martedì 30 giugno 2009

William Miller, tra risveglio e conservazione

William Miller può a buona ragione essere considerato il fondatore dell’Avventismo americano. Non che prima di lui nessuno si fosse interessato al secondo avvento, ma certamente a lui va il merito di aver risvegliato nel vasto pubblico l’attenzione sull’argomento e d’aver creato intorno a sé un movimento che la “grande delusione” del 22 ottobre 1844 non bastò a disperdere. Il seme da lui piantato su un terreno in buona parte ostile con il tempo avrebbe comunque prodotto un frutto abbondante. La visione ottimistica di un mondo che si sarebbe convertito all’evangelo entro i prossimi secoli prima del ritorno di Cristo oggi è minoritaria e prevale l’insegnamento pre-millennarista di Miller che attende come imminente la venuta in gloria di Gesù che pone fine ad un mondo che sta per colmare la misura della propria ingiustizia. Nel 1997 l’Associated Press effettuò un sondaggio presso la popolazione cristiana degli Stati Uniti, dal quale emerse che quasi il quaranta per cento di chi si dichiarava cristiano attendeva il ritorno di Cristo entro il ventunesimo secolo.

Ma soprattutto Miller ha posto il fondamento teologico su cui hanno costruito le confessioni avventiste costituitesi dopo la sua morte, avvenuta nel 1849. Nella teologia milleriana fondamentale era il ruolo svolto dalla Bibbia. Egli era convinto che essa potesse essere pienamente compresa ed autosufficiente, che fosse la risposta alle umane necessità, e che rivelava il piano divino gettando luce sugli eventi futuri. La sua formazione razionalista, dovuta al trascorso retaggio deista, gli dava la convinzione che ogni passo della Bibbia avesse una sua ragion d'essere ed un ben preciso significato. Riferendosi al suo studio personale del sacro testo giunse a definirlo una “festa della ragione”. La sua predicazione riscuoteva successo perché egli conduceva i suoi ascoltatori passo passo attraverso il proprio ragionamento, procedendo per esclusione, finché non restava l’ultima opzione che era quella da lui sostenuta. Questo taglio razionale dato all’esposizione della Bibbia infuse tanta sicurezza negli ascoltatori da tradursi in una forza irresistibile.

Certamente, grazie a questa impostazione razionale data al suo approccio con le Scritture, il miglior contributo teologico che Miller lasciò in eredità all’avventismo fu il suo impianto escatologico. Esso non si limitava alla sola idea, sia pure di maggiore impatto, che Gesù sarebbe stato di ritorno all’incirca nel 1843; ma si articolava in un vero e proprio sistema interpretativo della Bibbia da una prospettiva storicistica, che era appunto quella più razionale. Le altre due letture, quella preterista e quella futurista, schiacciavano gli eventi predetti dalla profezia tutti in un passato possibilmente contemporaneo alla sua redazione o li proiettavano in un lontanissimo e indeterminabile futuro, il tutto perché non si credeva realmente nell’ispirazione soprannaturale dello scrittore biblico od anche per scongiurare scomode identificazioni di istituzioni, quali la chiesa di Roma o le chiese storiche della Riforma, con le figure simboliche decisamente negative descritte negli scenari apocalittici. La lettura storicistica delle profezie invece consentiva di scorgere lo svolgersi degli eventi narrati e anticipati nel racconto profetico, senza soluzione di continuità, dai giorni del profeta sino alla fine dei tempi. Oltre ad essere la più razionale, questa lettura, al contrario delle altre, non faceva violenza né al testo né alla ragion d’essere della stessa profezia. In tal modo, adoperando il principio giorno/anno, ben conosciuto sia dagli esegeti ebrei in età ellenistica sia da quelli cristiani dei primi secoli, egli lo applicò alle profezie cronologiche quali quella delle settanta settimane di Daniele 9, quella dei 2300 giorni/anni di Daniele 8:14; quella dei 1260 giorni (o dei tre tempi e mezzo) di Daniele 7:25, 12:7, e Apocalisse 12:14. Così facendo vi scorse una perfetta corrispondenza con gli eventi storici che andavano dai giorni di Daniele fino al tardo XVIII secolo per concludersi, infine, attorno all’anno 1843. Ne dedusse che tali periodi profetici puntassero tutti verso la seconda venuta di Gesù che egli intendeva in senso letterale, visibile e personale. La sua insistenza su un secondo avvento pre-millenniale di Gesù cozzava direttamente contro l’utopistico post-millennarismo di Charles Finney e d’altri predicatori suoi contemporanei. Miller poneva l’accento sul fatto che la parusia avrebbe comportato la distruzione con il fuoco dei malvagi e della stessa terra. La sua era una visione che non concedeva spazio alcuno ad una seconda possibilità di salvezza individuale o ad una futura conversione del mondo. Ogni possibilità di salvezza per il mondo sarebbe cessata con il secondo avvento. Allora i giusti morti sarebbero risuscitati per unirsi ai giusti viventi e vivere mille anni su una terra perfettamente restaurata.

Ironia volle che la predicazione innovativa di Miller si fondasse su elementi dottrinali che singolarmente presi erano tutt’altro che ignoti e incondivisi dalle singole teologie. Ciò che rendeva insolita la sua costruzione escatologica era il reciproco accostamento di tali elementi. Ciò faceva sì che i suoi ascoltatori rimanessero sorpresi dalle sue parole ma al contempo le afferrassero perfettamente. L’insegnamento di Miller, attentamente documentato da prove storiche e scritturali, non poteva lasciare indifferenti i sinceri ascoltatori; anzi, ne modificava radicalmente la visione del mondo, e suscitava in loro un tale senso d’urgenza da cambiare i loro obiettivi e il loro stile di vita.

Sebbene costretto dalla propria onestà intellettuale ad adottare uno schema escatologico ai suoi giorni non convenzionale, Miller rimase in fondo un tradizionalista legato alle proprie radici battiste. Questa contraddizione di fondo si rese soprattutto evidente in varie occasioni quando capitò che i membri del suo movimento, applicando il suo metodo e talvolta persino le sue intuizioni, raggiunsero posizioni in cui egli ebbe difficoltà a riconoscersi. Ciò valse sia per l’ambito profetico che per le altre dottrine. Il movimento millerita era infatti costruito su una formula innovativa le cui dinamiche non potevano essere previste neppure dal suo stesso fondatore. Tale formula consisteva fondamentalmente in due componenti identificabili nella Sola Scriptura e nell’apporto interconfessionale. La prima componente, in realtà, non era in sé innovativa: l’avevano infatti coniata le chiese della Riforma per distinguersi dal cattolicesimo che poneva la tradizione sullo stesso piano della Bibbia e di fatto toglieva a questa la funzione di “carta costituzionale” con cui confrontare ogni singola dottrina sorta in seno al cristianesimo, e spesso con il tempo modificatasi. Le chiese protestanti tuttavia s’illudevano d’essersi liberate dalla tradizione: lo dimostrava il fatto che erano tante, ognuna con un suo carattere ma anche con una propria teologia frequentemente in contrasto con le altre. Se la Bibbia è una, l’esistenza di molte teologie dimostrava che Sola Scriptura non veniva applicata con efficacia. Era impossibile che tutte fossero nel giusto rispetto all’insegnamento biblico. Non restavano che tre possibilità: che tutte fossero nell’errore, che tutte tranne una fossero nell’errore (che è poi la convinzione della maggior parte dei fedeli), che tutte presentassero un mix di verità ed errore, sempre rispetto all’insegnamento biblico. Quest’ultima possibilità, preso atto della natura limitata e contraddittoria della specie umana, appare come la più realistica. L’analisi storica testimonia infatti che le chiese protestanti si liberarono solo in parte delle tradizioni in contrasto con l’insegnamento biblico ed anzi perseguitarono i gruppi radicali, come gli anabattisti, perché sostenevano il ritorno alla dottrina della chiesa primitiva e per questo detti restituzionisti. Con il tempo le chiese protestanti svilupparono loro tradizioni specifiche, e ciò cristallizzò e irrigidì ulteriormente i loro credi. Nel momento in cui Miller applicava il principio della Sola Scriptura cercò di superare il suddetto limite, riuscendovi solo in parte. Egli infatti s’impose di studiare la Bibbia da capo a fondo, senza l’ausilio di alcun commentario, lasciando che essa si spiegasse da sé grazie al confronto dei passi paralleli. Questo metodo applicato allo studio delle profezie fece sì che egli fosse poco condizionato dalle interpretazioni allora maggiormente seguite, ma non per questo necessariamente corrette, scoprendo da sé quella chiave interpretativa che tanto successo determinò per la sua predicazione. Ma Miller non era un marziano che si avvicinava per la prima volta al cristianesimo. Per qualche tempo aveva aderito al deismo, ma proveniva da una famiglia di tradizione cristiana ed egli stesso era vissuto in un contesto culturalmente cristiano. E ciò non poteva lasciarlo del tutto libero da condizionamenti. Lo si è visto per l’enorme abbaglio che egli prese interpretando la profezia dei 2300 giorni/anni, ben compresa nel suo impianto generale ma fraintesa per l’evento finale che essa indicava, ovvero la purificazione del santuario. Ci è rimasta testimonianza del percorso che lo portò a dedurre che tale purificazione si riferisse alla catarsi della terra con il fuoco quando Cristo sarebbe tornato, così come l’apostolo Pietro aveva scritto: “I cieli e la terra attuali sono … riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi” (2Pt 3:7). Come sempre il suo fu un ragionamento logico, cercando pure di essere rispettoso del testo biblico. Egli indagò sul significato del santuario, quindi elencò e spiegò i sette oggetti che nella Bibbia sono designati con il nome di santuario: Gesù Cristo, il cielo, i giudei, il tempio di Gerusalemme, il luogo santissimo, la terra e la chiesa. Passò pertanto ad eliminare quelli che mal s’adattavano a chiarire il testo di Daniele 8:14. Non “Cristo, perché egli non è impuro”; non “il cielo, perché anch’esso non può dirsi impuro” e così di seguito, finché giunse alla conclusione che solo due cose definibili santuario potessero essere oggetto di purificazione, e “queste erano la terra e la chiesa”. Scelse la terra perché, in fondo, era l’opinione più diffusa. Ecco così che un’opinione che non aveva basi bibliche lo trattenne dall’approfondire lo studio del santuario che lo avrebbe indirizzato verso l’opzione del cielo che egli aveva invece scartato “perché anch’esso non può dirsi impuro”. Dico approfondire anziché documentarsi perché in realtà Miller la Bibbia l’aveva passata tutta al vaglio della propria indagine, ed aveva anche riflettuto sul cerimoniale del santuario in quanto tipologico del piano della salvezza e dell’azione redentrice di Cristo. Nel maggio del 1843, in una lettera ad Himes, egli notava la correlazione tipologica tra le cerimonie primaverili del santuario con la prima venuta di Cristo, e tra quelle autunnali con la sua seconda venuta. In queste ultime egli vide chiaramente il nesso tra il rito di purificazione del santuario compiuto dal sommo sacerdote e l’opera finale di Cristo al punto da ipotizzare come possibile una coincidenza anche temporale tra i due eventi (“Se ciò dovesse esser vero non vedremo la sua gloriosa apparizione fino al tempo dell’equinozio autunnale”). Poi, però, prevalsero altre considerazioni e solo lo studio di Samuel Snow, con molte resistenze, riuscì a convincerlo dell’importanza di questa correlazione. Miller stesso ammise alla vigilia del 22 ottobre 1844: “Dal punto di vista tipologico, un anno e mezzo fa non riuscivo a comprendere la forza di questi tipi profetici”. Ma nonostante questa confessione, egli non intraprese mai uno studio sistematico del santuario e si limitò ad accettare l’opinione tradizionale che il santuario da purificare nel tempo escatologico fosse la terra. E pensare che dei segnali che dovevano metterlo in allarme, anche ben prima della grande delusione, gli giunsero. Già nel 1840 Josiah Litch, uno dei suoi più stretti collaboratori, si dichiarò perplesso sulla coerenza di quest’interpretazione. Egli osservò che identificando la purificazione del santuario con la venuta di Cristo e con la distruzione dei malvagi si sarebbe saltato un passaggio fondamentale: il loro giudizio. Un giudizio processuale avrebbe pertanto dovuto precedere la risurrezione e l’esecuzione del giudizio. Quando poi il 22 ottobre Gesù effettivamente non tornò, la comunità millerita non fu lasciata senza luce; Hiram Edson ebbe la comprensione che il santuario da purificare non era la terra ma il santuario celeste di cui quello terreno era una copia, e che Gesù il 22 ottobre non doveva venire sulla terra bensì entrare nel luogo santissimo di quel santuario per compiere l’ultima incombenza prima del suo ritorno. Edson, a seguito di questa che egli credette essere una rivelazione, iniziò insieme ad altri due amici milleriti lo studio del santuario e scoprì che tutti i riti e le cerimonie del santuario terreno indicavano l’azione d’intercessione e di giudizio che il Figlio di Dio, il Sommo Sacerdote celeste, compiva per l’umanità. Il 22 ottobre pertanto Egli, pur non cessando la funzione d’intercessore, aveva assunto quella solenne di giudice; e l’evento indicato dalla profezia dei 2300 giorni/anni non indicava la fine del mondo ma l’inizio del tempo della fine; non l’esecuzione del giudizio ma l’inizio di quel giudizio processuale cui aveva già fatto riferimento Josiah Litch. Ovviamente il risultato di questo studio venne messo a disposizione della comunità millerita che, tuttavia, in genere lo accolse con scetticismo. A cominciare dallo stesso Miller. E così, respinta questa luce, egli, che era certo dei propri calcoli, non riuscì a capire dove stava l’errore. Mantenne tuttavia la fede nel ritorno di Gesù che continuò a ritenere imminente. Sola Scriptura veniva ostacolata dalla tradizione protestante; e Miller era in fondo un tradizionalista. Il suo stesso impianto escatologico, oltre ad essere condiviso da molti altri studiosi della cristianità, come abbiamo detto, non era originale nei suoi singoli elementi quanto piuttosto nel loro reciproco accostamento. Quest’atteggiamento di chiusura per ogni dottrina che esulava dalle tradizioni protestanti, a prescindere dal fatto che fosse o non fosse sorretta dal testo biblico, emerse fortemente dal Congresso di Albany che assunse una decisa valenza conservatrice allo scopo di ricompattare il movimento attorno ai tradizionali elementi della dottrina protestante. Da questa corrente maggioritaria del millerismo sorse la Chiesa Avventista Evangelica che tuttavia finì per estinguersi perché priva d’un messaggio realmente propositivo.

Significative furono le assenze al Congresso di Albany. Mancava George Storrs, che aveva diffuso tra i milleriti la dottrina dell’immortalità condizionata o del sonno dei morti. Mancava Enoch Jacobs, editore del Day Star di Cincinnati, che aveva pubblicato lo studio sul santuario elaborato da Edson, Crosier e Hahn. Mancava Joseph Bates che proprio quel mese aveva accolto la dottrina sul sabato. E qui veniamo a quel secondo elemento su cui era fondato il movimento millerita. Il primo, abbiamo detto, era il Sola Scriptura. Il millerismo era un movimento del “Libro”, e Miller sosteneva che la Bibbia era autorità a se stessa e per la persona che se ne nutriva direttamente. Mentre quando la base dell’autorità si fondava sul dogma, su altri individui o sui loro scritti allora era quest’autorità esterna che si faceva centrale, sostituendosi agli insegnamenti della Bibbia stessa. Josiah Litch, nel sintetizzare quest’approccio, affermò che il millerismo “ha dato alla chiesa e al mondo un sistema interpretativo del sacro canone semplice, chiaro, ricco di buon senso tanto che chiunque decida di leggere la Bibbia e ne confronti le varie parti, possa comprendere la parola di Dio” senza l’aiuto di una qualsiasi autorità erudita. Questo profondo e dignitoso rispetto per l’autorità dalla Bibbia, di tutta la Bibbia, è stata la principale e diretta eredità lasciata da Miller al proprio movimento. Anche se poi i condizionamenti determinati dalla tradizione extrabiblica protestante hanno rappresentato involontariamente un freno alla piena applicazione di questo principio. Un efficace correttivo a questa remora si rivelò il secondo elemento, di quella formula innovativa su cui fu edificato il movimento millerita, che abbiamo detto essere l’apporto interconfessionale. Il millerismo fu un movimento assolutamente interconfessionale, poiché i suoi membri vi trovarono pari dignità a prescindere dalla loro appartenenza denominazionale. Certamente l’unico tema che accomunava tutti e su cui c’era più accordo era quello escatologico; sulle altre dottrine, provenendo da tante confessioni, v’erano altrettante ragioni di reciproco dissenso. Ma essi godevano di un’insolita condizione di comunione e costituivano un’eccezionale rete sociale (un social network ante litteram) utile pure per far conoscere le rispettive specificità dottrinali. Molti milleriti avevano pagato di persona – con l’espulsione dalle loro chiese – la difesa di una specificità dottrinale non condivisa dalla teologia ufficiale della denominazione. Essi erano perciò più disponibili ad esaminare una dottrina per loro nuova prima di tacciarla di falsità; erano cioè meno disposti – così come in genere si fa – ad applicare a priori etichette di falsità alle credenze altrui. Se poi condividiamo la constatazione che ogni chiesa ha nel corso dei secoli accumulato errori ma anche maturato specifiche sensibilità e riflessioni, che l’hanno condotta a custodire o a riscoprire preziose verità dottrinali, allora comprendiamo quanto utile e irripetibile sia stata l’occasione vissuta dai milleriti di poter serenamente confrontarsi sui loro rispettivi sistemi dottrinali e di poter ripristinare principi di fede andati perduti da lungo tempo, almeno dalla maggioranza della cristianità.

Uno di questi principi è il condizionalismo, che ha finito per caratterizzare tutte le denominazioni avventiste. Altro non è che la dottrina dell’immortalità condizionata secondo cui i morti si trovano in uno stato d’incoscienza fino al giorno della risurrezione. Poiché l’uomo non possiede l’immortalità come qualità innata ma come dono per mezzo di Cristo, solo i giusti la riceveranno al momento della risurrezione mentre la punizione dei malvagi consisterà proprio in una completa e definitiva distruzione. Secondo prove bibliche e storiche questa era la credenza non solo dell’antico Israele ma anche della Chiesa primitiva. Poi ha prevalso il dualismo pagano dell’anima immortale, altro dal corpo mortale, e questa è diventata la norma di fede per la maggioranza della cristianità. Il condizionalismo fu posto all’attenzione dei milleriti dal movimento restituzionista della Christian Connection e, soprattutto, dal pastore metodista George Storrs che nel 1841 pubblicò i risultati dei suoi studi con il titolo An Inquiry: Are the Souls of the Wicked Immortal? In Six Sermons. Nel 1842 Storrs aderì al millerismo e si adoperò al suo interno per diffondere questa dottrina. Grazie alle sue capacità egli divenne uno dei più importanti ed apprezzati collaboratori di Miller ma il suo studio sull’immortalità condizionata sulle prime non ebbe un gran seguito. Tra i predicatori del movimento che vi aderirono possiamo annoverare Charles Fitch, quello che pronunciò il famoso sermone sull’uscita da Babilonia, ma non Miller, e Josiah Litch, addirittura, pubblicò un periodico dal titolo The Anti-Annihilationist proprio per opporvisi. Nel 1860 alcuni stretti seguaci di Miller che avevano abbracciato il condizionalismo, a cominciare da George Storrs, fondarono l’Associazione Cristiana Avventista che si contrapporrà ai maggioritari Avventisti Evangelici soprattutto su questo tema. E proprio questo tema sarà il principale impedimento ad ogni tentativo di unificare i due gruppi. Anche gli avventisti sabatisti aderirono a questa dottrina, molto prima del 1863 quando si costituirono in Chiesa Avventista del 7° Giorno. Pertanto, con l’estinzione degli avventisti evangelici, che furono inizialmente il gruppo maggioritario, tutti gli eredi del millerismo avevano abbracciato il condizionalismo.

Altro principio di fede portato all’attenzione dei milleriti è il riposo sabatico, e se ne fecero carico i Battisti del 7° Giorno, sorti in Inghilterra nel 1617. Il sabatismo si era diffuso in Inghilterra durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), ad opera degli unitariani e di alcuni anabattisti olandesi. Esso trovò terreno fertile probabilmente perché l’antica Chiesa celtica, (fondata alla fine del II secolo da missionari antiocheni, pertanto la chiesa autoctona delle isole britanniche), fino al medioevo e all’assimilazione forzata da parte della Chiesa di Roma aveva sempre osservato il sabato come giorno di riposo, così come era d’uso nella chiesa primitiva. Ancora alla vigilia della Riforma Protestante, vi erano molte comunità nelle Highland scozzesi che continuavano ad osservare il sabato. Non deve pertanto stupire il fatto che diversi movimenti protestanti nell'Inghilterra del XVII secolo, come gli indipendenti, i quinto-monarchisti e, appunto, parte dei battisti osservassero il sabato anziché la domenica. La prima comunità battista del 7° Giorno organizzata sul suolo americano risale al 1671, e in essa col tempo confluirono pure alcuni sabatisti provenienti dall’Europa continentale, soprattutto dalla Germania.

Primo a richiamare l’attenzione dei milleriti sull’osservanza del sabato, già nel 1841, fu J.A. Begg, uno scozzese studioso delle profezie che dall’anno precedente aveva cominciato a diffondere articoli e libri sull’argomento. Ma la Chiesa battista del 7° Giorno, che li aveva pubblicati, proprio in quel periodo aveva deciso di intervenire direttamente con un’azione evangelistica per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del sabato, in modo particolare i milleriti. Infatti nell’aprile del 1842 essa inviò un articolo alla rivista Signs of the Times che questa però scelse di non pubblicare. Nel 1843 la conferenza generale di quella Chiesa si sentì investita del "solenne dovere" di diffondere questa dottrina con una modalità più "aggressiva", e al contempo prese delle misure per tradurre in pratica tale proponimento. Gli sforzi che seguirono non furono vani, e nella sessione del 1844 essa ringraziò Dio per il fatto che nel "paese era nato un interesse ben più profondo ed esteso di quanto si fosse mai manifestato in passato su questo argomento". Parte di questo interesse si era diffuso tra i milleriti, al punto che il Sabbath Recorder - rivista ufficiale di quella Chiesa - riportava nel giugno del 1844 "che un consistente numero di coloro che attendono come imminente l'apparizione di Cristo, hanno abbracciato il settimo giorno cominciando ad osservarlo come giorno di riposo". Il Recorder proseguiva considerando che la fedeltà al riposo sabatico andava valutata come "la migliore preparazione" in vista dell'Avvento.

Non è possibile quantificare il numero di milleriti condotti al riposo sabatico dai battisti del 7° Giorno, e quindi cosa la loro rivista intendesse con “consistente numero” di credenti nell’avvento che nell’estate del 1844 osservava il sabato. È però evidente che in quei giorni vi fu dibattito all’interno della comunità millerita. Se ne fece portavoce la rivista Midnight Cry che nel settembre di quell’anno pubblicò alcuni articoli sull’argomento. La posizione assunta fu in qualche modo compromissoria, dimostrando che all’interno della stessa redazione si distinguevano differenti opinioni. In sostanza vi si affermava che, sebbene “molte persone” fossero convinte della necessità d’osservare il sabato, in realtà ai cristiani non è richiesta la santificazione di alcuna porzione di tempo. Tuttavia “se questa conclusione non fosse corretta, in tal caso, pensiamo che il settimo giorno sia il solo giorno per la cui osservanza esista una legge”, ovverosia uno specifico comandamento del Decalogo.

Quanto ai nomi dei battisti del 7° Giorno che si fecero tramite del loro messaggio con i milleriti, uno dei più significativi di cui è rimasta memoria è certamente quello di Rachel Oaks Preston. All’inizio del 1844 ella aveva accettato con entusiasmo il messaggio dell’avvento e frequentando il gruppo millerita di Washington, nel New Hampshire, aveva a sua volta trasmesso ad esso il messaggio del riposo sabatico in modo così convincente che nella primavera di quell'anno molti membri della suddetta comunità iniziarono ad osservare il settimo giorno. L'opera di questa zelante cristiana fu importante non solo per il notevole risultato conseguito presso la comunità di Washington, ma anche per gli ulteriori sviluppi che produsse. Infatti fu per l'influenza esercitata da questa comunità che il predicatore battista millerita Thomas M. Preble si convertì nell'estate del 1844 all'osservanza del sabato. Vi sono buoni motivi per ritenere che Preble non fosse estraneo al dibattito sul tema innescatosi nel mese di settembre sul Midnight Cry. Ma la vera messe, prodotta da quei semi piantati prima della grande delusione d'ottobre, cominciò a raccogliersi l'anno seguente. Lo stesso Preble vi giocò un ruolo considerevole. Egli infatti a fine febbraio del 1845 pubblicò un importante articolo sull'argomento del sabato, a cui fece subito dopo seguire un opuscolo dal titolo esplicito: A Tract, Showing That the Seventh Day Should Be Observed as the Sabbath, Instead of the First Day «According to the Commandment». Le pubblicazioni di Preble giunsero all'attenzione del millerita Joseph Bates che le lesse con grande attenzione e ne confrontò le prove portate con la Bibbia, convincendosi che essa non autorizzava alcun cambiamento del giorno di riposo dal sabato alla domenica. Altro che "favole giudaiche e comandamenti d'uomini, che distolgono dalla verità" con cui la maggioranza dei milleriti liquidava il sabato in occasione del meeting di Albany! Con questa scoperta di Bates, come vedremo, nasce di fatto l'avventismo del 7° Giorno.

Che Miller incontrasse delle difficoltà a cogliere e a far propri dei concetti dottrinali quando si discostavano dalla tradizione protestante è un dato di fatto. Egli stesso ammise questo conformismo quando sfidò i suoi detrattori a mostrargli dove si era discostato dai principi ritenuti in linea con l’interpretazione protestante della Bibbia. Ciò valeva sia per gli argomenti escatologici, che costituivano il suo principale oggetto di studio e di predicazione, sia per qualunque altro tema. Per quanto riguardava l’escatologia però il suo era un conformismo più illuminato, meno pedissequo rispetto alle opinioni correnti; tuttavia sarebbe eccessivo affermare che egli fosse un anticonformista. Sebbene non aderisse alla visione postmillennarista allora prevalente, egli si mosse nel solco premillennarista comunque ortodosso all’interno della teologia protestante, ed un tempo persino maggioritario. Miller fu figlio della sua epoca ed anche del luogo che lo aveva espresso. Possedeva una mente analitica e ordinata che gli consentì uno studio generalmente approfondito dell’argomento escatologico e una sistematizzazione logica e dettagliata della materia, ma, come abbiamo visto, egli non insegnò nulla di nuovo; altri prima di lui avevano previsto il secondo avvento di Cristo all’incirca per la metà del XIX secolo. A cominciare da Lutero, il padre della Riforma, che prima della sua morte (avvenuta nel 1546) affermava: “Io sono persuaso che il giorno del giudizio avverrà nel giro di trecento anni. Dio non vuole, Dio non può sopportare oltre questo mondo così empio”. Evidentemente l’indicazione precisa di Lutero dimostra che egli aveva meditato sulle profezie cronologiche di Daniele e Apocalisse. Ed un luterano, Johann Albecht Bengel, vissuto un secolo prima di Miller, dallo studio delle medesime profezie aveva anch’egli concluso che la fine era d’attendersi all’incirca per il 1836. Come abbiamo già detto, i calcoli di Bengel trovarono la completa adesione di John Wesley, il fondatore del metodismo, ovvero della confessione cristiana maggioritaria in America ai giorni di Miller. Bengel, come tanti altri, aveva adottato il metodo interpretativo del giorno equivalente ad un anno anche nella profezia dei 2300 giorni di Daniele 8. E un altro teologo tedesco, il calvinista Johann Philipp Petri (1718-1792), aveva osservato la stretta correlazione tra i capitoli 8 e 9 di Daniele, ovvero tra la profezia dei 2300 giorni e quella delle 70 settimane d’anni, e quindi del loro comune inizio dal decreto di ricostruzione di Gerusalemme emanato da Artaserse. Miller non aveva scoperto nulla di nuovo e il suo insegnamento riprendeva le intuizioni di teologi autorevoli.

Egli era figlio del suo tempo e della sua terra, dicevamo. Fu un protagonista e al contempo il prodotto di un entusiasmo apocalittico che scosse la Gran Bretagna e, al di là dell’oceano, la Nuova Inghilterra nella prima metà del XIX secolo. La Guerra Civile americana, la Rivoluzione Francese e i grandi risvegli che avevano investito l’America avevano acceso un forte interesse per l’indagine apocalittica. Si era appena adempiuta la profezia dei 1260 giorni/anni del capitolo 7 di Daniele, quella che determinava la lunghezza del potere temporale della Chiesa estesosi dal 538 (quando cessò il dominio dei Goti ariani in Italia) al 1798, quando per ordine del Direttorio papa Pio VI fu condotto prigioniero in Francia. Un fatto altamente simbolico poiché con la Francia rivoluzionaria si diffondeva in Europa il principio di separazione tra Chiesa e Stato. Quest’evento segnava un vero spartiacque tra il tempo delle coscienze coartate e quello della libera indagine sul testo biblico, compresi i libri profetici, a cominciare dal libro di Daniele, quando “molti lo consulteranno e la loro conoscenza crescerà” (Dn 12:4). E infatti, come per miracolo, molte persone in quei giorni furono attratte dallo studio delle profezie; e confortate dalla correttezza del principio giorno/anno, appena dimostrata dalla realizzazione della profezia dei 1260 giorni di Daniele 7, applicarono tale principio pure a Daniele 8, ovvero alla profezia dei 2300 giorni, e vi fu una forte convergenza sul tempo e sulla natura dell’evento finale da essa indicato. La maggior parte, infatti, vi vedeva il secondo avvento di Cristo e lo collocava all’incirca a metà del XIX secolo. Sebbene quell’evento non si verificasse ancora per quel tempo previsto, o forse più correttamente non fosse quello l’evento da attendere allora, il fatto che lo si proclamasse e che fosse imposto con forza all’attenzione dell’opinione pubblica non può essere considerato una circostanza fortuita. Qualcuno ha fatto notare che quando la Chiesa trascura una dottrina fondamentale, questa suole riproporsi a tempo debito all’attenzione della Chiesa con impeto irresistibile. Avvenne così nel XVI secolo con la dottrina della giustificazione per fede, e altrettanto avvenne nel XIX secolo con la trascuratissima dottrina del ritorno di Cristo.

Miller si pose alla guida di questo zelo escatologico, in ciò aiutato dal clima che si respirava nel suo contesto territoriale di riferimento che era la Nuova Inghilterra e la parte settentrionale dello Stato di New York. Clima alimentato non solo dalle notizie di guerre e di rivoluzioni, cioè dai paurosi eventi di carattere sociale scatenatisi in quegli anni, ma anche dagli straordinari eventi nel mondo fisico associati dalla profezia biblica al “grande giorno della resa dei conti”, per usare un’espressione di Miller. Ci riferiamo allo spaventoso terremoto di Lisbona del 1755, al giorno oscuro e alla luna sanguigna del 1780, e alla stupefacente pioggia meteorica del 1833, a due anni dall’inizio del suo ministero pubblico. “Ci fu allora un forte terremoto. Il sole diventò scuro, come panno da lutto, e la luna diventò color sangue. Le stelle del cielo caddero sulla terra…” (Apocalisse 6:12,13,17). Soprattutto quest’ultimo fenomeno catalizzò l’attenzione sulla predicazione di Miller, percepita come autorevole e in grado di accendere l’immaginazione delle assemblee. In tale contesto possiamo vedere il maggiore contributo consapevole di quest’uomo di fede: nella sua azione volta a indirizzare le menti e i cuori dei suoi concittadini verso il miglior bagaglio della dottrina protestante classica. Qui sta la sua grandezza e, se vogliamo, anche il suo limite.
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Qualcuno ha paragonato l’opera di questo servitore di Dio a quella di Giovanni Battista: l’ultimo profeta del vecchio ordine che ha preparato la strada al nuovo patto. Miller non fu un profeta, se non nel senso molto lato di portavoce della Parola. Eppure ha senso attribuirgli il ruolo di traghettatore, sia pure inconsapevole, tra due modi diversi d’intendere la religione: quello settario che difende ciecamente e ad oltranza il bagaglio ereditato dai padri, e quello “ecumenico” del confronto con altre culture cristiane, di una continua ricerca di quella verità che pur trasmessa una volta per tutte alla Chiesa apostolica (cf. Gd 3) non sempre è stata subito capita e spesso con i secoli ha subito alterazioni. William Miller fu animato da un profondo spirito ecumenico ed ebbe in odio il settarismo, al punto di desiderare intensamente che l’evangelo potesse stagliarsi libero da ogni laccio settario. Questo spirito interconfessionale passò così bene al suo movimento che in parte ne provocò il dissolvimento poiché molti suoi seguaci, riluttanti a costituirsi in una nuova chiesa, preferirono riconfluire nelle loro chiese d’origine. Altri ancora, invece, di questo spirito ecumenico colsero l’opportunità del confronto e del reciproco arricchimento. Questo secondo atteggiamento, indotto da Miller ma che egli non fu in grado di seguire sino in fondo, finì per costituire la vera forza del movimento da lui fondato; ed anche l’indispensabile premessa in vista del ritorno di Cristo. Quella protestante infatti fu una riforma parziale, che non era stata in grado di liberarsi di alcuni gravi errori dottrinali perché allora non percepiti o per compromesso con il potere civile che allora la sosteneva. Fu un vero e proprio limite strutturale dovuto ad una diversa impostazione metodologica ben percepibile, ad esempio, dal confronto dialettico intercorso tra Lutero e il suo professore Carlostadio. Lutero sosteneva che era utile conservare del cattolicesimo tutto ciò che non fosse esplicitamente vietato dalla Bibbia, la posizione di Carlostadio era invece quella di rigettare del cattolicesimo ogni aspetto che non trovasse l’esplicito sostegno dell’insegnamento biblico. Quest’ultima posizione, benché radicale, era però l’unica coerente con la pretesa del protestantesimo di attenersi nelle sue dottrine alla Sola Scriptura. Di conseguenza, mancando questo rigido vaglio, restarono nel protestantesimo, che si pretendeva riformato, non pochi errori dottrinali che si erano accumulati nel cristianesimo con il trascorrere dei secoli prevalentemente assimilati dai culti pagani. Errori quali lo stato cosciente dei morti, e la loro immediata retribuzione, che hanno aperto la strada al culto dei morti e agli inganni dello spiritismo. La credenza in queste dottrine sarà particolarmente pericolosa in prossimità del ritorno di Cristo quando è detto che Satana preparerà terribili inganni che sedurrebbero “se fosse possibile anche gli eletti” (Mc 13:22). Ecco perché è importante che la Chiesa presente agli eventi immediatamente precedenti al ritorno di Cristo, in quel momento più che mai, sia pienamente tornata in possesso degli insegnamenti originali della Parola di Dio. William Miller non colse l’importanza e la necessità di questo processo, però involontariamente ne gettò le basi, e in ciò bisogna scorgere la mano della Provvidenza che si avvalse anche in ciò dell’opera di questo cristiano sincero.

Per approfondire: William Miller e l'attesa del Secondo Avvento

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