie e arroganti degli uomini. Dio è l’estrema maestà ma è anche umile ed ama le sue creature. Chiunque può rivolgersi a lui direttamente certo di essere accolto ed ascoltato. “Dunque accostiamoci con piena fiducia a Dio, che è re misericordioso. Così riceveremo misericordia e grazia, per essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4:16). “Tutto il resto viene dal diavolo” (Mt 5:37).

Tra i culti cristiani resi alle creature il più stupefacente per evoluzione e diffusione è quello di Maria, madre di Gesù. Vale la pena fermarsi un momento per alcune considerazioni. Quella di Maria è una figura onorevole che ha avuto un ruolo significativo nel piano della salvezza, in quanto a lei è stato concesso il privilegio ambito tra le donne d’Israele di generare il Messia che si è rivelato essere nientedimeno che il Figlio divino fattosi carne. Lei ebbe pure il compito fondamentale e delicato di provvedere alla sua educazione e alla sua istruzione primaria ed, evidentemente, lo svolse con impegno se pensiamo alla sorpresa che suscitò la preparazione del ragazzo presso i rabbini del Tempio. Al contempo, un altro fatto che emerge con chiarezza dal racconto neotestamentario, è quello che il ruolo straordinario di Maria nel piano della salvezza cessa nel momento che Gesù lascia la casa per iniziare il suo ministero. Da questo momento i Vangeli la nominano poche volte e quasi sempre per sottolineare il rapporto d’indipendenza di Gesù rispetto a sua madre. Mons. Romano Penna, teologo biblista, parla addirittura di "presa di distanza". Viene infine menzionata un’ultima volta nel libro degli Atti quando la troviamo, dopo l’ascensione di Gesù, nella camera alta insieme alle altre donne, agli apostoli e ai fratelli di Gesù. L’ordine in cui qui viene ricordata non lascia assolutamente supporre un riconoscimento onorifico o gerarchico nel gruppo, come invece poi avverrà con Giacomo, fratello di Gesù, che fu chiamato a dirigere la chiesa di Gerusalemme. Da questo momento su di lei cala il silenzio. Quando Pietro volle insegnare un esempio di fede al femminile, tessé le lodi di Sara e non di Maria (1 Pietro 3:6). Neppure Paolo nelle sue molte lettere la nomina mai, anche quando avrebbe potuto farlo, per esempio in Galati 4:4 (“Dio mandò suo Figlio, nato da donna…”). È come se gli apostoli volessero scoraggiare nella chiesa la genesi di una devozione considerata sconveniente. Silenzio quasi totale anche dei primi padri della Chiesa (Clemente, Policarpo, la Didaché); di lei si perse ogni memoria, anche della sua tomba e della sua data di morte. La tradizione la vuole trasferita ad Efeso, insieme all’apostolo Giovanni a cui era stata affidata.

Dal momento che gradualmente prese avvio il culto degli eroi cristiani, cominciando dagli apostoli e dai martiri e proseguendo con i confessori e con le vergini, fu inevitabile ricordarsi della Vergine per eccellenza, di colei che a Cristo aveva dato i natali. Il fattore svincolante che ne rese possibile il culto pubblico e generalizzato fu il dogma proclamato dal concilio, tenuto proprio ad Efeso nel 431, che dichiarò Maria “Madre di Dio” (Theotokos). Subito dopo vengono edificate a Costantinopoli tre chiese dedicate a Maria e a Roma la basilica di Santa Maria Maggiore. È importante però sottolineare che quello della Madonna fu un culto nato dal basso, per una fortissima spinta sincretista, che dapprima le gerarchie tentarono di frenare. È significativo il fatto che, a parte la Theotokos, voluta peraltro in un contesto di dispute cristologiche, e la perenne verginità, a cui fa riferimento il Concilio Costantinopolitano II (553) e che venne definita dal Concilio Lateranense (649), bisogna attendere il 1854 per la proclamazione di un altro dogma (l’Immacolata Concezione) che riguardi specificamente il culto mariano. Certo, esso fu reso possibile dall’ingresso di tanti altri errori dottrinali quali l’immortalità dell’anima, il suo stato cosciente, la sua presenza accanto al trono di Dio, l’invocazione delle creature, il loro utilizzo in funzione d’intercessione per analogia con il culto pagano dei daimones, e così via. Ma fu subito chiaro a molti padri della chiesa che il culto di Maria, invocata come Santa Madre, mia Signora (Madonna) e Vergine santissima, si rifaceva alle categorie non degli eroi pagani ma a quelle della Grande Madre, la divinità primordiale euro-asiatica le cui origini risalirebbero al lontano Paleolitico; nata, a dire di Jung, come proiezione dell’inconscio ambivalente dell’uomo, sede di pulsioni di vita e di morte, “nutrice e divoratrice delle nostre ossessioni”. Una divinità potente sottomessa a nessuno, che neppure gli déi maschi del cielo e dei tuoni, importati dagli indoeuropei e dai camito-semiti, riusciranno a spodestare. E quando nel neolitico le si affiancò un dio maschio della vegetazione, come figlio o giovane amante, esso le rimase sempre subordinato. Nelle sue innumerevoli tradizioni e forme, tra le quali Athena, Diana, Artemide, Astarte, Cibele, Anahita, Brigida e Iside (che per due secoli fu l’ubiqua Madre Santa del mondo antico, chiamata Nostra Signora, Regina del Cielo, Madre di Dio, che tutto vede e tutto può, dispensatrice di grazie, Redentrice, Immacolata, Mediatrice tra il cielo e la terra), questa dea madre era un’accentratrice di devozione. E ciò divenne di fatto, anche se non di diritto, il culto di Maria; soprattutto in concomitanza con l’ingresso in massa delle popolazioni inconvertite e con la loro esigenza di sostituire la Dea Madre pagana con l’unica possibile “dea madre” cristiana. Dapprima i padri della chiesa, con diverse sfumature, tentarono di bloccare o quanto meno d’arginare il fenomeno. Poi si finì per lasciar correre, e si riconobbero al culto i connotati di “iperdulia”, cioè di una venerazione senza limiti; anzi, si approfittò di questo culto per “convertire” speditamente i devoti delle Grandi Dee locali trasferendo su Maria i loro nomi, i loro attributi, le cerimonie, i riti e i loro templi. E di questi culti nell’impero ce n’erano un’infinità. Basti pensare alle “madri nere”, espressione della Grande Madre Terra, convertite in Madonne nere. Ce ne sono più di cinquecento in Europa e quasi cinquanta solo in Italia. Alcune Madonne con Bambino sono proprio gl’idoli originali di quelle madonne pagane riconvertite al nuovo culto. O, meglio, al medesimo culto con un'infarinatura di cristianesimo.

Un fatto che fa riflettere è l’attualità di questo fenomeno. Non meraviglia il suo sviluppo medievale, in quel contesto oscurantista e superstizioso, quanto piuttosto il suo rifiorire in età moderna, con tutti i pronunciamenti pontifici, più o meno ex cathedra. Dell’immacolata concezione di Maria, risalente al 1854, abbiamo detto. Al 1954 risale il dogma sulla sua assunzione. Rimane ancora in ansiosa attesa di proclamazione la sua “opera mediatrice e corredentrice”. Nessuna di queste credenze, per quanto vecchie di secoli, – va ribadito – è sostenuta dall’insegnamento biblico ed anzi vi s’oppone. È come se il culto volesse evolvere dal tema della dignità della nascita a quello del Calvario per meglio riposizionare il contributo della Madonna nell’opera di salvezza dell’umanità. È come se l’antica Grande Madre volesse, se potesse, svincolarsi da questo ruolo subordinato al dio maschio a cui impropriamente è stata costretta. E in tale contesto va citato il fenomeno delle apparizioni mariane che ripropongono la duplice natura dolce e minacciosa della Dea ancestrale. Da un lato esse propongono l’aspetto materno e compassionevole di colei che può comprendere i bisogni e i limiti degli uomini più di Dio stesso che è più vincolato alle esigenze della giustizia. Una figura vicina all’umana fragilità, che può mediare ancor più dei santi perché ha autorità sul Figlio, e che può quindi chetare la giustizia divina trattenendola dal punire i peccatori. Insomma il cliché classico, riscontrabile anche nell’iconografia bizantina a partire dal V secolo, del Cristo percepito come giudice austero, severo e distante contrapposto al volto umano e materno di Maria, e che ha causato questo “immenso trasferimento affettivo dalla persona di Gesù a quella di sua madre” (Miegge). D’altro lato tali apparizioni propongono il lato oscuro della Dea che si rivela come figura autonoma, che decide da sé chi va aiutato ("alcuni li guarirò, non altri"), che usa questa autonomia per minacciare castighi indiretti (“Non posso più trattenere il braccio giustiziere di mio Figlio”; “Il Padre Eterno è stanco, molto stanco… ha liberato il Demonio, che provoca distruzioni”), che decide, come una nostrana dea Kali, di manifestarsi alla vigilia di eventi ove gli uomini hanno espresso il lato più diabolico di sé, quali rivoluzioni, avvento di regimi sanguinari, guerre mondiali, massacri; ultimi in ordine cronologico: le apparizioni di Kibeho, in Ruanda, giusto prima della tremenda carneficina tra Tutsi e Hutu, e a Medjugorie alla vigilia della bestiale “pulizia etnica” jugoslava. Anche la dea Vesta appariva prima di eventi drammatici. Mentre Iside appariva nelle grotte come in diverse apparizioni della Madonna che spesso veste il manto azzurro, coronata di stelle, con la falce di luna sotto ai piedi, anch’esse caratteristiche della dea Iside. E poi è avida di culto (al contrario del Figlio che umilmente insegnò il Padre Nostro), chiede regolarmente che le si dedichino cappelle e Basiliche sui luoghi dell’apparizione o che lei stessa indica, da sempre. A papa Liberio (352-366) avrebbe ordinato in sogno di costruirle una chiesa sull’Esquilino. Sempre a Roma, Marco Vipsiano Agrippa, genero di Augusto, costruì il Pantheon su indicazione della dea Cibele che gli era apparsa e gli aveva pure mostrato il modello. La Dea s’è fatta cristiana per allontanare i cristiani dal giusto culto a Dio e dall’insegnamento biblico sostenendo dottrine pagane quali la penitenza, la confessione auricolare, il purgatorio, le pene eterne, la santificazione della domenica, la venerazione dei santi defunti, l'eucaristia intesa come riproposizione del sacrificio e, ovviamente, tutte le dottrine mariologiche su cui sta spingendo in modo particolare da due secoli a questa parte secondo quel che appare un suo programma ben preciso. Ultima “spinta” dottrinale quella della “Signora di tutti i popoli”, di Amsterdam, che ha chiesto al Papa di proclamare il dogma di “Maria corredentrice, mediatrice e avvocata” al fine di valorizzare ulteriormente il ruolo della Vergine nella storia della salvezza. E in cosa consisterebbe questo programma? Ce lo spiegano i devoti mariologi: La Vergine, così come ha preparato il primo avvento di Cristo, adesso sta preparando la strada per la sua seconda venuta. “Come fu Lei a preparare il corpo di Cristo, così adesso prepara le anime per il Suo avvento” (Arcivescovo Fulton Sheen). Il fatto poi che le sue apparizioni, soprattutto nel Novecento, siano concentrate in Europa lasciano pensare che il suo invito alla conversione sia soprattutto rivolto al nostro continente. Conversione alle sue dottrine, naturalmente, che sono antiscritturali, quindi false; per cui anche l’avvento che lei preparerebbe è quello di un falso Cristo da cui ci mise in guardia lo stesso Gesù (cf Mt 24:24). Come pure dell’Anticristo, l’uomo del peccato di paolina memoria.

Ma questa Dea che si spaccia per Maria di Nazaret chi è in realtà? O, meglio: Chi si nasconde dietro di lei? C’è chi ha fatto notare precise somiglianze con un altro fenomeno soprannaturale: lo spiritismo. Capita ai medium che si manifestino, anche senza evocarli, delle entità che si presentano come loro spiriti-guida e Messaggeri della Luce. Anche i loro messaggi sono amorevoli e consolatori e al contempo generici e superficiali, teologicamente inconsistenti o fuorvianti. Ma le analogie non si fermano qui. È stato fatto notare che il contatto con le madonne, così come quello con i demoni, spesso non giova alla salute dei veggenti che sono vittime di vessazioni, si ammalano e non di rado muoiono precocemente. La stessa “Madonna” preannuncia loro grandi sofferenze nella vita presente e il premio solo nella vita futura, a costo d’impegnative penitenze. Quanto ai collegati fenomeni di guarigione, sono molto limitati rispetto ai malati che si presentano e alcuni di coloro che si dichiarano guariti in realtà muoiono da lì a poco. Ancora: i veggenti, esattamente come i medium, si fanno portavoce di domande e comunicano risposte da parte dell’entità soprannaturale. Talvolta insieme alla Madonna si presenta il Figlio, gli angeli e persino i diavoli e le anime dei morti. A Medjugorie Mirjana, una delle veggenti, ha visto Satana presentarsi nelle vesti della Madonna, mentre ad Ivanka la Madonna ha concesso di rivedere la madre morta alcuni mesi prima: questa apparve all’istante e sorridendo abbracciò e baciò la figlia, poi dopo aver parlato alla ragazza scomparve. Vi sono casi di devoti che dopo essersi recati in pellegrinaggio nei luoghi delle apparizioni vengono posseduti dal demonio o cadono vittime di fenomeni medianici. E d’altronde fenomeni medianici possono essere considerate tutte quelle manifestazioni che spesso accompagnano l’apparizione quali: luci, fuochi, arcobaleni, soli danzanti, piogge di petali e profumi di rosa, croci e colonne di fuoco e persino avvistamenti ufologici. Non a caso l’osservazione di tali fenomeni produce spesso un senso di oppressione o, come avvenne per il “miracolo del sole” a Fatima, un vero terrore tra la folla. Troppi segnali riconducono il fenomeno delle apparizioni ai demoni; d’altronde anche gl’insegnamenti che esse producono, alla luce del pensiero biblico, appaiono evidentemente come “dottrine di demoni” che hanno agito sin dall’inizio per snaturare nella sua essenza il messaggio cristiano. Quando il romanziere Emile Zola visitò Lourdes raccontò d’avervi avvertito come la presenza di “una nuova religione”. Il credente avvezzo allo studio della Parola di Dio avverte quanto meno il presentimento di trovarsi di fronte ad un’altra religione e ad un’altra “Maria” talmente ricostruita dai dogmi e dagli inganni satanici, accumulati nei secoli, da perdere del tutto i suoi connotati originari: quelli di una pia credente, di una vera donna e di una vera madre pienamente umana, che ora riposa (per sua fortuna, essendole risparmiato d'assistere inorridita a quel che di lei s'è fatto) nell’attesa che il suo Salvatore la risusciti nell’ultimo giorno.


L'inferno
E la dottrina delle pene eterne, non trae anch'essa origine dalla con­vinzione che l'anima sia immortale? Lo storico francese Georges Minois ha raccolto in un libro i risultati della sua ricerca sulla credenza dei popo­li antichi negli inferi. Leggiamo dalla sintesi che ne ha fatto Giorgio Calcagno il punto che c'interessa. «Curiosamente la cultura meno sensibile al tema infernale è quella ebraica. L'inferno inteso come punizione nell'aldi­là è assente nell'Antico Testamento fino al terzo secolo a.C., rileva lo storico francese. Compare, con cautela, nei libri più tardi della Bibbia (Apocrifi) soprattutto per l'influenza della cultura ellenistica… Anche il Nuovo Testamento è assai sobrio nel parlare d'inferno, oltre l'espressione "pianto e stridor di denti", ricorrente più volte nel Vangelo. Il concetto di inferno matura con i padri della Chiesa, nell'età delle persecuzioni. Serve a fortificare i martiri, mette una sana paura negli incerti, annuncia la vittoria finale dei resistenti. “Sarò io a ridere - scrive Tertulliano - quando vedrò tutti quei filosofi che arrostiscono insieme con i loro disce­poli, ai quali insegnarono che Dio non si occupa del mondo”. E la paura sa­rà il grande argomento su cui faranno leva i responsabili del gregge, per secoli. Lo storico riconosce che la Chiesa ufficiale si è mossa “con prudenza e indugio”, su questo terreno. Il dogma che definisce l'eternità delle pene sarà proclamato soltanto nel 1215, dal Concilio Laterano. Ma l'inferno è già diventato un tema necessario, nella pastorale quotidiana, deve essere rappresentato nella sua concretezza, per colpire e allarmare la fantasia dei fedeli». Ascoltiamo la descrizione che ne fa Alfonso de’ Liguori: "In questo mondo, il fuoco tormenta i corpi dall'esterno; esso non vi penetra. All'inferno, il fuoco penetra nel corpo dei dannati per tormentarli sia al­l'interno che all'esterno. Che ne sarà del dannato divenuto una specie di fornace ardente? Il cuore gli brucerà nel petto, le interiora nel ventre, il cervello nella testa, il sangue nelle vene, persino il midollo nelle os­sa…" Questa è ancora la posizione ufficiale della Chiesa cattolica. Nel Nuovo Catechismo si legge: "La chiesa nel suo insegnamento afferma l'esi­stenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli in­feri, dove subiscono le pene dell'inferno e il fuoco eterno". Scrive Char­les Gerber: «Nel corso dei secoli, i predicatori desiderosi di produrre un certo effetto sul “cuore” dei loro ascoltatori, hanno trovato nelle fiamme dell'inferno un tema di eloquenza “inestinguibile”. In genere sono riusciti a spaventarli ma non a convertirli poiché la salvezza è un prodotto dell'amo­re e non della paura… Il fatto che un dogma così spaventoso abbia susci­tato più increduli di qualsiasi altro, non ci meraviglia! Infatti, chi vuol dimostrare troppo finisce per non dimostrare proprio niente. Una mente ac­corta si rifiuterà sempre di credere che Dio trovi piacere nel vedere sof­frire eternamente e in condizioni così atroci degli empi, chiunque essi siano». È vero che oggi si tende a minimizzare il compiacimento di Dio e, da parte di qualcuno, anche la fisicità dei tormenti in quello che Le Goff definisce “terrorismo infernale tradizionale”; ma la sostanza cambia solo in apparenza perché è proprio il concetto di tormento eterno che è estraneo sia allo spirito che alla lettera della Bibbia. Allo spirito, per­ché la Bibbia ci rivela un Dio buono e giusto. Egli ama sino in fondo le sue creature e s'immedesima nel loro dolore fino a condividerlo pienamente. A prescindere dagli strumenti, "come immaginare un Gesù che contempla con amore perfetto miliardi di esseri torturati in eterno?", questo si chiede Rolando Rizzo. Gesù nel suo insegnamento ha superato la legge del taglione, che era pur sempre ispirata a un principio di equità, per poi contraddirsi con un giudizio che non risponde neppure lontanamente a un criterio d'equità? Come può infatti considerarsi equa una punizione infinita da infliggersi per una colpa finita? L’idea di un’eterna condanna contraddice nel profondo la teologia biblica perché è incongruente con i concetti di libertà, responsabilità e salvezza che sott’intendono il rapporto tra Dio e le sue creature sempre basato sull’assenza di coercizione e sul rispetto della loro dignità. Se per Dio la libertà e la dignità sia degli angeli che degli uomini non fossero state importanti li avrebbe creati incapaci di ribellione e così il peccato e il male non sarebbero mai apparsi nell’universo con tutti i loro strascichi di violenza, di sofferenza e di morte. Ma che genere di libertà sarebbe quella di dover scegliere tra ubbidienza e pene eterne? Pena eterna, per definizione dei suoi stessi sostenitori, indicherebbe uno stato di vita cosciente caratterizzato da una sofferenza atroce e senza fine; una condizione, cioè, infinitamente peggiore delle torture che si possano infliggere agli uomini sulla terra i quali possono almeno sperare di esserne liberati da una mano amica o sia pure dalla morte. L’inferno, come condizione di tortura a cui non ci si può sottrarre neppure con l’annichilimento, non sarebbe una scelta ma un ricatto, incompatibile con il dono della libertà e della dignità offerto alle creature, indegno di un Dio giusto e compassionevole. Spiace dirlo, ma chi sostiene le pene eterne dimostra di aver meditato poco sul carattere di Dio e induce a sospettare che egli pensi all’altrui possibile condanna anziché alla propria. “Se pensasse di essere destinato anche lui all’inferno – osserva il teologo cattolico Hans Küng - si chiederebbe sbigottito: ma è possibile? Ma un Dio che è misericordia infinita, amore infinito, come può condannarmi a una pena sen­za fine?” Nessun argomento quanto le pene eterne tiene lontani gli animi sensibili e di buon senso dalla fede in Dio così come lo rappresentano la maggior parte delle teologie che si qualificano come cristiane. Davvero un cattivo biglietto da visita, nei confronti sia dei dubbiosi sia degli scettici in cattiva fede che trovano un alibi comodo e oggettivo per poter professare la propria incredulità. Due pensieri sui tantissimi espressi a proposito: "Fondare sul meraviglioso, e fondare sulle pene e sulle ricompense, ecco le due caratteristiche dalle quali riconosco che una religione è falsa" (Paul Valéry). "L'invenzione dell'inferno è la cosa più orrenda, ed è difficile concepire come, dopo questa invenzione, ci si possa ancora aspettare qualcosa di buono dagli uomini" (Elias Canetti).

Ma il concetto di tormento eterno è estraneo anche alla lettera della Bibbia. Come osservava il teologo anglicano Frederic Farrar, "non esiste, nella Scrittu­ra, un solo testo che, onestamente interpretato, insegni quello che in ge­nere si intende per pene eterne". La maggioranza dei testi che riguardano la retribuzione dei reprobi sono assolutamente espliciti e inequivocabili. Anzitutto vi sono i passi che definiscono la natura dell'uomo, che abbiamo già esaminato. Da essi si evince chiaramente che l'immortalità (prerequisi­to indispensabile alle pene eterne) non appartiene alla natura umana ed è attribuita solo a chi crede nel Figliuolo, mentre il salario del peccato non è l'inferno bensì la morte, prima e seconda. Vi sono poi i passi che entrano nel merito della stessa retribuzione. Da essi apprendiamo che il malvagio "sarà spazzato via come polvere… svanirà come un sogno, nessuno lo troverà più, si dissolverà come una visione notturna" (Gb 20:7,8). I nemici di Dio "saranno ridotti a nulla e periranno… saranno come nulla, come cosa che non è più" (Isaia 41:11,12). "Quelli che abbandonano il Signore saranno distrutti" (1:28; vedi 26:11,14; 2Pt 3:7,10,13). "Simile a una fornace ardente, sta per arrivare il giorno in cui tutti i superbi e i malvagi saranno bru­ciati come paglia. Quel giorno essi saranno consumati e di loro non resterà niente… Il giorno in cui manifesterò la mia potenza voi schiaccerete i malvagi: saranno come cenere sotto i vostri piedi. Lo affermo io, il Signo­re dell'universo" (Mal 4:1,3). "Periranno i malvagi, i nemici del Signore, andranno in fumo come erba bruciata" (Sal 37:20). Le nazioni "saranno come se non fossero mai state" (Abd 16). Si tratta di eventi futuri, la cui rea­lizzazione non è legata al momento della morte, ma al momento del giudizio avvenire. "Come l'erba cattiva è raccolta e bruciata nel fuoco, così si fa­rà alla fine di questo mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, ed essi porteranno via dal suo regno tutti quelli che sono di ostacolo agli altri e quelli che fanno il male. Li getteranno nel grande forno di fuoco. Là piangeranno come disperati" (Mt 13:40-42). "Ma i vigliacchi, i miscredenti, i depravati, gli assassini, gli svergognati, i ciarlatani, gli idolatri e tutti i bugiardi andranno a finire nel lago ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte" (Ap 21:8). Non si parla qui di pene eterne ma di una distruzione totale e definitiva che dei malvagi non lascerà più nep­pure il ricordo. Ma allora da dove viene la dottrina dell'eterna "rosticce­ria", per usare un'espressione del teologo cattolico Yves Congar? Certamen­te dal mito greco del Tartaro appoggiato da passi biblici avulsi dal loro contesto. Anzitutto dal contesto generale, rispetto agli altri passi espli­citi che affermano la completa distruzione dei malvagi, e inoltre dei sin­goli contesti specifici. Il contesto generale associa la retribuzione dei reprobi al fuoco; a un fuoco, però, che distrugge, che divora (Eb 10:27. "Divorare", in senso figurato, nella Bibbia significa "consumare", "distruggere", "annientare": vedi Lev 10:2; Num 16:35), che riduce in cenere. Pertan­to, quando si parla di "fuoco eterno" è chiaro che non ci si riferisce alla durata del castigo, bensì alla durata delle conseguenze di tale castigo. Non al processo ma al risultato. "Salvezza eterna" (Eb 5:9) non significa che Gesù continuerà a salvare per l'eternità; "giudizio eterno" (Eb 6:2) non significa un giudizio che non ha mai termine; "peccato eterno" (Mc 3:29) non vuol dire che si continuerà a peccare per l'eternità. Allo stesso modo "punizione eterna" (Mt 25:46) non vuol dire tortura eterna, e "distruzione eterna" (2Tess 1:9) non si riferisce a un processo distruttivo che non avrà mai termine. Il fuoco che distrusse Sodoma e Gomorra fu "eterno" (Giuda 7) non perché arda tuttora ma perché non si spense finché non le ebbe ridotte in cenere (vedi 2Pt 2:6). Discorso analogo vale per l'espressione "fuoco ine­stinguibile" (Mt 3:12; Mc 9:4). In Geremia 17:27, Dio minaccia di dare alle fiamme Gerusalemme, di accendere un fuoco alle porte della città che ne a­vrebbe divorato i palazzi, un fuoco che "non si estinguerà". Non si estin­guerà, ovviamente, finché non "consumerà ogni cosa" (vedi 7:20). La minaccia si realizzò per mano dei caldei (vedi 2Cr 36:19; Neem 2:3) dopodiché le fiam­me si estinsero. Il greco "eterno" (to aionion), "nei secoli dei secoli" (ton aionon), riprende l'ebraico al yolam. Il Nuovo Testamento ripropone le immagini dell'Antico usate, analogamente, in senso iperbolico. Anche noi, riferendoci ad una condanna penale o ad un incarico "a vita" usiamo definirli "perpetui" o con altri termini equivalenti. Per dar forza al significa­to, il greco e l'ebraico potevano spingersi ancora più in là nell'uso dell'iperbole. Omero poteva definire "inestinguibile" il fuoco che per poco non distrusse la flotta dei greci. Chi legge, senza tener conto di queste pre­messe, Apocalisse 14:10,11 e 20:10 crede che vi si parli dei tormenti eterni. Ma tenendo conto delle espressioni idiomatiche e dei passi paralleli, le apparenti contraddizioni del messaggio biblico si chiariscono senza la­sciare alcun dubbio. Fuoco e zolfo caddero su Sodoma e Gomorra, e una colonna di fumo salì dalla terra "come il fumo di una fornace"(vedi Gen 19:24,28). Fuoco e zolfo sono gli strumenti di cui Dio si serve per distruggere gli empi (vedi Sal 11:6 e Ez 38:22) e la terra dovrà apparire come una distesa incandescente e fumante, quando il Signore eseguirà la sua sentenza. Ma Apocalisse aggiunge che gli uomini e gli angeli malvagi "saranno tormentati giorno e notte, nei secoli dei secoli" e che "il fumo del loro tormento sa­le nei secoli dei secoli". Ma se "quel giorno essi saranno consumati e di loro non resterà niente" (Mal 4:1), come potrebbero essere tormentati in eterno? La spiegazione generale l'abbiamo già data, ma la Bibbia ci aiuta a chiarire ulteriormente anche questi passi specifici. Le espressioni citate di Apocalisse riflettono, infatti, quelle di Isaia quando questi predisse la distruzione delle città edomite: "I torrenti di Edom saranno mutati in pece e la sua polvere in zolfo; la sua terra diventerà pece ardente. Non si spegnerà né notte né giorno, il fumo ne salirà per sempre" (34:9,10). Poi aggiunge: "Il pellicano e il porcospino ne prenderanno possesso" (vers. 11). Naturalmente queste bestie non potrebbero vivere tra le fiamme. Inoltre al vers. 10 vien detto che "di età in età rimarrà deserta, nessuno vi passerà mai più" mentre al cap. 35 si descrive la restaurazione di questi luoghi e il loro ripopolamento da parte dei giusti. È evidente che siamo in presen­za di un linguaggio iperbolico. In Geremia 17:4, Dio minaccia Israele con le parole: "Avete acceso il fuoco della mia ira ed esso arderà per sempre"; poi nel passo parallelo di Ger 23:20 scopriamo che "per sempre" equivale a "finché non abbia eseguito, compiuto i disegni del suo cuore". E' chiaro, allora, che tali espressioni vengono usate allo scopo di enfatizzare la ra­dicalità, l'inesorabilità e la durata non dello strumento del giudizio (il fuoco) bensì dei risultati che esso produce. Nulla potrà placare quelle fiamme finché non avranno svolto appieno e definitivamente la loro azione distruttiva. Bisogna sempre tenere presente che il linguaggio apocalittico è tipicamente ricco di simboli e di iperboli. Cristo vi è raffigurato come agnello, leone e cavaliere; Satana come serpente e dragone; non bisogna pertanto stupirsi che la distruzione radicale e definitiva dei reprobi venga raffigurata con l’immagine dello stagno ardente di fuoco e zolfo.

Un altro testo che viene citato per dimostrare l'immortalità dell'ani­ma e la dottrina delle pene eterne è la parabola del ricco epulone e Lazza­ro, in Luca 16:19-31. Gesù utilizzava spesso immagini tratte dalla natura o dalla vita quotidiana, fatti di cronaca o anche racconti di fantasia per fissare degli insegnamenti nella mente degli ascoltatori. Le parabole erano un espediente narrativo per cui un simbolo, un tipo o un esempio venivano usati per rappresentare concretamente un'altra realtà. Un'altra realtà! L'insegnamento non riguardava il racconto in sé. Cosa dovremmo concludere dalla parabola del fattore infedele, che i cristiani devono agire disonestamente? Narrando la storia del ricco e Lazzaro, Gesù trae spunto da una fa­vola egiziana, portata in Palestina da ebrei alessandrini, avente per morale il capovolgimento della sorte nell'aldilà. Era un racconto ben conosciuto a quel tempo e Gesù lo utilizzò per insegnare un'altra verità. Infatti lì do­ve la narrazione "normalmente dovrebbe finire e dove gli uditori si aspet­tano la conclusione abituale e scontata, Gesù li sorprende prolungando ina­spettatamente la storia e attirando perciò sulla seconda parte tutto l'in­teresse e l'attenzione" (Aldo Comba). È una costruzione con il "peso in poppa" ove, cioè, la cosa che importa viene presentata alla fine. «Come tutte le altre parabole a doppio vertice - scrive il biblista Joachim Jeremias - anche la nostra ha il "peso a poppa". Vale a dire: Gesù non vuol prendere posizioni sul problema “ricco e povero”, non vuol nemmeno impartire insegnamenti sulla vita oltre la morte, bensì racconta la parabola per ammonire la gente che assomiglia al ricco e ai suoi fratelli di fronte alla minacciosa fatalità». Jeremias continua affermando che il povero Lazzaro è solo una figura collaterale, un termine di contrasto, e che la parabola dovrebbe chia­marsi “dei sei fratelli”, in quanto l'insegnamento riguarda l'al di qua. Sia questa parabola che la precedente (quella del fattore infedele) insegnano che il destino di ognuno è fissato in questa vita dall'uso che si fa della libertà e delle opportunità che ci vengono offerte. Come osserva il teo­logo cattolico Bruno Maggioni, "la parabola va letta in questa chiave, il resto è racconto. Gesù non vuole insegnarci nulla sulla fisionomia dell'in­ferno, sulla possibilità o meno di rapporti fra inferno e paradiso. A que­sto proposito si limita a sfruttare le credenze del suo ambiente". "Non si può adoperare perciò questa parte della parabola - gli fa eco il valdese Alberto Ricciardi - come una fonte per ricavare l'insegnamento proprio del Signore circa l'al di là". Volendo forzarla in tal senso, peraltro, verreb­bero fuori insanabili incongruenze. Ce le elenca Ivo Fasiori:

a) Risulta dal testo che l'Ades (il soggiorno dei morti, la tomba), è diviso in due parti: una è il "seno di Abramo" (cioè il "paradiso"), l'al­tra il "soggiorno degli empi" (l’“inferno”), (vv 22 e 23); inoltre, il pa­radiso e l'inferno sarebbero vicini, ma separati da "una gran voragine" (v 26). Naturalmente chi crede nell'immortalità dell'anima considera questa descrizione come simbolica!

b) Secondo i sostenitori dell'immortalità dell'anima, alla morte è l'anima, spirituale, disincarnata che va in paradiso o all'inferno! Qui inve­ce si parla di "occhi", "dito", "lingua" (vv 23,24), quindi di esseri dota­ti di corpo. Ma il corpo sarà risuscitato solo alla fine dei tempi (1Cor 15 :52), come ne conviene anche chi crede all'immortalità dell'anima! Inoltre, c'è da notare che la menzione della "gran voragine" (v 26) per non permet­tere il passaggio dei dannati in paradiso e viceversa, sarebbe assurda nel­l'ipotesi di anime disincarnate (che potrebbero passare dovunque!).

c) Secondo Eb 11:8-19,39,40 Abramo non ha ancora avuto il suo "pre­mio", quindi né lui né la sua anima possono essere evidentemente in paradi­so e ciò contraddirebbe i vv 22,23.

d) Secondo il v 24 il ricco è tormentato nelle fiamme, che sono una caratteristica della Geenna (Mt 5:22;18:9) che, però, secondo il N.T., si si­tua solo alla fine dei tempi (Mt 25:41); inoltre il ricco non va nella Ge­enna, ma nell'Ades che indica nella Bibbia solo la tomba e quindi non un luogo in cui c'è il fuoco!

e) Secondo Gesù stesso, il premio o il castigo verranno assegnati ad ognuno alla fine dell'età presente e non alla morte (Mt 13:30,39-43,49,50; 25:31-44, ecc.).

Una corretta interpretazione dei testi non può prescindere dallo stile letterario, altrimenti si rischia di prendere delle cantonate. Come il linguag­gio profetico si serve di simboli e di iperboli, così le parabole vanno inter­pretate per quello che sono: racconti allegorici con una morale.

I partigiani delle pene eterne sostengono che una distruzione totale non costituisce una punizione abbastanza severa e neppure equa in rapporto ai diversi gradi di colpevolezza. Abbiamo già detto che, proprio perché ol­tre ad essere misericordioso è pure giusto, Dio non potrebbe retribuire le proprie creature comminando pene infinite per colpe finite. Inoltre l'an­nientamento è pur sempre una sorte terribile quando lo paragoniamo alla be­atitudine promessa dall'Evangelo. Quanto ai diversi gradi di colpevolezza, nulla autorizza a pensare che la retribuzione sarà indolore ("Là ci sarà pianto e stridor di denti" Mt 8:12) o indifferenziata. Come spiegò Gesù, infatti, la parabola dei due servi? "Quel servo che ha conosciuto la volon­tà del suo padrone e non ha preparato né fatto nulla per compiere la sua volontà, riceverà molte percosse; ma colui che non l'ha conosciuta e ha fatto cose degne di castigo, ne riceverà poche. A chi molto è stato dato, mol­to sarà richiesto; e a chi molto è stato affidato, tanto più si richiederà" (Lc 12:47,48). Una distruzione differenziata che vada dall'annichilimento veloce alla consumazione lenta e dolorosa consente la giusta retribuzione per tutti i gradi di colpevolezza. Tale soluzione è compatibile con il ca­rattere di Dio ed è in armonia con l'insegnamento biblico. "Niente appare più incompatibile con la vera tradizione biblica che un'eternità di soffe­renza e di punizione" (Gran Rabbino Michel Weill). Neppure si trova nella Bibbia la parola inferno, e quando c’è è una traduzione inesatta di un altro termine che dovrebbe essere reso con soggiorno dei morti. Le pene eterne non esistono. "I malvagi sono distrutti completamente. Anche Satana sparisce (Eb 2:14), viene annientato. La morte stessa non è più (Is 25:8; Ap 20:14; 1Cor 15:26): essa viene soppressa per sempre. È l'ultimo nemico, il più terribile, che capitola. E nella ritrovata armonia universa­le, Dio è tutto in tutti" (1Cor 15:28 - Charles Gerber).


Il Purgatorio

La dottrina del Purgatorio è respinta come antiscritturale sia dai riformati che dagli ortodossi. È sostenuta solo dai cattolici, ed anche nel loro ambito fino al XII secolo era tutt’altro che definita e condivisa. Il concetto di purgatorio ha invece origini piuttosto antiche, e precisamente nelle religioni orientali, ed era strettamente connesso alla dottrina della reincarnazione. Quando gli Arii conquistarono l’India non credevano ancora nelle pene eterne bensì nella distruzione dei malvagi alla fine dei tempi poiché l’immortalità era considerata un dono degli déi da concedere ai soli beati. Fondendosi le loro credenze con quelle delle popolazioni locali la tradizione che finì per imporsi fu quella delle pene eterne. La fede in molti dèi fece teorizzare agli speculatori religiosi l’esistenza di molti paradisi e di moltissimi inferni, fino a ventotto. Si cominciarono pure a descrivere nel dettaglio i supplizi ivi praticati: i peccatori venivano lasciati alla fame e alla sete, divorati dalla fiere o tormentati in modo elaborato: arrostiti, squartati, bolliti nell’olio, frantumati nel mortaio, modellati in appositi stampi. Quando s’impose la dottrina della reincarnazione associata ai meriti delle vite precedenti, i paradisi e gl’inferni non vennero accantonati ma divennero delle stazioni temporanee di retribuzione tra una reincarnazione e l’altra dell’anima. Pertanto alla morte del corpo, l’anima, sulla base delle opere compiute, accedeva per qualche tempo a un paradiso o a un inferno, dove avrebbe goduto di una certa beatitudine o subìto determinati tormenti, per far poi ancora ritorno in una nuova esistenza. Quest’elaborazione dottrinale della religione vedica fu accolta pure dal Buddismo e dal Giainismo, le sue due grandi eresie. Ma trovò eco inattesa pure nel pensiero di Platone che la fece propria nel decimo libro della sua Repubblica. Essendosi Platone ispirato alla dottrina orfico-pitagorica è facile pensare che questa teoria fosse stata portata in Occidente proprio da Pitagora, nel 539 a.C., al ritorno dal suo viaggio a Babilonia, tappa obbligata sulla via dell’India e della Cina, ove frequentò la locale cerchia sacerdotale. Comunque i contatti con l’Oriente non erano così infrequenti come si potrebbe pensare. Nell’elaborazione platonica, le anime dei mediocri, prima di trasmigrare in un nuovo corpo, scontavano un periodo di supplizio presso la palude Acherusia, posta all’ingresso del Tartaro. In caso di colpe più gravi, prima di recarsi nell’Acherusiade, soggiornavano per un anno presso il Tartaro. E così in un ciclo di supplizi e trasmigrazioni si sarebbero purgate a sufficienza per poter essere accolte nel mondo Iperuranio, il “paradiso” della divinità. Solo i malvagi più incalliti erano trattenuti nell’eterna dannazione del Tartaro. Quindi vediamo che anche Platone sostiene l’idea del purgamento delle anime che avverrebbe in più luoghi e in un contesto di trasmigrazione. Quando la tradizione greca si riversò nella Chiesa primitiva, assieme alla credenza nell’immortalità dell’anima passò anche quella del purgamento. O, meglio, passò la concezione platonica di un luogo sotterraneo, un inferno, dove la maggior parte delle anime erano sottoposte a sofferenza non per essere punite ma per essere purificate. L’Apocalisse di Paolo, un libro apocrifo scritto verso la metà del III secolo, parla di due inferni, uno inferiore dove finivano le anime degli impenitenti irrecuperabili ed uno superiore dove soffrono “le anime di coloro che aspettano la misericordia di Dio”. Origene giunse persino a teorizzare una versione cristiana dell’Apocatastasi, cioè di una reintegrazione finale nella pienezza del divino non solo di tutti gli uomini ma pure di Satana e della Morte; e in questo quadro le pene infernali, per quanto lunghe, non avrebbero che potuto avere sempre un carattere provvisorio e purificatorio. Peraltro Origene credeva anche nella preesistenza delle anime, mentre è oggetto di controversia la sua adesione alla dottrina della trasmigrazione delle anime. Questo per dire quanto la cultura greca abbia influito sull’escatologia cristiana. D’altra parte, però, nei primi tempi era ancora molto radicata nella Chiesa la speranza in una prossima risurrezione. Era perciò importante, nella concezione ancora confusa ma già ampiamente sincretista del tempo, che le anime delle persone care si purificassero prima che giungesse il Giudizio Universale. Iniziarono pertanto le preghiere di suffragio per accelerare i tempi di purgamento; così le tombe dei cristiani si riempirono di accorati appelli quali “Petite pro me” e “Orate pro eo”. Interessante notare che in questa fase i cristiani non pregavano ancora i morti, come facevano i pagani e come a breve avrebbero cominciato a fare anche loro, ma pregavano per i morti. Sant’Agostino diede un ulteriore contributo alla costruzione del Purgatorio. Per cominciare si oppose con fermezza alla tesi dei “misericordiosi”, quella dei “tutti salvati” sostenuta da Origene. Egli credeva nel purgamento delle anime, non di tutte però; lo descrisse come un percorso molto doloroso, ribadisce il ruolo del fuoco, lo immagina come una sorta di inferno temporaneo definendone il tempo (dalla morte al Giudizio Universale). Per quel che riguarda il luogo e il dettaglio dei contenuti rimane sul vago, però; giungendo persino a dire che il purgatorio è questa vita. Sia perché egli era persona troppo colta per dar credito alle fantasie grossolane espresse dalla letteratura apocrifa del tempo, sia per la difficoltà di conciliare le categorie platoniche che non coincidevano del tutto con quelle cristiane. Egli accettava, ad esempio, la quadripartizione platonica in anime buone, mediocri, cattive e cattivissime, che doveva al contempo integrare con la visione tripartiita, che andava delineandosi nella riflessione cristiana, di una destinazione intermedia tra Inferno e Paradiso: quella della “stazione dei purganti”. A questa certamente accedevano i “non del tutto buoni”, ma che fare dei “non del tutto cattivi”? Purgare anch’essi, secondo la visione buonista di Platone, o lasciarli sempre all’inferno ma a supplizi meno efferati, magari con l’aiuto dei suffragi offerti dai loro cari? Egli sembra optare per questa seconda possibilità. E non ci si poteva attendere diversamente dell’inflessibile mortificatore della carne, l’inventore del peccato originale. Restavano pertanto diversi elementi da definire, a cominciare dal luogo ove porre il Purgatorio. Papa Gregorio Magno pensò che esso potesse trovarsi sulla terra, ma l’idea prevalente rimase a lungo quella popolare di una sezione dell’inferno, la Geenna superiore, distinta da quella inferiore ove risiedevano i peccatori irredimibili. La vera svolta nella maturazione della dottrina avviene sul finire del medioevo, quando sorse la classe di mezzo tra i signori e i servi, la borghesia, quella che si sporca le mani e la coscienza con il denaro e trova consolatoria una tripartizione ben definita dell’altro mondo. Alle tre classi dell’aldiquà corrispondono i tre luoghi dell’aldilà. Quindi il Purgatorio, proiezione della struttura socio-economica dell’età comunale, diviene un luogo definito e indipendente dall’Inferno. Non a caso Dante, il più grande teologo del Purgatorio (che lui immagina come una montagna che sorge dal mare), è figlio di questo tempo. Nascono le banche e nasce la contabilizzazione del Purgatorio. Bisogna infatti definire quanto tempo è necessario per le anime purganti soggiornarvi, tentare se possibile d’abbreviare le loro sofferenze. Il tempo dipende dal numero e dall’entità dei peccati commessi ma, grazie al potere della Chiesa, può anche dipendere dai “suffragi”, cioè dalle preghiere, dalle elemosine e dalle messe che i parenti e gli amici sono disposti a pagare. Sempre dietro pagamento di denaro, si può ottenere persino il riscatto integrale del supplizio che resta da scontare; sono quelle “indulgenze” che assieme alla dottrina del Purgatorio gli ordini mendicanti (domenicani e francescani) contribuirono a diffondere dappertutto. “Non appena la moneta cade nella cassetta, vola in paradiso l’anima benedetta”. Così furono tutti contenti: i trafficanti d’ogni commercio che si ritagliarono la loro escatologia individuale pronto cash, e i trafficanti d’anime che estesero il loro potere sui morti e sul denaro dei vivi.

Il Purgatorio divenne dogma della fede (cattolica) solo a partire dal suddetto periodo; e per l’esattezza dal secondo Concilio di Lione (1274), confermato da quello di Firenze (1438) e ribadito dal Concilio di Trento, nel 1563. Quest’ultimo peraltro aggiunse al canone della Bibbia alcuni libri ebraici risalenti al periodo ellenistico, imbevuti di dottrina platonica sullo stato dei morti, tra i quali 2 Maccabei dove è narrato un episodio in cui viene presentata una preghiera e un’offerta per i morti. La dottrina di questi libri è apertamente in contrasto con l’insegnamento biblico ed essi non furono mai accolti nel canone ebraico, unico autorevole per i testi ispirati dell’Antico Testamento. E infatti sia Gesù che gli apostoli non li citano mai. Anche dalla Bibbia vera vengono portati dei testi a sostegno di questa dottrina ma si vede chiaramente che sono tirati per i capelli e gli si fa dire cose che non vogliono affatto dire. Il più citato è quello di 1 Corinzi 3:10-15 ove sembra che si parli di un periodo di purificazione mediante il fuoco per coloro che sarebbero starti salvati. Ma, appunto, “sembra” e solo se si estrapolano alcune parole dal loro contesto. Leggiamolo: “Dio mi ha dato il compito e il privilegio di mettere il fondamento, come fa un saggio architetto. Altri poi innalza su di esso la costruzione. Ciascuno però badi bene a come costruisce. Il fondamento già posto è Gesù Cristo. Nessuno può metterne un altro. Su quel fondamento altri costruiranno servendosi di oro, di argento, di pietre preziose, di legno, di fieno, di paglia. Ma nel giorno del giudizio Dio rivelerà quel che vale l'opera di ciascuno. Essa verrà sottoposta alla prova del fuoco, e il fuoco ne proverà la consistenza. Se uno ha fatto un'opera che supererà la prova, ne avrà la ricompensa. Se invece la sua opera sarà distrutta dal fuoco, egli perderà la ricompensa. Egli personalmente sarà tuttavia salvo, come uno che passa attraverso un incendio”. L’espressione “sarà salvo come uno che passa attraverso il fuoco” secondo alcuni teologi cattolici significherebbe che chi, pur credendo in Cristo, ha costruito con materiale scadente dovrà passare dal Purgatorio prima di essere accolto in Paradiso. In realtà qui Paolo si riferisce alla grave crisi che sta vivendo la chiesa di Corinto. Praticamente tutta la lettera elenca una sequela di errori, anche pesanti, che si commettono nella comunità: ingiustizie, prepotenze, furti, azioni immorali. Tutti comportamenti incompatibili con il regno di Dio, afferma l’apostolo. Al contempo egli fa riferimento a problemi di relazione tra i membri della comunità, a gelosie, invidie e discordie, alimentate talvolta dal comportamento poco limpido delle stesse guide che, probabilmente senza neppure avvedersene, si lasciano dominare dalla vanità e dalla propria ambizione. Paolo è turbato perché la chiesa, pur da lui piantata sul buon fondamento di Cristo, a causa di queste beghe infantili non riesce a crescere, è rimasta una chiesa bambina. Questa superficialità impedisce ai cristiani di Corinto di appropriarsi delle verità profonde dell’Evangelo che li rendano a loro volta evangelizzatori e uomini di carità. Allora egli li mette in guardia, dice loro: attenzione a come costruite la vostra vita cristiana. È vero, avete accettato Cristo con sincerità; ma la vita del cristiano è un percorso che spinge a fare cose concrete per il bene del prossimo anche a costo di “rimetterci qualcosa” (6:7). Voi siete “ancora troppo legati ai valori di questo mondo” (3:1) e desiderate ancora ciò che il mondo desidera. Rischiate così di affaticarvi attorno a cose che sembrano importanti ma che agli occhi di Dio non valgono nulla. Anche se costruite sulla Roccia rischiate di utilizzare materiale scadente che non reggerà alla prova del fuoco. Quando verrà il Signore, “Egli porterà alla luce quel che è nascosto nelle tenebre e farà conoscere le intenzioni segrete degli uomini. Allora ciascuno riceverà da Dio la sua lode” (4:5). Oltre alla vita, Dio ha in serbo diversi premi per coloro che hanno costruito con materiale prezioso, per coloro che hanno utilizzato bene i doni da lui ricevuti (vedi parabola dei talenti). Chi invece avrà costruito con materiale scadente, non riceverà alcuna lode; avrà salva la sola vita, come chi scampa da un incendio. Come si vede, letto alla luce del contesto, il brano citato non c’entra nulla con un ipotetico purgamento post mortem.

A fronte dei passi che vengono citati a sproposito per supportare le prove bibliche sul Purgatorio, ve ne sono tanti altri che dichiarano la salvezza e la vita eterna esplicitamente essere un dono gratuito di Dio:

“Ricordate, è per grazia di Dio che siete stati salvati, per mezzo della fede. La salvezza non viene da voi, ma è un dono di Dio” (Efesini 2:8)

“Egli, nella sua bontà, ci ha liberati gratuitamente per mezzo di Gesù Cristo” (Romani 3:24).

“…per l`opera di giustizia di uno solo (Gesù) si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita (Romani 5:18).

“Perché il peccato ci ripaga con la morte, Dio invece ci dona la vita eterna mediante Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 6:23).

Può Dio farci dono gratuito della vita eterna e poi infliggerci dei supplizi atroci per guadagnarla? Nessun altro purgamento è necessario per coloro che sono stati purgati con il sangue di Gesù:

“A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall`ira per mezzo di lui” (Romani 5:9).

“Non mi ricorderò più dei loro peccati e delle loro malvagità” (Ebrei 10:17)


Ma ancor più di questo c’è il leitmotiv che costituisce il tema del nostro discorso: tutti questi errori dottrinali si sono potuti insinuare perché si è accettato quel primo grande inganno del diavolo: “Voi non morrete affatto”. L’immortalità dell’anima; dottrina chiaramente antiscritturale, per riconoscimento unanime dei biblisti più seri e preparati siano essi ebrei, cattolici o riformati. È utile notare che anche la dottrina del Purgatorio è sponsorizzata dai demoni sin dalla nascita del cristianesimo, con particolare insistenza in ambiente cattolico. La letteratura è piena di cronache su sogni e apparizioni di “defunti” che implorano l’aiuto dei vivi per compiere più velocemente la loro purificazione.

La storia più nota dell’antichità è quella di Perpetua, martirizzata a Cartagine nel 203. Racconta nel suo diario che, mentre era detenuta in attesa del supplizio, gli apparve in visione il fratellino Dinocrate, “morto a sette anni per un cancro che gli aveva devastato la faccia”. Lo vide uscire "da un luogo tenebroso dove vi era molta altra gente; era accaldato e assetato, sudicio e pallido. Il volto era sfigurato dalla piaga che l’aveva ucciso". Accanto a lui c’era una vasca piena d’acqua ed egli cercava invano d’abbeverarsi perché il bordo era troppo alto. Era evidente che il bambino soffriva e stava subendo una prova. Allora Perpetua cominciò a pregare per l’anima di suo fratello defunto. Le sue preghiere furono ascoltate e in una seconda visione ella rivide Dinocrate, stavolta completamente guarito, pulito, in grado di raggiungere l’acqua, pronto a giocare come fanno tutti i bambini. Allora la donna sollevata appuntò sul suo diario: “Mi svegliai e compresi che la pena (del Purgatorio) gli era stata rimessa”. Questa storia fu ripresa da Agostino per dimostrare l’esistenza della “terza funzione” e la necessità dei suffragi poiché "non si può negare che le anime dei defunti possono essere aiutate dalla pietà dei loro cari". Senza peraltro porsi domande sulla misericordia di Dio che adesso si metteva a torturare anche i bambini per soddisfare la sua sete di giustizia.

Le apparizioni su questo tema si sono intensificate dal ‘600 in poi. Ne riportiamo alcune, cominciando da quella raccontata da Santa Margherita Marie Alacoque (1647-1690) nota per le sue visioni di “Gesù”. "Quando ero in preghiera davanti al Santissimo Sacramento nella festa del Corpus Domini, una persona avvolta nel fuoco si presentò improvvisamente dinanzi a me. Lo stato pietoso in cui vidi che si trovava in Purgatorio mi fece versare abbondanti lacrime. Mi disse che era l’anima del monaco benedettino che una volta aveva ricevuto la mia confessione e che mi aveva consigliato di fare la Santa Comunione. Per questo Dio gli aveva permesso di rivolgersi a me per avere sollievo nelle sue pene. Mi chiese di offrire per lui tutti i patimenti e le sofferenze di tre mesi. Dopo aver ottenuto il permesso dalla Madre Superiora, feci quello che mi aveva chiesto. Egli mi disse che la causa prima delle sue sofferenze era l’aver preferito i suoi interessi alla gloria di Dio e l’aver dato troppa importanza alla sua buona reputazione; la seconda era la mancanza di carità verso i suoi fratelli; la terza l’eccessivo attaccamento alle creature. Sarebbe difficile per me esprimere ciò che ho dovuto soffrire nel corso di quei tre mesi. Egli non mi lasciava mai; mi sembrava di vederlo come fosse avvolto nel fuoco con così vivi dolori che non potevo fare a meno di gemere e piangere quasi incessantemente. La mia Superiora, mossa a compassione, mi disse di fare dure penitenze, in particolare la disciplina. Infine, al termine dei tre mesi, vidi l'anima tutta colma di gioia e di gloria. Stava per godere della felicità eterna, e nel ringraziarmi mi disse che avrebbe pregato per me dinanzi a Dio."

Nel 1716, il 19 ottobre, moriva a Ratisbona il gesuita Ignazio Wagener. Lo stesso giorno suor Crescenzia Hoess, in seguito beatificata, entrando in Chiesa vide un fantasma bianco. Il giorno dell’arrivo della notizia, rivide il fantasma in cui riconobbe il sacerdote scomparso che era stato il suo preparatore spirituale. Questi, rivolgendole la parola, le disse di aver bisogno di preghiere per poter giungere a contemplare il volto di Dio. L’impedimento era causato dal fatto che in vita egli non avesse desiderato a sufficienza quel momento. La suora allora si mise a pregare con intensità offrendo tutti i suffragi che le fosse possibile finché, dopo alcuni giorni, le apparve nuovamente padre Ignazio tornato per esprimerle la propria riconoscenza in quanto grazie alle sue preghiere egli aveva potuto raggiungere il Sommo Bene.

Nel 1859 moriva a Foligno, nel convento delle Terziarie Francescane, suor Teresa Gesta per un ictus. Dodici giorni più tardi una sua consorella, suor Anna Felicita, mentre stava per entrare nel guardaroba udì un lamento che sembrava giungere da quella stanza. Tra i gemiti percepì una frase: “Mio Dio, quanto soffro!” La voce era chiaramente quella della defunta. In un attimo il guardaroba si riempì di fumo e in mezzo apparve l’ombra di suor Teresa. Lo spettro strisciò lungo la parete fino alla porta, su cui appoggiò la mano destra, ed esclamò: “Ecco una prova della misericordia di Dio!” Terrorizzata suor Anna Felicita gridò aiuto; quando accorsero le altre consorelle la visione era sparita ma sulla porta “suor Teresa” aveva lasciato l’impronta fumante della mano, come impressa da un ferro rovente. Le religiose si misero tutte in preghiera. Informato del fatto, il vescovo aprì un’inchiesta e, alla presenza di numerosi testimoni, venne riaperta la tomba di suor Teresa. Si notò che l’impronta del fuoco corrispondeva alla mano della religiosa.

Di queste testimonianze ce n’è un’infinità. Per l’accuratezza con cui sono state raccolte e per il messaggio concordante da esse espresso non c’è da dubitare sulla loro autenticità. A Roma, presso la parrocchia del Sacro Cuore del Suffragio, c’è persino un Museo del Purgatorio, ove si custodisce una curiosa collezione di cimeli sulle “manifestazioni” di anime purganti che consistono quasi tutti in impronte di dita, di mani, o piccole bruciature su carte e tessuti. Quasi tutti i reperti si riferiscono ad eventi accaduti tra il Seicento e l’Ottocento. Lo scopo dichiarato della raccolta è quello di sensibilizzare i fedeli sul valore del suffragio per i defunti. Ma qualche visitatore, suscitando la riprovazione dei custodi, chiede dove stanno “le impronte del diavolo”. Come dargli torto? Se l’anima non è immortale e i morti sono incoscienti chi altri può avere interesse a diffondere queste dottrine se non i demoni? Tra l’altro anche su questo tema c’è una significativa relazione con i fenomeni medianici e lo spiritismo. Spesso persone vittime di infestazioni e vessazioni vedono sparire il fenomeno dopo aver pagato la messa in suffragio di un familiare defunto. Viene così loro offerta la “prova” che la persona cara in stato di purgamento non trovava pace perché nessuno pregava per lei e, indirettamente, viene “provata” l’esistenza del Purgatorio oltre che dell’immortalità dell’anima. Per non dire degli spiriti evocati nelle sedute spiritiche che spesso dichiarano di trovarsi in una condizione di purgamento. Lo scopo di Satana è quello di distogliere gli uomini dal prepararsi per la vita eterna, inducendoli a sottovalutare l’appuntamento con la morte e a credere che esista un’altra possibilità di correzione oltre a quella rappresentata da questa vita.



Rozzi speculatori o custodi di un’antica tradizione?

Dopo questo sguardo sugli errori dottrinali a cui il credito aperto all’immortalità dell’anima ha spalancato la strada, torniamo al nostro tema principale per avviarci alla conclusione. Considerato che è un dato inconfutabile l’estraneità per l’antropologia biblica d’ogni visione dualistica, allora non pochi teologi imbevuti di filosofia greca cercano di far passare il messaggio che gli ebrei erano troppo rozzi per afferrare la complessità del tema antropologico e le spiegazioni che si davano, troppo ingenue. Ad esempio, il teologo cattolico Battista Mondin, per lunghi anni docente presso la Pontificia Università Urbaniana, afferma che è sbagliato consacrare ad antropologia rivelata un’antropologia “che, invece, non è altro che l'espressione culturale di un dato popolo, quello ebraico. Oggi sappiamo con certezza che Dio ha voluto far assumere alla storia della salvezza l'espressione della cultura ebraica, ma che con questo Egli non ha inteso privilegiare in modo assoluto e definitivo tale cultura rispetto a tutte le altre, e tanto meno ha inteso autenticarla come l'unica vera comprensione dell'uomo e delle cose. Perciò Dio non ha scelto il lin­guaggio della risurrezione per avallare una determinata concezione dell'uo­mo, ma perché quello era il linguaggio che per la mentalità empirica e poco speculativa del popolo ebraico si prestava meglio a parlare della vita fu­tura e della sopravvivenza dell'uomo nell'aldilà. Quindi Dio ha lasciato completamente in sospeso la questione della validità o meno in sede razio­nale della concezione antropologica greca o giudaica. Per la risposta su questa questione Egli ci rimanda alla ricerca filosofica. E su questo ter­reno, occorre ammetterlo, la speculazione filosofica greca possiede titoli di scientificità di gran lunga superiori a quelli del pensiero ebraico”. In altre parole Mondin afferma “per volontà di Dio” la superiorità della speculazione filosofica greca sulla Rivelazione biblica. Nello specifico, la visione biblica attorno alla risurrezione sarebbe volutamente semplificata per adattarla alla “mentalità empirica e poco speculativa del popolo ebraico”. Come dire che per comprendere le ipotizzate implicazioni sottaciute dell’escatologia biblica bisogna andare a leggersi il Fedone di Platone.

Se ne sono dette tante sulla cultura ebraica e sulla Bibbia. Si è detto che questa si limitava a rispecchiare le conoscenze del popolo, anziché alimentarle, e se ne è così mortificata la componente di rivelazione, declassandola a semplice racconto epico-mitologico. In questo caso il testo biblico rispecchierebbe passivamente le presunte idee poco chiare che gli ebrei avrebbero avuto sulla vita dopo la morte. Mondin, però, non dice questo. Egli non mette in dubbio l’ispirazione del libro sacro degli ebrei, però afferma che Dio dovette semplificare molto le categorie escatologiche ed antropologiche della sua rivelazione per renderle comprensibili alla rozzezza intellettuale della cultura ebraica. Solo grazie al pensiero greco, e alle sue capacità speculative, il mondo giudaico poté affrancarsi dalla propria grossolanità intellettuale che gl’impediva una chiara comprensione delle suddette categorie. Come dire che la Bibbia è un libro per bambini e per essere spiegata necessita della speculazione umana sviluppata dai greci pagani, sia pure sotto le ali cristiane della Chiesa. Affermazione che farebbe inorridire i riformati i quali, secondo il principio della Sola Scriptura, partono dal presupposto che la Bibbia può spiegarsi solo con la Bibbia; ma che a ben pensarci è abbastanza in linea con la pluralità delle fonti in materia di fede dei cattolici. I fatti hanno però dimostrato che quello della speculazione umana è un terreno minato, perché mentre si pensa di sviluppare il pensiero biblico lo si è spesso snaturato.

Ma poi è proprio sicuro che gli ebrei fossero così grezzi nella loro capacità di delineare la natura dell’uomo e il suo destino? Abbiamo già elencato una serie di versetti tratti dall’Antico Testamento che rivela piuttosto chiarezza d’idee a proposito. Cosa c’è di grossolano nel descrivere la morte come un sonno nell’attesa della risurrezione? Cosa c’è d’ingenuo nel prefigurarsi la vita nell’aldilà come vita completa fatta pure di fisicità, in fondo anche gli animisti cristiani credono in una risurrezione della carne. Cosa c’è di rozzo nell’attendere un universo completamente liberato del male, ove i malvagi tutti, Satana compreso, siano completamente eliminati e ove Dio possa effettivamente essere tutto in tutti? È forse più raffinato intellettualmente immaginare delle anime disincarnate, vivere nel cielo accanto ad esseri dotati di corpo spirituale e incorruttibile come gli angeli, la Madonna, e lo stesso Gesù. Anime mentalmente vitali, alcune delle quali impegnate in azioni d’aiuto e d’intercessione per l’umanità, private della capacità di toccare e accarezzare, di sentire i profumi, di sedersi a tavola con gli altri abitanti del cielo per gustare i cibi squisiti di quel luogo? (cf Lc 22:18,30). È forse più logico speculativamente immaginare l’universo futuro ove per tutta l’eternità, cioè per miliardi e miliardi e ancora infiniti miliardi di anni, ci sia un luogo ove creature coscienti e sensibili arrostiscano nelle fiamme maledicendo il nome di Dio, e, al contempo altrove, altre creature coscienti e sensibili vivano beate, e su tutti si posi lo sguardo infinitamente amorevole del buon Padre celeste? È questa l’alta capacità speculativa dei cristiani?

Chi definisce ingenua l’escatologia degli ebrei forse non sa che la loro Rivelazione sosteneva una tradizione così antica da risalire ai giorni in cui i semiti la condividevano con gli indoeuropei. Gli indoeuropei infatti conservavano un mito escatologico, sulla fine del mondo e sulla terra rinnovata, che era loro tipico. Risaliva cioè al tempo in cui i progenitori dei vichinghi non si erano differenziati dai progenitori degli indoariani. Parliamo cioè almeno di quattromila anni prima di Cristo. Ebbene questo mito ha elementi suoi esclusivi ed altri, moltissimi, che lo accomunano alla visione biblica e che non può non suggerire una comune origine risalente alla notte dei tempi. Tra questi ultimi, possiamo elencare la presenza dell’essere malvagio per eccellenza (il corrispettivo di Satana), il tema della battaglia escatologica del Bene contro il Male, il declino della morale alla vigilia del grande scontro, i segni cosmici che preannunziano la fine (la terra che trema, l’oscuramento del sole, la caduta delle stelle), lo scontro fisico in una grande pianura per la battaglia decisiva; la distruzione della terra, che può anche essere inghiottita dall’oceano, tornando all’abisso primordiale. E, infine, l’azione creativa che chiamerà all’esistenza nuovi cieli e una nuova terra dove abiti la giustizia. Tra l’altro questi antichi temi mitologici sono stati utilizzati nel Mahabarata, un immenso poema epico composto in India attorno al VII secolo a.C. Essi vengono innestati nel racconto che ha come tema principale la lotta tra i due rami della famiglia ariana dei Baharata. Ma ritroviamo questi temi anche nell’escatologia degli antichi germani, ove, dopo la battaglia finale (ragnarök) contro le forze del male, si narra che la terra verrà incendiata e, alla fine, sommersa dal mare. Poi essa, però, riemergerà e accoglierà una nuova umanità che finalmente potrà vivere in perfetta letizia. Quando le stirpi indoeuropee si diffusero nel continente euroasiatico mischiarono la loro religione con quella dei popoli sottomessi e il sincretismo che ne seguì coinvolse pure le loro credenze escatologiche. Abbiamo detto degli Arii che inizialmente non credevano nell’immortalità dell’anima e nelle pene eterne, bensì nella distruzione dei malvagi alla fine dei tempi poiché consideravano l’immortalità un dono degli déi da concedere ai soli beati. Quando essi si fusero con le popolazioni indiane mutarono dottrina. E così avvenne con i Greci, con i Latini, con i Celti, ecc. Unica eccezione si verificò in Persia, con la riforma monoteista di Zarathustra, il profeta di Ahura Mazda. Il riformatore attingendo alle credenze ancestrali dei padri indoeuropei predicò anche sul destino ultimo degli uomini. Egli credeva in una vittoria universale del bene sul male che avrebbe rinnovato radicalmente il mondo, e attendeva un Salvatore (Saushyant) al cui comando le anime dei giusti e degli ingiusti sarebbero risuscitate e chiamate in giudizio. Allora i morti risorti si sarebbero riuniti e riconosciuti, e le azioni di ognuno sarebbero state rivelate. Zarathustra non si affrancò, è vero, dalla credenza generalizzata di una retribuzione immediata, subito dopo la morte, sia per i beati che per i dannati. Tuttavia egli non predicò mai la dottrina delle pene eterne, di cui i teologi cristiani sono sempre stati esperti incontrastati. Nel suo mondo futuro non c’è posto per i dannati, per Satana e per il suo regno infernale. Come giustamente osservò lo storico delle religioni George Foot Moore, a proposito dell’escatologia di questo profeta di Ahura Mazda, “il trionfo di Dio su questo aspetto è più completo di quello che non sia presentato dal cristianesimo, il quale lascia l’inferno col diavolo ed i suoi angeli ed i malvagi nei tormenti eterni, cioè, dopo tutto, lascia un regno del male inconquistato”.


L’ampolla dell’identità

Il teologo Battista Mondin afferma un altro motivo, per cui egli ritiene indispensabile l’immortalità dell’anima, che è condiviso da molti e che in sé è anche un timore: “La negazione dell'immortalità dell'anima conduce a una concezione assurda della vita eter­na. Infatti, se si nega all'uomo il possesso d'un germe d'immortalità, al­lora si crea un vuoto assoluto tra la vita presente e quella futura, venen­do meno il soggetto a cui Dio possa fare dono della risurrezione e della vita eterna. Per cui non esiste più nessun motivo ragionevole per affermare che la vita eterna non ha qualche rapporto con la vita presente. Così diviene del tutto arbitrario e assurdo considerare quelli che risorgeranno gli stessi individui che hanno vissuto in questo mondo”. Egli cioè ritiene che la persona risorta non possa conservare l’identità della persona deceduta se non rimane d’essa qualcosa che faccia da trait d’union tra il momento della morte e quello della risurrezione. Questa è una riflessione umanamente comprensibile. Per chi ha riflettuto sull’argomento è infatti naturale chiedersi: mettiamo pure che la persona richiamata in vita sia identica a me, che abbia persino i miei stessi pensieri e i miei stessi ricordi, come faccio tuttavia ad esser certo che sarò veramente io a trovarmi lì quel giorno, ad avere la coscienza di esserci, così come al mattino ci si risveglia dopo una notte di sonno, e che non sia invece una copia della mia coscienza e che io pertanto in realtà non ci sarò più? Comprensibile questo timore, però infondato. “Può forse l'argilla chiedere a chi lavora: «Che cosa fai?» O dire al vasaio: «Il tuo lavoro è incompleto!»?” (Is 45:9). Stiamo parlando di Dio e non di un demiurgo che si limita a ordinare la materia esistente. Egli è il Creatore Onnipotente, colui che molti anni prima di chiamare all’esistenza Ciro, il re dei Persiani, ne parlava come se già fosse o, persino, fosse stato. “Così parla il Signore al suo unto, a Ciro, … io ti ho chiamato per nome, ti ho designato, sebbene non mi conoscevi” (vv 1,4). È Colui che “chiama le cose che non sono come se fossero” (Rm 4:17). Non ha bisogno di anime disincarnate o di ampolle che custodiscano l’identità dei trapassati per richiamare in vita le sue creature. Quel giorno benedetto, Egli non si rivolgerà alle “anime” ma alla polvere, alle ossa secche, farà entrare in loro il suo alito vitale ed esse rivivranno (cf Ez 37:5). Parola del Signore. Oscar Cullmann pone l’accento proprio su questo fatto: la morte è realmente quale si presenta: uno scheletro. Se la vita deve scaturire da questa morte integrale, è necessario un nuovo atto creatore di Dio che richiami alla vita non solo una parte dell'uomo, ma l'essere umano integrale. L'uomo intero, che è realmente morto, e richiamato alla vita da un nuovo atto creatore di Dio. Tanti cristiani non riconoscono al Creatore il potere di richiamarci dal nulla, come dire che non ne riconoscono l’onnipotenza. Lo scettico Voltaire tacciò d’incoerenza quei cristiani che pongono limiti alla Provvidenza. Ad essi chiedeva: “Se credete che Dio ha creato, perché trovate difficoltà a credere che potrebbe ricreare?”

Il teologo protestante Karl Barth invita a porsi dalla prospettiva di Dio, per quanto sia possibile. L’immagine del sonno che la Bibbia adopera per descrivere la morte va intesa in senso figurato; essa rende “l’impressione” che provocano sui sopravvissuti quanti muoiono e non l’effettiva loro condizione dopo la morte. Dalla prospettiva di chi osserva la persona che muore essa sembra addormentarsi e attendere in stato d’incoscienza il giorno in cui sarà risvegliata, cioè sarà fatta risorgere. Dalla prospettiva di chi muore, persino l’immagine del sonno è inadeguata perché egli non ha consapevolezza della morte. Possiamo osservarlo in quelle persone che si risvegliano dopo anni di coma profondo e che non hanno avvertito il trascorrere del tempo. Capita persino che riprendano gli stessi pensieri che avevano al momento dell’incidente. Analogamente, per chi muore, la risurrezione segue immediatamente all’attimo in cui la vita terrena cessa; questa almeno sarà la sua sensazione. Ma Barth ci chiede di fare un ulteriore sforzo d’immaginazione ponendoci nella prospettiva di Dio o, meglio, nella sua dimensione. Egli è l’Eterno ed esiste al di là dello spazio e del tempo. Anche chi muore si pone al di fuori quanto meno del tempo, e chi muore in Dio si pone a maggior ragione nella dimensione di Dio. Quindi adoperare le nostre categorie temporali per definire il tempo che trascorre tra il momento della morte e quello della risurrezione è un nonsenso. Per questo Barth afferma che la trasformazione del corpo carnale nel corpo spirituale avviene già al momento della morte. L'uomo in quanto tale non ha un aldilà, e non ne ha nemmeno bisogno, poiché Dio è il suo aldilà. Sulla stessa linea si pone il teologo cattolico del dissenso Hans Küng. Aderendo alla posizione biblica anch’egli è convinto che “quando l’uomo muore, muore come totalità, con il corpo e con l’anima, come unità psico-fisica. Ma non muore nel nulla; muore in Dio: cioè entra in quella dimen­sione eterna in cui fra la morte e il giudizio universale il tempo è irri­levante”. Sebbene la fede cristiana escluda l’immortalità dell’anima – afferma Küng – fa riferimento all’immortalità per definire “l’insopprimibilità del rapporto personale con Dio”. È come se Dio non sospendesse la vita che cessa oggi ma la proiettasse realmente nel tempo della risurrezione, senza soluzione di continuità. Gesù ha più volte sollevato il velo su questo che, a noi viventi, incatenati al tempo, appare come un paradosso temporale. Una volta, parlando ai sadducei, disse che Dio è Dio dei vivi e non dei morti: “A proposito di risurrezione dei morti, non avete mai letto nella Bibbia ciò che Dio ha detto per voi? C'è scritto: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Perciò è il Dio dei vivi, non dei morti!” (Mt 22:31-32). Avrebbe potuto dire: “Non è Dio dei morti ma di coloro che rivivranno”. Diversi riferimenti li troviamo nel Vangelo di Giovanni. Due per tutti: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; anzi chi vive e crede in me non morirà mai. Credi tu questo?… Io vi dichiaro solennemente che chi ubbidisce alla mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 11:25; 8:51; cf 5:24; 6:47; 17:3). E la promessa fatta al ladrone sulla croce: “Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso”? (Lc 23:43). Vi sono diverse spiegazioni di questa frase che non richiedono di tirare in causa l’immortalità dell’anima (cf Appendice). Ma questa che potremmo definire del “paradosso temporale”, oltre che la più affascinante, apparirebbe la più coerente con altre affermazioni di Gesù secondo le quali è oggi che l’uomo giustificato entra nella vita divina. E se si muore nella dimensione di Dio, il tempo fino alla risurrezione oltre che apparire irrilevante anche lo è. Con grande sollievo del teologo Mondin che in questo modo non vedrebbe messa a rischio la sua insostituibile identità, pur senza tirare in ballo l’anima immortale e la filosofia greca.


Sola Scriptura o tradizione protestante?

La dottrina dell’immortalità dell’anima è molto diffusa pure nel mondo protestante, anche se in modo meno esclusivo rispetto a quello cattolico e ortodosso. Però evangelici e protestanti si ritrovano con un problema in più, di difficile soluzione. Cattolici e ortodossi, infatti, ammettono serenamente che le Sacre Scritture costituiscono per loro solo una delle fonti a cui attingono per costruire il loro impianto dottrinale. Quello che Battista Mondin ha affermato esplicitamente, e cioè che la Bibbia è una forma di rivelazione semplificata adattata alla “mentalità empirica e poco speculativa del popolo ebraico”, è quel che credono effettivamente queste chiese. Usando la metafora di Paolo, per esse la Bibbia è il latte dei bimbi mentre il cibo solido per gli adulti evidentemente è costituito dalle credenze e dalla filosofia greca. Le chiese scaturite dalla Riforma protestante invece dichiarano che la Bibbia è l’unica fonte della rivelazione speciale di Dio all’umanità, per cui essa è l’unico criterio per valutare le dottrine e gl’insegnamenti della chiesa. Sennonché però la dottrina dell’immortalità dell’anima e delle pene eterne dell’inferno, per ammissione di autorevolissimi loro teologi, è dichiarata estranea all’insegnamento biblico. Che fare allora per superare la contraddizione? La soluzione più semplice e onesta sarebbe ovviamente quella di abbandonare queste credenze di chiara origine pagana e di tornare all’insegnamento biblico dell’antropologia unitaria e dell’immortalità condizionata. Poi rimane l’alternativa, più conservatrice ma meno difendibile, di usare certi passi di non immediata lettura della Bibbia per supportare queste dottrine extrabibliche e d’ignorare i tantissimi altri che invece chiaramente le condannano. Certo, bisogna prendere atto che su questo il protestantesimo non è stato molto aiutato dall’atteggiamento dei padri della Riforma che erano di fatto degli ecclesiastici cattolici, certamente in dissenso con Roma ma su alcuni temi specifici: il peccato e la giustificazione, per quel che riguarda Lutero. Ma essi si erano formati in un contesto cattolico, erano rispettosi dell’autorità ecclesiastica e lo strappo con la Chiesa madre fu un evento sofferto. Essi erano imbevuti di studi patristici. La Confessione Augustana, redatta da Melantone sotto la guida di Lutero, afferma espressamente riguardo alla fede luterana che in essa “non c’è nulla che sia in disaccordo con le Scritture, con la Chiesa Cattolica, o con la Chiesa di Roma, nella misura in cui quella Chiesa ci è nota dagli scrittori”. Infatti essa conserva gran parte delle inclusioni dottrinali introdottesi dal paganesimo compresi l’anima immortale e il tormento eterno. Alcuni protestanti lamentarono il fatto che la Riforma non trovava il coraggio di spingersi sino in fondo e gli stessi riformatori, quand’erano in disaccordo sui punti dottrinali, spesso se li rinfacciavano a vicenda anziché trovare l’umiltà d’incontrarsi in spirito fraterno per avvicinarsi il più possibile alla verità. Non che fosse mancata la riflessione sul nostro argomento. Ad esempio il riformatore Tyndale, che lavorò alla traduzione della Bibbia in inglese, il dubbio sullo stato dei morti se lo pose; infatti dichiarò: “Lo confesso apertamente di non essere affatto persuaso che essi siano già nella gloria di cui godono il Cristo e i santi angeli di Dio. Questo non è per me un articolo di fede, perché se così fosse sarebbe inutile predicare la risurrezione della carne”. Lo stesso Lutero, il padre della Riforma, dovette confrontarsi con la dottrina biblica se non altro quando tradusse il sacro testo in tedesco. Commentando le parole di Salomone in Ecclesiaste, secondo le quali "i morti non sanno nul­la", scrisse: «Un altro passo dove viene dimostrato che i morti non hanno… consapevolezza. Là (nella tomba) non c'è né dovere, né scienza, né conoscenza, né sapienza. Salomone stima che i morti dormono e che non sentono nulla. Poiché i defunti giacciono nella tomba e non hanno nessuna nozione dei giorni e degli anni, quando si risveglieranno sembrerà loro di avere dormito solo un minuto». Questa incongruenza si trasmise a molte chiese che discendono dalla Riforma. Sola Scriptura, purtroppo, è ancora un obiettivo da raggiungere. Come ammette onestamente il teologo protestante Jean Cadier: “I riformati, come gli altri, sono più sottomessi alla tradizione di quanto vogliano riconoscere. Sulla questione della domenica…, del battesimo dei bambini… [e, aggiungeremmo, dell’immortalità dell’anima] l’apporto della tradizione è stato nettissimo. Allorché una confessione cristiana, come gli Avventisti, nel nome della Scrittura, inizia su questi difficili soggetti una controversia con i riformati, essa è in anticipo vittoriosa, e i testi con i quali la nostra chiesa difende la sua posizione, al di fuori del ruolo della tradizione, e senza invocare lo spirito della rivelazione, sono rari e non apportano l’adesione. Noi preferiamo dirlo molto chiaramente e affermare che c’è una tradizione protestante” (J. Cadier, Christianisme Sociale, Parigi 1973).


In prospettiva del grande inganno

Qualcuno ha detto che la dottrina sullo stato dei morti sarà un impor­tante discrimine, a cui le chiese saranno sottoposte, per decidere da che parte stare nell'imminenza del ritorno di Cristo. Satana sta preparando il suo capolavoro di seduzione, e "la forza di falsi miracoli e di falsi prodigi" e l'uso di "ogni genere d'inganno maligno" (2Tess 2:9-10) saranno tali "da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti" (Mt 24:24). Già oggi, ne abbiamo portato degli esempi, spiriti diabolici appaiono assumendo la forma di parenti e amici carissimi e sostengono dottrine in contrasto con l’insegnamento biblico. Questo fenomeno, come Gesù ha rivelato nel suo discorso profetico, è destinato ad accentuarsi nell’imminenza della fine. Satana giungerà persino ad imitare il ritorno di Cristo; si presenterà come un essere maestoso e si circonderà di uno splendore mai visto da occhio umano. Compirà prodigi e guarigioni. Imiterà Cristo anche nel tono e nel portamento. Parlerà agli uomini con parole suadenti e piene di compassione. Conoscendo il suo metodo, certamente mischierà note verità a menzogne spudorate. Ribadirà, come ha sempre fatto, gravi errori dottrinali che da secoli ormai le chiese hanno accettato tra le loro regole di fede e ne ordinerà a tutti il rispetto rigoroso. Chi non ha cercato, con vera attenzione e senza intermediari, d’appropriarsi dell’insegnamento biblico, come potrà resistere a questo terribile inganno che sedurrebbe “se fosse possibile anche gli eletti”? Solo la fedeltà agli insegnamenti della Parola di Dio consentirà ai salvati di smascherare gl'inganni del maligno e di non rendersi complici della sua ribellione.




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APPENDICE


ALTRI TESTI CONTROVERSI
Ci siamo in parte avvalsi del Dizionario di Dottrine Bibliche – Edizioni ADV


Allora Gesù gli disse: "In verità ti dico: oggi tu sarai con me in paradi­so" (Luca 23:43).

Per questo testo basterebbe ricordare che i manoscritti originali del Nuovo Te­stamento non avevano punteggiatura e il testo (tradotto letteralmente) si leggeva: "E disse a lui in verità a te dico oggi con me sarai nel paradi­so". Quando più in là venne messa la punteggiatura, la costruzione della frase non poté prescindere dall'affermatasi credenza nell'immortalità dell' anima. Ecco perché il segno di punteggiatura venne posto dopo "dico" anzi­ché dopo "oggi". In tal modo la frase perde il suo significato di promessa a tempo indeterminato e acquisisce un senso in contrasto non solo con l'in­segnamento biblico ma con le stesse parole di Gesù il quale, la domenica della risurrezione, dichiara a Maria di non essere ancora stato in paradiso (v. Gv 20:17). E non era pertanto neppure salito in cielo, insieme al ladrone pentito, nel giorno della loro morte. Tenendo ben presente questa premessa, è tuttavia ancora possibile accettare la lettura tradizionale di questo brano. Gesù in quel momento non stava impartendo una lezione di dottrina ma stava confortando un uomo che veniva ucciso brutalmente e che si confrontava con il mistero della morte. Pertanto Gesù, ponendosi nella prospettiva del ladrone, gli stava indicando il susseguirsi degli eventi così come lui li avrebbe vissuti. Non avendo percezione del tempo che sarebbe trascorso durante il sonno della morte, dal suo punto di vista sarebbe stato catapultato nella nuova vita quel giorno stesso, un istante dopo la perdita di coscienza. E questo era ciò di cui lui aveva bisogno sapere in quel momento. Infine c’è la spiegazione del paradosso temporale, di cui si parla nella sezione “l’ampolla dell’identità”, a cui rinviamo. Può riassumersi nella seguente definizione: per chi muore nella dimensione di Dio, il tempo oltre che apparire irrilevante anche lo è.


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Ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore (2Cor 5:8).
Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall'altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi (Fil 1:23,24).

Considerando la morte come un sonno, in cui non c'è consapevolezza del tem­po che scorre, per il cristiano morire equivale a risorgere. Dal punto di vista di chi muore i due atti sono consecutivi; per questo Paolo dopo la morte s'immagina già con Cristo. Ne abbiamo già parlato nella sez. dal titolo “Un tempo irrilevante”. Quanto alle espressioni "partire dal corpo" e "rimanere nel corpo", significano semplicemente "lasciare questa vita" ("morire") e "continuare a vivere", come correttamente traduce la versione interconfessionale.


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Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di es­ser trovati già vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2Cor 5:1-4 CEI).

Qui l'apostolo Paolo utilizza un tipo di linguaggio che ci fa capire che egli stava combattendo un gruppo di dualisti che credeva evidentemente nel­la possibilità dell'anima sincera (o "nuda", senza il corpo, v 3). Paolo polemizza con loro dicendo che anche se il corpo terreno è disfatto, noi sap­piamo che Dio ce ne ha preparato uno migliore e desideriamo "rivestirci del nostro corpo celeste" (v 2 CEI), non certo "essere spogliati" (v 4), ma co­munque "anche se saremo spogliati (cioè colpiti dalla morte; il greco ha Ekdusàmenoi) non saremo trovati nudi" (v 3, traduzione letterale dal greco) come invece sostenevano gli gnostici. Se poi al versetto 3 si accetta la lezione Endusàmenoi nel greco (come fa la Riveduta) allora si dovrebbe tra­durre: "Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del no­stro corpo celeste, e dal momento che saremo rivestiti con esso non saremo trovati nudi". Il punto centrale dell'argomentazione di Paolo è proprio quello di negare l'argomento dei platonici e degli gnostici che credevano nella sopravvivenza di un'anima disincarnata!

“Paolo non insegna un'immortalità dell'anima, che con la morte si separerebbe dal corpo terreno e continuerebbe a sopravvivere senza di esso. L'uomo è sempre un’esistenza corporea e rimane tale anche nel mondo della resurrezione. L'uomo entra nella morte passando attraverso il mistero di una tramutazione nella vita nuova, interamente creata da Dio”. (Karl Hermann Schelkle, teologo cattolico)


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Quando l'Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l'altare le anime (psy­chàs) di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testi­monianza che gli avevano resa. Essi gridarono a gran voce: "Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero, per fare giustizia e vendicare il nostro sangue su quelli che abitano sopra la terra?" E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po' di tempo, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro (Apoc 6:9-11).

Il termine greco Psychè, come il corrispettivo ebraico Nephesh, può indica­re nel N.T. la vita (Gv 10:11,15,17; Fil 2:30; 1Tess 2:8 come Is 47:14) e gli esseri viventi, compresi gli animali (Apoc 8:9;16:3); le persone (Atti 2:41;7:14;27:37;1Pt 3:20). Può anche tradursi con un semplice pronome. Apo­calisse non fa eccezione e "psychè" viene, secondo i casi, resa nell'Inter­confessionale con "vita" (12:11), "animali" (16:3), o anche con un pronome dimostrativo, come nel nostro caso: "…vidi sotto l'altare coloro che era­no stati trucidati per la loro fedeltà alla parola di Dio e per la loro te­stimonianza". Qui significa semplicemente: "i martiri".

Ma che ci fanno questi martiri sotto l'altare? Il primo passo da farsi per capire il testo è quello d'individuare lo stile letterario; in tal modo non è difficile rendersi conto che ci troviamo in un contesto simbolico: ove cioè il messaggio viene trasmesso mediante simboli. Si parla di cavalli co­lorati, di sigilli, ecc. Pertanto anche l'immagine dell'altare va letta in chiave simbolica. Da una raccolta di sentenze del II sec. a.C. si legge: "Chiunque è sepolto in terra d'Israele, è come se fosse sepolto sotto l'al­tare; e chiunque è sepolto sotto l'altare, è come se egli fosse sepolto sotto il trono di gloria". L'Apocalisse riprende quest'immagine applicandola alla Chiesa che soffre la persecuzione del mondo. Ai piedi dell'altare de­gli olocausti veniva raccolto il sangue del sacrificio (v. Lev 4:7). In ge­nerale nelle culture antiche s'intravedeva un legame tra il sangue e la vita; l'A.T. giunge persino a identificarli: "Il sangue è la vita" (Deut 12:23). Il termine "psychè", significando anche vita, rende più stretto il nesso tra la vita strappata ai martiri e il loro sangue che chiede giusti­zia (v 10). Rende inoltre ancora più forte il paragone, già suggerito dall' ubicazione sotto l'altare, tra la morte dei martiri e i sacrifici dell'An­tico Patto. Il verbo sfazo (sgozzare, v 9), che nella versione dei LXX era il termine tecnico per indicare i sacrifici rituali (v. Lev 4:4), è un ele­mento ulteriore che conferma il paragone. La morte sanguinante di questi testimoni di Gesù Cristo, viene accettata come un sacrificio gradito a Dio. Il tempo della liberazione non è ancora giunto, ad altri ancora toccherà di soffrire, Ma la Chiesa non è stata dimenticata: "Chiunque ti tocca, popolo mio, tocca quel che ho di più prezioso" (Zac 2:12 TILC). Il monito ai per­secutori viene ribadito: "…dalla terra il sangue di tuo fratello mi chie­de giustizia" (Gen 4:10). Al grido: "Fino a quando?", viene risposto con il dono della veste bianca che non è il premio dei loro meriti, ma il segno dell'amore di Dio. È un simbolo di giustificazione ma anche la promessa, dopo aver subìto il disprezzo degli uomini, di una piena riabilitazione e dell'eterna glorificazione.

Anche qui le anime disincarnate non c'entrano nulla. Siamo in presenza di quella figura retorica, detta prosopopea, che consiste nel dar voce a cose che non parlano, anche a persone defunte, come se fossero presenti, vive, animate. Il dialogo tra Dio e i morti è solo un espediente stilistico per lanciare un messaggio di rassicurazione ai vivi: al "numero dei loro compa­gni di servizio e dei loro fratelli".





RICONOSCIMENTI


Claude Tresmontant, noto scrittore e teologo francescano: “Il maggiore errore e la peggiore illusione consiste nel ritenere che si possa passare da un pensiero a un altro, stabilendo semplicemente una corrispondenza linguistica tra i due termini che in realtà non hanno lo stesso significato. L'illusione consiste nell'immaginarsi che l'analogia verbale che risulta semplicemente dalla traduzione, ricopra un'analogia reale. Dato che la Bibbia ebraica comporta un termine, tradotto in greco psychè e in latino anima, si pensò di poter ragionare su ciò che la Bibbia chiama anima, allo stesso modo di come si ragiona su quello che intendono Platone, Plotino o Cartesio. Fu un grave errore. Sotto l'identità del termine, le differenze di contenuto sono radicali”
“L'immortalità dell'anima, nella prospettiva giudaico-cristiana, non va da sé. L'immortalità non è un diritto, una proprietà della natura per l' anima. Essa è e forse sarà un dono”.


Roland de Vaux, archeologo e orientalista cattolico: “La distinzione dell'anima e del corpo è estranea alla mentalità ebra­ica e di conseguenza, la morte non è considerata come una separazione di questi due elementi. Un vivente è una "anima" (nephesh) vivente, un morto è una "anima" (nephesh) morta. Il culto dei morti in Israele non è mai esistito. La preghiera e il sacrificio espiatorio per i morti - cose ugualmente incompatibili col culto dei morti - appaiono solo alla fine dell'Antico Te­stamento in 2 Maccabei 12:38-46”.


Claus Schedl, eminente biblista cattolico: “La psicologia biblica è troppo fortemente vincolata agli organi (sede dell’"anima": le viscere, le interiora, i reni, le ossa, il cuore), perché si possa dividere l'uomo in due parti: spirito e corpo, e dire che soltanto lo spirito è creato a immagine di Dio. L'uomo non può essere sezionato. È come un tutto, come una natura corporale-spirituale, che porta l'impronta di Dio”.


François Castel, teologo cattolico: “Bisogna notare che l’ebraico dice: un vivente animato; non esiste anima senza corpo né corpo senz’anima, oppure, più esattamente, per restare vicini all’ebraico, senza soffio. È per un ripiego delle traduzioni greche che è entrata la parola psychè, tradotta in latino con anima, ma, per l’ebraico, questa parola indica solo la facoltà di respirare”.


Yves Congar, famosissimo teologo e storico cattolico: “Per la Scrittura l'uomo è il suo corpo, la persona non è completa che con il suo corpo. Così la Bibbia dice "corpo" nel senso in cui diciamo: persona viva e attiva; vedi il caso tipico di Romani 12:1 dove la Bibbia di Gerusalemme traduce con ragione "persona" là dove Paolo ha scritto "soma, corpo".


Paul Van Imschoot, teologo cattolico: “Non si deve parlare né di dicotomia né di tricotomia nell'antropolo­gia biblica, l'uomo è considerato sinteticamente come un organismo fisico­-psichico”.


Johannes Pedersen, teologo specialista in filologia semitica: “Anima e corpo sono così intimamente uniti (nell'antropologia biblica) che non è possibile distinguerli; essi sono più che uniti; il corpo è l’anima nella sua forma esteriore”.


André Malet: “Il soma (corpo), la psychè (anima) e il pneuma (spirito) sono ognuno la persona totale in uno dei suoi aspetti”.


Marie-Joseph Nicolas, teologo domenicano: “Come concepire l'anima separata? Quando il corpo manca, quando il cervello non funziona più, dov'è l'anima, dov'è la coscienza? Che cosa può essere e fare da sola?”


Alexis Carrel, fisiologo e biologo cattolico, premio Nobel per la medicina, membro della Pontificia Accademia delle Scienze: “L'anima non è indipendente dal corpo: la qualità della mente dipende dagli organi, in particolare dal cervello e dalle ghiandole endocrine. Lo stato della coscienza non è mai indipendente da quello dei tessuti, del sangue…”


R. Koch, biblista cattolico: “Per l'uomo biblico l'“anima” non ha niente a che fare con la dicoto­mia platonica: corpo-anima. L'anima non dimora qual massa indipendente, nel "corpo" come in un carcere, da cui sarebbe liberata dalla morte. L'anima è l'uomo nella sua totalità. L'uomo non ha un'anima, egli è un'anima. Non ha un corpo, è un corpo”.


Hans Küng, teologo cattolico del dissenso: “Chi sostiene l'eternità della pena, in generale è convinto che questa pena toccherà agli altri, non a lui. Se pensasse di essere destinato anche lui all'inferno si chiederebbe sbigottito: ma è possibile? Ma un Dio che è misericordia infinita, amore infinito, come può condannarmi a una pena sen­za fine? … Ma l'uomo è un'unità, non è formato da due materiali completa­mente diversi; il dualismo anima-corpo è ampiamente superato… Quando l'uomo muore, muore come totalità, con il corpo e con l'anima, come unità psico-fisica. Ma non muore nel nulla; muore in Dio: cioè entra in quella dimen­sione eterna in cui fra la morte e il giudizio universale il tempo è irri­levante”.


Oscar Cullmann: “Si tratta anzitutto di ascoltare ciò che dice Platone e ciò che dice san Paolo. Si può andare oltre. Si possono rispettare, e anzi ammirare, tutti e due gli insegnamenti (...) Ma non è ancora una ragione sufficiente per negare che esista una differenza radicale fra l'attesa cristiana della risurrezione dei morti e la credenza greca nell'immortalità dell'anima. (...) Se poi il cristianesimo successivo ha stabilito, più tardi, un legame fra le due credenze e se il cristiano medio oggi le confonde bellamente fra loro, ciò non ci è parsa sufficiente ragione per tacere su un punto che, con la maggior parte degli esegeti, consideriamo come verità; tanto più che il legame stabilito fra la "risurrezione dei morti" e la credenza "nell'immortalità dell'anima" in realtà non è neppure un legame, ma una rinuncia dell'una in favore dell'altra: si è sacrificato al Fedone il capitolo 15 della prima epistola ai Corinzi. (...) Bisogna invece riconoscere lealmente che proprio quanto distingue la speranza cristiana dalla credenza greca è il centro stesso della fede del cristianesimo primitivo”.


Emile Brunner, uno tra i massimi teologi protestanti del XX secolo: “Non si può più dubitare che la dottrina d'una immortale sostanza del­l'anima non ha un'origine biblica ma platonica”.


Roland De Pury, notissimo pastore riformato e scrittore: “La dottrina pagana dell'immortalità dell'anima è la negazione su tut­ta la linea delle verità fondamentali della chiesa cristiana. Non soltanto della risurrezione ma soprattutto della creazione. Poiché un'anima immortale non è creata… non esiste nell'uomo biblico una parte immortale e una parte no. Nessun dualismo pagano. L'uomo è mortale tutto intero”.


Karl Barth, il massimo teologo protestante della nostra epoca: “La questione alla quale devo rispondere è questa: l'uomo deve consi­derarsi come un essere immortale? Sapete voi che la parola immortalità non figura mai nell'Antico Testamento e compare solo due volte nel Nuovo? Già di per sé è un fatto che colpisce. Ed il senso che prende questa parola nel Nuovo Testamento lo è ancora di più. È detto chiaramente, (1 Timoteo 6:16) che Dio, non l'uomo, possiede l'immortalità, e in più che lui, il so­vrano unico, è l'unico a possederla; è evidentemente implicito che l'uomo non la possiede né come identità individuale, ne in una parte del suo esse­re, né originariamente, né per acquisizione di sorta… L'immortalità potrà arrivare all'uomo come un dono nuovo e immeritato: un libero dono di Colui che solo per essenza è immortale. Di questo parla il secondo passo menzio­nato: 1 Corinzi 15:33; si tratta qui della resurrezione dei morti come di un nuovo, libero atto di Dio in favore di tutti gli uomini, in forza del quale il loro "corpo mortale" - essi stessi in quanto totalmente mortali - "rivestirà" immortalità come un abito che prima e in sé non era affatto suo”.


Hans Bietenhard, teologo riformato, specialista del giudaismo intertestamentario e del tardo giudaismo, e delle loro relazioni con il Nuovo Testamento: “Forse è stato proprio il silenzio del NT sui particolari dell’aldilà e sulla situazione intermedia fino alla parusia che ha provocato la curiosità pseudodevozionale e ha fatto sì che non ci si accontentasse di porre la propria speranza in Cristo, ma ha condotto a pensare di dover completare le affermazioni della Scrittura con fantasie umane: il che, in definitiva, sta a dimostrare una mancanza di fede. A questo movimento ha contribuito anche il fatto che al posto della fede neotestamentaria nella risurrezione dei morti (1 Cor 15) è subentrata in certo senso la dottrina greca dell’immortalità dell’anima, che rimane tuttora opinione prevalente anche fra i cristiani, senza che si rendano conto veramente della profonda originalità della speranza cristiana”.


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PER APPROFONDIRE

Il sincretismo, nemico storico del Cristianesimo

L’inconcepibile risurrezione
Le perplessità dei greci

I tre rischi dell’occulto
Né creduloni né scettici
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Giochiamo a chi è più Chiesa


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