martedì 30 giugno 2009

William Miller, tra risveglio e conservazione

William Miller può a buona ragione essere considerato il fondatore dell’Avventismo americano. Non che prima di lui nessuno si fosse interessato al secondo avvento, ma certamente a lui va il merito di aver risvegliato nel vasto pubblico l’attenzione sull’argomento e d’aver creato intorno a sé un movimento che la “grande delusione” del 22 ottobre 1844 non bastò a disperdere. Il seme da lui piantato su un terreno in buona parte ostile con il tempo avrebbe comunque prodotto un frutto abbondante. La visione ottimistica di un mondo che si sarebbe convertito all’evangelo entro i prossimi secoli prima del ritorno di Cristo oggi è minoritaria e prevale l’insegnamento pre-millennarista di Miller che attende come imminente la venuta in gloria di Gesù che pone fine ad un mondo che sta per colmare la misura della propria ingiustizia. Nel 1997 l’Associated Press effettuò un sondaggio presso la popolazione cristiana degli Stati Uniti, dal quale emerse che quasi il quaranta per cento di chi si dichiarava cristiano attendeva il ritorno di Cristo entro il ventunesimo secolo.

Ma soprattutto Miller ha posto il fondamento teologico su cui hanno costruito le confessioni avventiste costituitesi dopo la sua morte, avvenuta nel 1849. Nella teologia milleriana fondamentale era il ruolo svolto dalla Bibbia. Egli era convinto che essa potesse essere pienamente compresa ed autosufficiente, che fosse la risposta alle umane necessità, e che rivelava il piano divino gettando luce sugli eventi futuri. La sua formazione razionalista, dovuta al trascorso retaggio deista, gli dava la convinzione che ogni passo della Bibbia avesse una sua ragion d'essere ed un ben preciso significato. Riferendosi al suo studio personale del sacro testo giunse a definirlo una “festa della ragione”. La sua predicazione riscuoteva successo perché egli conduceva i suoi ascoltatori passo passo attraverso il proprio ragionamento, procedendo per esclusione, finché non restava l’ultima opzione che era quella da lui sostenuta. Questo taglio razionale dato all’esposizione della Bibbia infuse tanta sicurezza negli ascoltatori da tradursi in una forza irresistibile.

Certamente, grazie a questa impostazione razionale data al suo approccio con le Scritture, il miglior contributo teologico che Miller lasciò in eredità all’avventismo fu il suo impianto escatologico. Esso non si limitava alla sola idea, sia pure di maggiore impatto, che Gesù sarebbe stato di ritorno all’incirca nel 1843; ma si articolava in un vero e proprio sistema interpretativo della Bibbia da una prospettiva storicistica, che era appunto quella più razionale. Le altre due letture, quella preterista e quella futurista, schiacciavano gli eventi predetti dalla profezia tutti in un passato possibilmente contemporaneo alla sua redazione o li proiettavano in un lontanissimo e indeterminabile futuro, il tutto perché non si credeva realmente nell’ispirazione soprannaturale dello scrittore biblico od anche per scongiurare scomode identificazioni di istituzioni, quali la chiesa di Roma o le chiese storiche della Riforma, con le figure simboliche decisamente negative descritte negli scenari apocalittici. La lettura storicistica delle profezie invece consentiva di scorgere lo svolgersi degli eventi narrati e anticipati nel racconto profetico, senza soluzione di continuità, dai giorni del profeta sino alla fine dei tempi. Oltre ad essere la più razionale, questa lettura, al contrario delle altre, non faceva violenza né al testo né alla ragion d’essere della stessa profezia. In tal modo, adoperando il principio giorno/anno, ben conosciuto sia dagli esegeti ebrei in età ellenistica sia da quelli cristiani dei primi secoli, egli lo applicò alle profezie cronologiche quali quella delle settanta settimane di Daniele 9, quella dei 2300 giorni/anni di Daniele 8:14; quella dei 1260 giorni (o dei tre tempi e mezzo) di Daniele 7:25, 12:7, e Apocalisse 12:14. Così facendo vi scorse una perfetta corrispondenza con gli eventi storici che andavano dai giorni di Daniele fino al tardo XVIII secolo per concludersi, infine, attorno all’anno 1843. Ne dedusse che tali periodi profetici puntassero tutti verso la seconda venuta di Gesù che egli intendeva in senso letterale, visibile e personale. La sua insistenza su un secondo avvento pre-millenniale di Gesù cozzava direttamente contro l’utopistico post-millennarismo di Charles Finney e d’altri predicatori suoi contemporanei. Miller poneva l’accento sul fatto che la parusia avrebbe comportato la distruzione con il fuoco dei malvagi e della stessa terra. La sua era una visione che non concedeva spazio alcuno ad una seconda possibilità di salvezza individuale o ad una futura conversione del mondo. Ogni possibilità di salvezza per il mondo sarebbe cessata con il secondo avvento. Allora i giusti morti sarebbero risuscitati per unirsi ai giusti viventi e vivere mille anni su una terra perfettamente restaurata.

Ironia volle che la predicazione innovativa di Miller si fondasse su elementi dottrinali che singolarmente presi erano tutt’altro che ignoti e incondivisi dalle singole teologie. Ciò che rendeva insolita la sua costruzione escatologica era il reciproco accostamento di tali elementi. Ciò faceva sì che i suoi ascoltatori rimanessero sorpresi dalle sue parole ma al contempo le afferrassero perfettamente. L’insegnamento di Miller, attentamente documentato da prove storiche e scritturali, non poteva lasciare indifferenti i sinceri ascoltatori; anzi, ne modificava radicalmente la visione del mondo, e suscitava in loro un tale senso d’urgenza da cambiare i loro obiettivi e il loro stile di vita.

Sebbene costretto dalla propria onestà intellettuale ad adottare uno schema escatologico ai suoi giorni non convenzionale, Miller rimase in fondo un tradizionalista legato alle proprie radici battiste. Questa contraddizione di fondo si rese soprattutto evidente in varie occasioni quando capitò che i membri del suo movimento, applicando il suo metodo e talvolta persino le sue intuizioni, raggiunsero posizioni in cui egli ebbe difficoltà a riconoscersi. Ciò valse sia per l’ambito profetico che per le altre dottrine. Il movimento millerita era infatti costruito su una formula innovativa le cui dinamiche non potevano essere previste neppure dal suo stesso fondatore. Tale formula consisteva fondamentalmente in due componenti identificabili nella Sola Scriptura e nell’apporto interconfessionale. La prima componente, in realtà, non era in sé innovativa: l’avevano infatti coniata le chiese della Riforma per distinguersi dal cattolicesimo che poneva la tradizione sullo stesso piano della Bibbia e di fatto toglieva a questa la funzione di “carta costituzionale” con cui confrontare ogni singola dottrina sorta in seno al cristianesimo, e spesso con il tempo modificatasi. Le chiese protestanti tuttavia s’illudevano d’essersi liberate dalla tradizione: lo dimostrava il fatto che erano tante, ognuna con un suo carattere ma anche con una propria teologia frequentemente in contrasto con le altre. Se la Bibbia è una, l’esistenza di molte teologie dimostrava che Sola Scriptura non veniva applicata con efficacia. Era impossibile che tutte fossero nel giusto rispetto all’insegnamento biblico. Non restavano che tre possibilità: che tutte fossero nell’errore, che tutte tranne una fossero nell’errore (che è poi la convinzione della maggior parte dei fedeli), che tutte presentassero un mix di verità ed errore, sempre rispetto all’insegnamento biblico. Quest’ultima possibilità, preso atto della natura limitata e contraddittoria della specie umana, appare come la più realistica. L’analisi storica testimonia infatti che le chiese protestanti si liberarono solo in parte delle tradizioni in contrasto con l’insegnamento biblico ed anzi perseguitarono i gruppi radicali, come gli anabattisti, perché sostenevano il ritorno alla dottrina della chiesa primitiva e per questo detti restituzionisti. Con il tempo le chiese protestanti svilupparono loro tradizioni specifiche, e ciò cristallizzò e irrigidì ulteriormente i loro credi. Nel momento in cui Miller applicava il principio della Sola Scriptura cercò di superare il suddetto limite, riuscendovi solo in parte. Egli infatti s’impose di studiare la Bibbia da capo a fondo, senza l’ausilio di alcun commentario, lasciando che essa si spiegasse da sé grazie al confronto dei passi paralleli. Questo metodo applicato allo studio delle profezie fece sì che egli fosse poco condizionato dalle interpretazioni allora maggiormente seguite, ma non per questo necessariamente corrette, scoprendo da sé quella chiave interpretativa che tanto successo determinò per la sua predicazione. Ma Miller non era un marziano che si avvicinava per la prima volta al cristianesimo. Per qualche tempo aveva aderito al deismo, ma proveniva da una famiglia di tradizione cristiana ed egli stesso era vissuto in un contesto culturalmente cristiano. E ciò non poteva lasciarlo del tutto libero da condizionamenti. Lo si è visto per l’enorme abbaglio che egli prese interpretando la profezia dei 2300 giorni/anni, ben compresa nel suo impianto generale ma fraintesa per l’evento finale che essa indicava, ovvero la purificazione del santuario. Ci è rimasta testimonianza del percorso che lo portò a dedurre che tale purificazione si riferisse alla catarsi della terra con il fuoco quando Cristo sarebbe tornato, così come l’apostolo Pietro aveva scritto: “I cieli e la terra attuali sono … riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione degli empi” (2Pt 3:7). Come sempre il suo fu un ragionamento logico, cercando pure di essere rispettoso del testo biblico. Egli indagò sul significato del santuario, quindi elencò e spiegò i sette oggetti che nella Bibbia sono designati con il nome di santuario: Gesù Cristo, il cielo, i giudei, il tempio di Gerusalemme, il luogo santissimo, la terra e la chiesa. Passò pertanto ad eliminare quelli che mal s’adattavano a chiarire il testo di Daniele 8:14. Non “Cristo, perché egli non è impuro”; non “il cielo, perché anch’esso non può dirsi impuro” e così di seguito, finché giunse alla conclusione che solo due cose definibili santuario potessero essere oggetto di purificazione, e “queste erano la terra e la chiesa”. Scelse la terra perché, in fondo, era l’opinione più diffusa. Ecco così che un’opinione che non aveva basi bibliche lo trattenne dall’approfondire lo studio del santuario che lo avrebbe indirizzato verso l’opzione del cielo che egli aveva invece scartato “perché anch’esso non può dirsi impuro”. Dico approfondire anziché documentarsi perché in realtà Miller la Bibbia l’aveva passata tutta al vaglio della propria indagine, ed aveva anche riflettuto sul cerimoniale del santuario in quanto tipologico del piano della salvezza e dell’azione redentrice di Cristo. Nel maggio del 1843, in una lettera ad Himes, egli notava la correlazione tipologica tra le cerimonie primaverili del santuario con la prima venuta di Cristo, e tra quelle autunnali con la sua seconda venuta. In queste ultime egli vide chiaramente il nesso tra il rito di purificazione del santuario compiuto dal sommo sacerdote e l’opera finale di Cristo al punto da ipotizzare come possibile una coincidenza anche temporale tra i due eventi (“Se ciò dovesse esser vero non vedremo la sua gloriosa apparizione fino al tempo dell’equinozio autunnale”). Poi, però, prevalsero altre considerazioni e solo lo studio di Samuel Snow, con molte resistenze, riuscì a convincerlo dell’importanza di questa correlazione. Miller stesso ammise alla vigilia del 22 ottobre 1844: “Dal punto di vista tipologico, un anno e mezzo fa non riuscivo a comprendere la forza di questi tipi profetici”. Ma nonostante questa confessione, egli non intraprese mai uno studio sistematico del santuario e si limitò ad accettare l’opinione tradizionale che il santuario da purificare nel tempo escatologico fosse la terra. E pensare che dei segnali che dovevano metterlo in allarme, anche ben prima della grande delusione, gli giunsero. Già nel 1840 Josiah Litch, uno dei suoi più stretti collaboratori, si dichiarò perplesso sulla coerenza di quest’interpretazione. Egli osservò che identificando la purificazione del santuario con la venuta di Cristo e con la distruzione dei malvagi si sarebbe saltato un passaggio fondamentale: il loro giudizio. Un giudizio processuale avrebbe pertanto dovuto precedere la risurrezione e l’esecuzione del giudizio. Quando poi il 22 ottobre Gesù effettivamente non tornò, la comunità millerita non fu lasciata senza luce; Hiram Edson ebbe la comprensione che il santuario da purificare non era la terra ma il santuario celeste di cui quello terreno era una copia, e che Gesù il 22 ottobre non doveva venire sulla terra bensì entrare nel luogo santissimo di quel santuario per compiere l’ultima incombenza prima del suo ritorno. Edson, a seguito di questa che egli credette essere una rivelazione, iniziò insieme ad altri due amici milleriti lo studio del santuario e scoprì che tutti i riti e le cerimonie del santuario terreno indicavano l’azione d’intercessione e di giudizio che il Figlio di Dio, il Sommo Sacerdote celeste, compiva per l’umanità. Il 22 ottobre pertanto Egli, pur non cessando la funzione d’intercessore, aveva assunto quella solenne di giudice; e l’evento indicato dalla profezia dei 2300 giorni/anni non indicava la fine del mondo ma l’inizio del tempo della fine; non l’esecuzione del giudizio ma l’inizio di quel giudizio processuale cui aveva già fatto riferimento Josiah Litch. Ovviamente il risultato di questo studio venne messo a disposizione della comunità millerita che, tuttavia, in genere lo accolse con scetticismo. A cominciare dallo stesso Miller. E così, respinta questa luce, egli, che era certo dei propri calcoli, non riuscì a capire dove stava l’errore. Mantenne tuttavia la fede nel ritorno di Gesù che continuò a ritenere imminente. Sola Scriptura veniva ostacolata dalla tradizione protestante; e Miller era in fondo un tradizionalista. Il suo stesso impianto escatologico, oltre ad essere condiviso da molti altri studiosi della cristianità, come abbiamo detto, non era originale nei suoi singoli elementi quanto piuttosto nel loro reciproco accostamento. Quest’atteggiamento di chiusura per ogni dottrina che esulava dalle tradizioni protestanti, a prescindere dal fatto che fosse o non fosse sorretta dal testo biblico, emerse fortemente dal Congresso di Albany che assunse una decisa valenza conservatrice allo scopo di ricompattare il movimento attorno ai tradizionali elementi della dottrina protestante. Da questa corrente maggioritaria del millerismo sorse la Chiesa Avventista Evangelica che tuttavia finì per estinguersi perché priva d’un messaggio realmente propositivo.

Significative furono le assenze al Congresso di Albany. Mancava George Storrs, che aveva diffuso tra i milleriti la dottrina dell’immortalità condizionata o del sonno dei morti. Mancava Enoch Jacobs, editore del Day Star di Cincinnati, che aveva pubblicato lo studio sul santuario elaborato da Edson, Crosier e Hahn. Mancava Joseph Bates che proprio quel mese aveva accolto la dottrina sul sabato. E qui veniamo a quel secondo elemento su cui era fondato il movimento millerita. Il primo, abbiamo detto, era il Sola Scriptura. Il millerismo era un movimento del “Libro”, e Miller sosteneva che la Bibbia era autorità a se stessa e per la persona che se ne nutriva direttamente. Mentre quando la base dell’autorità si fondava sul dogma, su altri individui o sui loro scritti allora era quest’autorità esterna che si faceva centrale, sostituendosi agli insegnamenti della Bibbia stessa. Josiah Litch, nel sintetizzare quest’approccio, affermò che il millerismo “ha dato alla chiesa e al mondo un sistema interpretativo del sacro canone semplice, chiaro, ricco di buon senso tanto che chiunque decida di leggere la Bibbia e ne confronti le varie parti, possa comprendere la parola di Dio” senza l’aiuto di una qualsiasi autorità erudita. Questo profondo e dignitoso rispetto per l’autorità dalla Bibbia, di tutta la Bibbia, è stata la principale e diretta eredità lasciata da Miller al proprio movimento. Anche se poi i condizionamenti determinati dalla tradizione extrabiblica protestante hanno rappresentato involontariamente un freno alla piena applicazione di questo principio. Un efficace correttivo a questa remora si rivelò il secondo elemento, di quella formula innovativa su cui fu edificato il movimento millerita, che abbiamo detto essere l’apporto interconfessionale. Il millerismo fu un movimento assolutamente interconfessionale, poiché i suoi membri vi trovarono pari dignità a prescindere dalla loro appartenenza denominazionale. Certamente l’unico tema che accomunava tutti e su cui c’era più accordo era quello escatologico; sulle altre dottrine, provenendo da tante confessioni, v’erano altrettante ragioni di reciproco dissenso. Ma essi godevano di un’insolita condizione di comunione e costituivano un’eccezionale rete sociale (un social network ante litteram) utile pure per far conoscere le rispettive specificità dottrinali. Molti milleriti avevano pagato di persona – con l’espulsione dalle loro chiese – la difesa di una specificità dottrinale non condivisa dalla teologia ufficiale della denominazione. Essi erano perciò più disponibili ad esaminare una dottrina per loro nuova prima di tacciarla di falsità; erano cioè meno disposti – così come in genere si fa – ad applicare a priori etichette di falsità alle credenze altrui. Se poi condividiamo la constatazione che ogni chiesa ha nel corso dei secoli accumulato errori ma anche maturato specifiche sensibilità e riflessioni, che l’hanno condotta a custodire o a riscoprire preziose verità dottrinali, allora comprendiamo quanto utile e irripetibile sia stata l’occasione vissuta dai milleriti di poter serenamente confrontarsi sui loro rispettivi sistemi dottrinali e di poter ripristinare principi di fede andati perduti da lungo tempo, almeno dalla maggioranza della cristianità.

Uno di questi principi è il condizionalismo, che ha finito per caratterizzare tutte le denominazioni avventiste. Altro non è che la dottrina dell’immortalità condizionata secondo cui i morti si trovano in uno stato d’incoscienza fino al giorno della risurrezione. Poiché l’uomo non possiede l’immortalità come qualità innata ma come dono per mezzo di Cristo, solo i giusti la riceveranno al momento della risurrezione mentre la punizione dei malvagi consisterà proprio in una completa e definitiva distruzione. Secondo prove bibliche e storiche questa era la credenza non solo dell’antico Israele ma anche della Chiesa primitiva. Poi ha prevalso il dualismo pagano dell’anima immortale, altro dal corpo mortale, e questa è diventata la norma di fede per la maggioranza della cristianità. Il condizionalismo fu posto all’attenzione dei milleriti dal movimento restituzionista della Christian Connection e, soprattutto, dal pastore metodista George Storrs che nel 1841 pubblicò i risultati dei suoi studi con il titolo An Inquiry: Are the Souls of the Wicked Immortal? In Six Sermons. Nel 1842 Storrs aderì al millerismo e si adoperò al suo interno per diffondere questa dottrina. Grazie alle sue capacità egli divenne uno dei più importanti ed apprezzati collaboratori di Miller ma il suo studio sull’immortalità condizionata sulle prime non ebbe un gran seguito. Tra i predicatori del movimento che vi aderirono possiamo annoverare Charles Fitch, quello che pronunciò il famoso sermone sull’uscita da Babilonia, ma non Miller, e Josiah Litch, addirittura, pubblicò un periodico dal titolo The Anti-Annihilationist proprio per opporvisi. Nel 1860 alcuni stretti seguaci di Miller che avevano abbracciato il condizionalismo, a cominciare da George Storrs, fondarono l’Associazione Cristiana Avventista che si contrapporrà ai maggioritari Avventisti Evangelici soprattutto su questo tema. E proprio questo tema sarà il principale impedimento ad ogni tentativo di unificare i due gruppi. Anche gli avventisti sabatisti aderirono a questa dottrina, molto prima del 1863 quando si costituirono in Chiesa Avventista del 7° Giorno. Pertanto, con l’estinzione degli avventisti evangelici, che furono inizialmente il gruppo maggioritario, tutti gli eredi del millerismo avevano abbracciato il condizionalismo.

Altro principio di fede portato all’attenzione dei milleriti è il riposo sabatico, e se ne fecero carico i Battisti del 7° Giorno, sorti in Inghilterra nel 1617. Il sabatismo si era diffuso in Inghilterra durante il regno di Elisabetta I (1558-1603), ad opera degli unitariani e di alcuni anabattisti olandesi. Esso trovò terreno fertile probabilmente perché l’antica Chiesa celtica, (fondata alla fine del II secolo da missionari antiocheni, pertanto la chiesa autoctona delle isole britanniche), fino al medioevo e all’assimilazione forzata da parte della Chiesa di Roma aveva sempre osservato il sabato come giorno di riposo, così come era d’uso nella chiesa primitiva. Ancora alla vigilia della Riforma Protestante, vi erano molte comunità nelle Highland scozzesi che continuavano ad osservare il sabato. Non deve pertanto stupire il fatto che diversi movimenti protestanti nell'Inghilterra del XVII secolo, come gli indipendenti, i quinto-monarchisti e, appunto, parte dei battisti osservassero il sabato anziché la domenica. La prima comunità battista del 7° Giorno organizzata sul suolo americano risale al 1671, e in essa col tempo confluirono pure alcuni sabatisti provenienti dall’Europa continentale, soprattutto dalla Germania.

Primo a richiamare l’attenzione dei milleriti sull’osservanza del sabato, già nel 1841, fu J.A. Begg, uno scozzese studioso delle profezie che dall’anno precedente aveva cominciato a diffondere articoli e libri sull’argomento. Ma la Chiesa battista del 7° Giorno, che li aveva pubblicati, proprio in quel periodo aveva deciso di intervenire direttamente con un’azione evangelistica per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del sabato, in modo particolare i milleriti. Infatti nell’aprile del 1842 essa inviò un articolo alla rivista Signs of the Times che questa però scelse di non pubblicare. Nel 1843 la conferenza generale di quella Chiesa si sentì investita del "solenne dovere" di diffondere questa dottrina con una modalità più "aggressiva", e al contempo prese delle misure per tradurre in pratica tale proponimento. Gli sforzi che seguirono non furono vani, e nella sessione del 1844 essa ringraziò Dio per il fatto che nel "paese era nato un interesse ben più profondo ed esteso di quanto si fosse mai manifestato in passato su questo argomento". Parte di questo interesse si era diffuso tra i milleriti, al punto che il Sabbath Recorder - rivista ufficiale di quella Chiesa - riportava nel giugno del 1844 "che un consistente numero di coloro che attendono come imminente l'apparizione di Cristo, hanno abbracciato il settimo giorno cominciando ad osservarlo come giorno di riposo". Il Recorder proseguiva considerando che la fedeltà al riposo sabatico andava valutata come "la migliore preparazione" in vista dell'Avvento.

Non è possibile quantificare il numero di milleriti condotti al riposo sabatico dai battisti del 7° Giorno, e quindi cosa la loro rivista intendesse con “consistente numero” di credenti nell’avvento che nell’estate del 1844 osservava il sabato. È però evidente che in quei giorni vi fu dibattito all’interno della comunità millerita. Se ne fece portavoce la rivista Midnight Cry che nel settembre di quell’anno pubblicò alcuni articoli sull’argomento. La posizione assunta fu in qualche modo compromissoria, dimostrando che all’interno della stessa redazione si distinguevano differenti opinioni. In sostanza vi si affermava che, sebbene “molte persone” fossero convinte della necessità d’osservare il sabato, in realtà ai cristiani non è richiesta la santificazione di alcuna porzione di tempo. Tuttavia “se questa conclusione non fosse corretta, in tal caso, pensiamo che il settimo giorno sia il solo giorno per la cui osservanza esista una legge”, ovverosia uno specifico comandamento del Decalogo.

Quanto ai nomi dei battisti del 7° Giorno che si fecero tramite del loro messaggio con i milleriti, uno dei più significativi di cui è rimasta memoria è certamente quello di Rachel Oaks Preston. All’inizio del 1844 ella aveva accettato con entusiasmo il messaggio dell’avvento e frequentando il gruppo millerita di Washington, nel New Hampshire, aveva a sua volta trasmesso ad esso il messaggio del riposo sabatico in modo così convincente che nella primavera di quell'anno molti membri della suddetta comunità iniziarono ad osservare il settimo giorno. L'opera di questa zelante cristiana fu importante non solo per il notevole risultato conseguito presso la comunità di Washington, ma anche per gli ulteriori sviluppi che produsse. Infatti fu per l'influenza esercitata da questa comunità che il predicatore battista millerita Thomas M. Preble si convertì nell'estate del 1844 all'osservanza del sabato. Vi sono buoni motivi per ritenere che Preble non fosse estraneo al dibattito sul tema innescatosi nel mese di settembre sul Midnight Cry. Ma la vera messe, prodotta da quei semi piantati prima della grande delusione d'ottobre, cominciò a raccogliersi l'anno seguente. Lo stesso Preble vi giocò un ruolo considerevole. Egli infatti a fine febbraio del 1845 pubblicò un importante articolo sull'argomento del sabato, a cui fece subito dopo seguire un opuscolo dal titolo esplicito: A Tract, Showing That the Seventh Day Should Be Observed as the Sabbath, Instead of the First Day «According to the Commandment». Le pubblicazioni di Preble giunsero all'attenzione del millerita Joseph Bates che le lesse con grande attenzione e ne confrontò le prove portate con la Bibbia, convincendosi che essa non autorizzava alcun cambiamento del giorno di riposo dal sabato alla domenica. Altro che "favole giudaiche e comandamenti d'uomini, che distolgono dalla verità" con cui la maggioranza dei milleriti liquidava il sabato in occasione del meeting di Albany! Con questa scoperta di Bates, come vedremo, nasce di fatto l'avventismo del 7° Giorno.

Che Miller incontrasse delle difficoltà a cogliere e a far propri dei concetti dottrinali quando si discostavano dalla tradizione protestante è un dato di fatto. Egli stesso ammise questo conformismo quando sfidò i suoi detrattori a mostrargli dove si era discostato dai principi ritenuti in linea con l’interpretazione protestante della Bibbia. Ciò valeva sia per gli argomenti escatologici, che costituivano il suo principale oggetto di studio e di predicazione, sia per qualunque altro tema. Per quanto riguardava l’escatologia però il suo era un conformismo più illuminato, meno pedissequo rispetto alle opinioni correnti; tuttavia sarebbe eccessivo affermare che egli fosse un anticonformista. Sebbene non aderisse alla visione postmillennarista allora prevalente, egli si mosse nel solco premillennarista comunque ortodosso all’interno della teologia protestante, ed un tempo persino maggioritario. Miller fu figlio della sua epoca ed anche del luogo che lo aveva espresso. Possedeva una mente analitica e ordinata che gli consentì uno studio generalmente approfondito dell’argomento escatologico e una sistematizzazione logica e dettagliata della materia, ma, come abbiamo visto, egli non insegnò nulla di nuovo; altri prima di lui avevano previsto il secondo avvento di Cristo all’incirca per la metà del XIX secolo. A cominciare da Lutero, il padre della Riforma, che prima della sua morte (avvenuta nel 1546) affermava: “Io sono persuaso che il giorno del giudizio avverrà nel giro di trecento anni. Dio non vuole, Dio non può sopportare oltre questo mondo così empio”. Evidentemente l’indicazione precisa di Lutero dimostra che egli aveva meditato sulle profezie cronologiche di Daniele e Apocalisse. Ed un luterano, Johann Albecht Bengel, vissuto un secolo prima di Miller, dallo studio delle medesime profezie aveva anch’egli concluso che la fine era d’attendersi all’incirca per il 1836. Come abbiamo già detto, i calcoli di Bengel trovarono la completa adesione di John Wesley, il fondatore del metodismo, ovvero della confessione cristiana maggioritaria in America ai giorni di Miller. Bengel, come tanti altri, aveva adottato il metodo interpretativo del giorno equivalente ad un anno anche nella profezia dei 2300 giorni di Daniele 8. E un altro teologo tedesco, il calvinista Johann Philipp Petri (1718-1792), aveva osservato la stretta correlazione tra i capitoli 8 e 9 di Daniele, ovvero tra la profezia dei 2300 giorni e quella delle 70 settimane d’anni, e quindi del loro comune inizio dal decreto di ricostruzione di Gerusalemme emanato da Artaserse. Miller non aveva scoperto nulla di nuovo e il suo insegnamento riprendeva le intuizioni di teologi autorevoli.

Egli era figlio del suo tempo e della sua terra, dicevamo. Fu un protagonista e al contempo il prodotto di un entusiasmo apocalittico che scosse la Gran Bretagna e, al di là dell’oceano, la Nuova Inghilterra nella prima metà del XIX secolo. La Guerra Civile americana, la Rivoluzione Francese e i grandi risvegli che avevano investito l’America avevano acceso un forte interesse per l’indagine apocalittica. Si era appena adempiuta la profezia dei 1260 giorni/anni del capitolo 7 di Daniele, quella che determinava la lunghezza del potere temporale della Chiesa estesosi dal 538 (quando cessò il dominio dei Goti ariani in Italia) al 1798, quando per ordine del Direttorio papa Pio VI fu condotto prigioniero in Francia. Un fatto altamente simbolico poiché con la Francia rivoluzionaria si diffondeva in Europa il principio di separazione tra Chiesa e Stato. Quest’evento segnava un vero spartiacque tra il tempo delle coscienze coartate e quello della libera indagine sul testo biblico, compresi i libri profetici, a cominciare dal libro di Daniele, quando “molti lo consulteranno e la loro conoscenza crescerà” (Dn 12:4). E infatti, come per miracolo, molte persone in quei giorni furono attratte dallo studio delle profezie; e confortate dalla correttezza del principio giorno/anno, appena dimostrata dalla realizzazione della profezia dei 1260 giorni di Daniele 7, applicarono tale principio pure a Daniele 8, ovvero alla profezia dei 2300 giorni, e vi fu una forte convergenza sul tempo e sulla natura dell’evento finale da essa indicato. La maggior parte, infatti, vi vedeva il secondo avvento di Cristo e lo collocava all’incirca a metà del XIX secolo. Sebbene quell’evento non si verificasse ancora per quel tempo previsto, o forse più correttamente non fosse quello l’evento da attendere allora, il fatto che lo si proclamasse e che fosse imposto con forza all’attenzione dell’opinione pubblica non può essere considerato una circostanza fortuita. Qualcuno ha fatto notare che quando la Chiesa trascura una dottrina fondamentale, questa suole riproporsi a tempo debito all’attenzione della Chiesa con impeto irresistibile. Avvenne così nel XVI secolo con la dottrina della giustificazione per fede, e altrettanto avvenne nel XIX secolo con la trascuratissima dottrina del ritorno di Cristo.

Miller si pose alla guida di questo zelo escatologico, in ciò aiutato dal clima che si respirava nel suo contesto territoriale di riferimento che era la Nuova Inghilterra e la parte settentrionale dello Stato di New York. Clima alimentato non solo dalle notizie di guerre e di rivoluzioni, cioè dai paurosi eventi di carattere sociale scatenatisi in quegli anni, ma anche dagli straordinari eventi nel mondo fisico associati dalla profezia biblica al “grande giorno della resa dei conti”, per usare un’espressione di Miller. Ci riferiamo allo spaventoso terremoto di Lisbona del 1755, al giorno oscuro e alla luna sanguigna del 1780, e alla stupefacente pioggia meteorica del 1833, a due anni dall’inizio del suo ministero pubblico. “Ci fu allora un forte terremoto. Il sole diventò scuro, come panno da lutto, e la luna diventò color sangue. Le stelle del cielo caddero sulla terra…” (Apocalisse 6:12,13,17). Soprattutto quest’ultimo fenomeno catalizzò l’attenzione sulla predicazione di Miller, percepita come autorevole e in grado di accendere l’immaginazione delle assemblee. In tale contesto possiamo vedere il maggiore contributo consapevole di quest’uomo di fede: nella sua azione volta a indirizzare le menti e i cuori dei suoi concittadini verso il miglior bagaglio della dottrina protestante classica. Qui sta la sua grandezza e, se vogliamo, anche il suo limite.
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Qualcuno ha paragonato l’opera di questo servitore di Dio a quella di Giovanni Battista: l’ultimo profeta del vecchio ordine che ha preparato la strada al nuovo patto. Miller non fu un profeta, se non nel senso molto lato di portavoce della Parola. Eppure ha senso attribuirgli il ruolo di traghettatore, sia pure inconsapevole, tra due modi diversi d’intendere la religione: quello settario che difende ciecamente e ad oltranza il bagaglio ereditato dai padri, e quello “ecumenico” del confronto con altre culture cristiane, di una continua ricerca di quella verità che pur trasmessa una volta per tutte alla Chiesa apostolica (cf. Gd 3) non sempre è stata subito capita e spesso con i secoli ha subito alterazioni. William Miller fu animato da un profondo spirito ecumenico ed ebbe in odio il settarismo, al punto di desiderare intensamente che l’evangelo potesse stagliarsi libero da ogni laccio settario. Questo spirito interconfessionale passò così bene al suo movimento che in parte ne provocò il dissolvimento poiché molti suoi seguaci, riluttanti a costituirsi in una nuova chiesa, preferirono riconfluire nelle loro chiese d’origine. Altri ancora, invece, di questo spirito ecumenico colsero l’opportunità del confronto e del reciproco arricchimento. Questo secondo atteggiamento, indotto da Miller ma che egli non fu in grado di seguire sino in fondo, finì per costituire la vera forza del movimento da lui fondato; ed anche l’indispensabile premessa in vista del ritorno di Cristo. Quella protestante infatti fu una riforma parziale, che non era stata in grado di liberarsi di alcuni gravi errori dottrinali perché allora non percepiti o per compromesso con il potere civile che allora la sosteneva. Fu un vero e proprio limite strutturale dovuto ad una diversa impostazione metodologica ben percepibile, ad esempio, dal confronto dialettico intercorso tra Lutero e il suo professore Carlostadio. Lutero sosteneva che era utile conservare del cattolicesimo tutto ciò che non fosse esplicitamente vietato dalla Bibbia, la posizione di Carlostadio era invece quella di rigettare del cattolicesimo ogni aspetto che non trovasse l’esplicito sostegno dell’insegnamento biblico. Quest’ultima posizione, benché radicale, era però l’unica coerente con la pretesa del protestantesimo di attenersi nelle sue dottrine alla Sola Scriptura. Di conseguenza, mancando questo rigido vaglio, restarono nel protestantesimo, che si pretendeva riformato, non pochi errori dottrinali che si erano accumulati nel cristianesimo con il trascorrere dei secoli prevalentemente assimilati dai culti pagani. Errori quali lo stato cosciente dei morti, e la loro immediata retribuzione, che hanno aperto la strada al culto dei morti e agli inganni dello spiritismo. La credenza in queste dottrine sarà particolarmente pericolosa in prossimità del ritorno di Cristo quando è detto che Satana preparerà terribili inganni che sedurrebbero “se fosse possibile anche gli eletti” (Mc 13:22). Ecco perché è importante che la Chiesa presente agli eventi immediatamente precedenti al ritorno di Cristo, in quel momento più che mai, sia pienamente tornata in possesso degli insegnamenti originali della Parola di Dio. William Miller non colse l’importanza e la necessità di questo processo, però involontariamente ne gettò le basi, e in ciò bisogna scorgere la mano della Provvidenza che si avvalse anche in ciò dell’opera di questo cristiano sincero.

Per approfondire: William Miller e l'attesa del Secondo Avvento

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domenica 15 marzo 2009

Il segreto di Pollyanna

Cara Barbara, eccomi qui pronto ad accorrere nella speranza di lenire quel senso di angoscia che traspare incontenibile dalle tue parole. Avrai visto quel film di Walt Disney, che ritrasmettono di tanto in tanto in tivù, "Il segreto di Pollyanna". Pollyanna è una ragazzina orfana che va a vivere dalla sorella del padre - la zia Polly - che accoglie la piccola più per senso del dovere che per amore. Zia Polly è una donna ricca di soldi ma povera di sentimenti. L'educazione severa e la repressione della sfera affettiva l'avevano resa fredda e insensibile. Quel che era peggio, lei che possedeva mezzo paese, influenzava lo stato d'animo e i comportamenti dell'intera comunità a cominciare dal sermone della domenica che imponeva al pavido reverendo Ford (interpretato da un impagabile Karl Malden). Ogni volta era la solita predica sulla severità di Dio che si sarebbe tradotta nell'inevitabile condanna per quegli uomini peccatori. È facile immaginare lo stato d'animo dei fedeli quando uscivano dalla chiesa! Questa impostazione della religione non era condivisa da Pollyanna che era cresciuta in un ambiente semplice e sereno. Il padre, che era missionario in Africa, le aveva insegnato che nella Bibbia ricorrono 800 "passaggi felici", cioè 800 testi che incoraggiano gli uomini a non indulgere nella tristezza. "E se Dio per 800 volte ci ha chiesto di essere felici - osservava egli - deve aver voluto che lo fossimo davvero". Un giorno Pollyanna andò a trovare il reverendo Ford e vide che preparava uno dei suoi terribili sermoni, decise così di farlo partecipe di quanto il padre le aveva insegnato. L'uomo rimase profondamente colpito dalle parole della ragazzina e trascorse l'intera notte a rileggersi la Bibbia per verificarne la veridicità. L'indomani, salito sul pulpito, con la sorpresa e il disappunto di zia Polly, iniziò il suo sermone commentando un versetto del libro apocrifo di Siracide: "La gioia del cuore è vita per l'uomo", tratto dal passo che riporto di seguito:

21 Non abbandonarti alla tristezza,
non tormentarti con i tuoi pensieri.
22 La gioia del cuore è vita per l’uomo,
l’allegria di un uomo è lunga vita.
23 Distrai la tua anima, consola il tuo cuore,
tieni lontana la malinconia.
La malinconia ha rovinato molti,
da essa non si ricava nulla di buono.
Siracide, capitolo 30

Egli chiese scusa alla comunità dei fedeli per averli involontariamente tormentati tutti quegli anni e promise loro che da allora, ogni domenica, avrebbe letto uno degli 826 "testi felici" che la notte prima aveva contato nella Bibbia.

Pollyanna aveva tutti i motivi per piangersi addosso, a cominciare dalla tragedia della perdita dei genitori nel momento in cui ne avrebbe ancora avuto tanto bisogno. Ma essi avevano comunque fatto in tempo a trasmetterle questa visione positiva della vita che ne fece addirittura uno strumento per cambiare in meglio un intero paese, compresa l'impossibile zia Polly.


Una tazza di tè

“Da un po’ di tempo mi ritrovo a pensare che diventare grande mi piace. Quand’ero piccola ero convinta che a una certa età (intorno ai venti) le persone perdessero qualcosa lasciando per sempre il mondo della fantasia, dei giochi e, dunque, del piacere. Invece no, non è andata così. Certo, sono ancora convinta che ci siano tanti adulti che quel mondo l’hanno dimenticato. Hanno confuso il lavoro, gli affari, il fare accanito con il piacere, ma forse hanno solo fatto un baratto, una confusione. Ognuno gioca a modo suo, in fondo. Però a me non è capitato, e sono ogni giorno grata alla vita per questo. Diventare grande per me è stato conservare vecchi piaceri ed acquistarne di nuovi; appropriarmi fino in fondo - o quasi - del mio libero arbitrio, senza timori di sembrare scema per questo e senza il buffo senso del dovere che colpisce molti trentenni e che spinge a mostrare di essere cresciuti e maturi con uno stakanovismo che logora. Essere diventata una donna è per me cercare di mettere passione e buonumore nelle cose che faccio, dal cucinare all’ insegnare ai bambini, dal prendere il treno ogni mattina all’accettare con paziente filosofia le mie buffe disgrazie (tipo l’ennesima caduta dalle scale). E’ cercare di applicare il più possibile il segreto di Pollyanna, che cercava di vedere un senso in ogni fatto della vita e il buono nel pessimo. I miei piaceri sono ancora i giochi per il gusto di giocare, ma sono anche le letture appassionanti, un film che fa pensare, o apprezzare un paesaggio incantevole, che sia racchiuso in un viaggio o tra i contorni della mia finestra. E’ scoprirmi zia e guardare il mondo con gli occhi nuovi che dà soltanto l’innamorarsi dello sguardo di un bambino. Ma il vero, nuovo piacere della mia età adulta è tutto intorno a un tavolo. Sopra, ci sono tre tazze piene di tè fumante, un pacco di biscotti e una zuccheriera. Intorno, le mie inseparabili amiche. Con loro la vita scorre rassicurante, i problemi sembrano meno spigolosi, ogni cosa si ricopre di morbida umanità. Il pomeriggio passa veloce, il tè si raffredda e in un batter d’occhio arriva l’ora di andare. Quando ci salutiamo, non vedo l’ora che arrivi presto una prossima volta, perché le cose da dirsi aumentano in maniera proporzionale al tempo che scorre e che non basta mai”.


È tutto un bluff

Quel che intendevo comunicarti con la mia riflessione sulla storia di Pollyanna che, certo, è solo un film, tratto da un romanzo (di Eleanor Porter), ma che tuttavia contiene un insegnamento profondamente vero. Il mondo è crudele e insanabilmente ingiusto, ma ciononostante il pessimismo è un atteggiamento che può radicarsi in noi solo con il nostro consenso. Perché? Perché almeno la metà delle cose che ci circondano sono belle e buone. E come dice il proverbio, pessimista è colui che, di fronte al bicchiere riempito a metà, ignora la metà piena e si sofferma sulla parte vuota. Ma per noi cristiani c'è una ragione ancora più valida per essere ottimisti: noi sappiamo che Cristo ha vinto per noi il mondo. Satana è il principe di questo mondo, un mondo modellato a sua immagine. Egli spinge gli uomini a lasciar perdere i valori morali, e a ricercare il piacere fine a se stesso, le ricchezze, il potere, la gloria e la fama. A qualsiasi costo, anche quello di perdere la nostra dignità e di recare sofferenza a coloro che ci circondano. E noi come tanti babbei abbocchiamo alle sue lusinghe. Lo fece anche con Gesù ma gli andò male. E ora la sua rabbia è infinita perché sa che il suo squallido potere ha le ore contate. In Apocalisse è scritto che "egli sa di non aver che breve tempo" (12,12) e quindi va in giro con la rabbia e la voglia di uccidere "di un leone affamato" (1 Pt 5,8). Ma contro di noi, che confidiamo nella protezione di Cristo e a lui e al nostro buon Padre celeste ci affidiamo nelle nostre preghiere, le sue armi sono spuntate. Ci sono momenti in cui egli opprime il nostro cuore, cerca di scoraggiarci, di spaventarci, ma è tutto un bluff. È sbagliato prestargli ascolto. Quando ti capita, Barbara, di sentirti così non stare ad ascoltarlo e corri dal tuo Dio a chiedergli d'essere liberata. E credimi, te lo dico per averlo provato, egli ti libererà sempre. Gli ordinerà di lasciarti in pace. Talvolta questa liberazione attenderà un poco, talaltra avverrà in un attimo, in un istante, e allora comprenderai chiaramente che quella visione pessimistica della realtà e i pensieri lugubri sul tuo futuro altro non erano che suggestioni di cui egli t'inondava... appunto un bluff. Gesù non vuole che viviamo con tristezza il percorso di salvezza. È un percorso faticoso, talvolta doloroso, ma non infelice. Le prove e le difficoltà sono uno strumento di cui il nostro buon Dio si serve per farci crescere, ma assieme ad esse Egli ci dà la capacità di sostenerle. Dobbiamo accettarle perché necessarie. Se noi allontaniamo il calice della prova o rifiutiamo di berlo tutto, fino in fondo, lo costringiamo a riproporcelo di nuovo pieno, perché berlo è indispensabile per renderci cittadini del Cielo. Ma se ci affidiamo a lui e accettiamo il suo programma, Egli sa come gestire questo programma; sa che prova darci, come darcela e quando darcela. Non ha senso che ci preoccupiamo per le difficoltà attraverso le quali dovremo passare. Sicuramente ci andrà bene perché Egli è onnipotente: neppure un passero cade a terra se Egli non lo consente (Mt 10,29) figuriamoci se può accadere a noi che valiamo infinitamente di più (v. 31). E non stiamo a preoccuparci per le prove future, Egli ci consiglia. "Per ogni giorno basta la sua pena" (Mt 6,34). Ma la vita non è fatta solo di prove. Se noi confideremo in lui, Egli non ci farà mai mancare il necessario, ci colmerà di benedizioni, prima d'ogni altra la sua amicizia e la sua presenza, che avvertiremo come una grande pace presente nella nostra casa e nel nostro cuore. Ecco il perché degli 826 "testi felici" contenuti nella Bibbia. Gesù vuole che la nostra gioia sia perfetta (Gv 15,11). Egli c'invita a portare a Dio le nostre preoccupazioni, i nostri desideri e le nostre richieste perché Egli ci darà tutto quel che gli domanderemo nel suo nome (16,23) così la nostra gioia sarà perfetta (v. 24). E quando, nella nostra limitatezza, gli domandiamo qualcosa che ci farebbe del male, Egli, che ci ama e che può dare solo cose buone ai suoi figli, ci darà in cambio qualcos'altro di meglio e non ci rimanderà mai indietro a mani vuote. Satana vuol farci credere che Dio è insensibile alle nostre necessità più profonde, che Egli vive nel cielo e che poco conosce e capisce delle nostre esigenze. Ma questo non è assolutamente vero. La verità è che Satana è profondamente invidioso della posizione che noi occupiamo nel cuore del nostro Padre celeste. Egli si è ribellato al suo Creatore e ha disprezzato il suo amore; gli ha perfino fatto guerra ed è riuscito a sedurre un terzo degli angeli del cielo che ha trasformato nei demoni suoi accoliti. Il loro destino, per loro stessa volontà, è segnato. Noi uomini, invece, quelli che ci affideremo al piano di Dio, stiamo percorrendo il percorso inverso: dall'inferno di questo mondo saremo condotti nelle delizie del Paradiso. Saremo come gli angeli, Gesù ci ha rivelato (Lc 20,36), e in un certo senso prenderemo il posto degli angeli caduti e del loro principe malvagio. Una ragione in più per odiarci e per cercare di rovinarci. Ma a dispetto della sua rabbia, il nostro è un destino glorioso e di questo, se non altro in segno di gratitudine, dobbiamo rallegrarci. "Fratelli, vivete nella gioia" (2 Cor 13,11) è l'esortazione di Paolo. Le sue lettere sono piene dell'invito ad essere allegri. Perché quindi, Barbara, considerare questa vita una condanna? Lasciamo che lo pensi la gente senza speranza, che vive centrata su se stessa, all'insegna dell'egoismo e dell'indifferenza nei confronti del prossimo. Noi, invece, "aspettiamo che si manifesti la gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo. Egli è la nostra gioia e la nostra speranza" (Tito 2,13).

Il brano dal titolo "Una tazza di tè" è riportato da un blog. Una donna pensa al suo percorso di vita, ed è contenta d'essere rimasta un po' fanciulla "senza timori di sembrare scema". Oggi la maggior parte degli adulti confonde la maturità con l'iperattività, condannandosi ad attraversare la vita in un fare accanito e logorante, senza accorgersi delle piccole gioie che la quotidianità offre a chi sa fermarsi per coglierle. Perfino le disgrazie, prese con filosofia e con il giusto distacco possono considerarsi "buffe". Diventare donna è anche cogliere il segreto di Pollyanna, "che cercava di vedere un senso in ogni fatto della vita e il buono nel pessimo". Un caro saluto.

Barbara, è una cara amica di Firenze. Una ragazza provata che una notte, oppressa dalle sue angosce, ha voluto aprirmi il suo cuore. Ho voluto pubblicare la lettera, che le avevo indirizzato in risposta, perché tutti in realtà portiamo le nostre prove e, di tanto in tanto, siamo colti da un momento di sconforto. E, chissà, magari questa riflessione aiuterà qualcuno a sentire più lievi le prove della vita; possibilmente facendosi a sua volta tramite di conforto per altri ancora che insieme a Barbara, a me e a lui percorrono l’aspro sentiero della vita. Sentiero che comunque non è mai solo cosparso di spine e che, per quanto lungo possa sembrare, non è mai così lungo da soverchiarci senza il nostro consenso.

sabato 28 febbraio 2009

L'Angelo di Bull Run

Che vi sia una relazione particolarmente stretta e privilegiata tra le guerre e l’attività dei demoni è un fatto intuitivo, diremmo assiomatico. Infatti la guerra è il contesto più pertinente per scatenare gl’istinti più brutali delle persone, per causare molta sofferenza, per distruggere molte vite umane e per precludere a tanti l’accesso all’eterna felicità. Satana odia gli uomini e li disprezza, perché pur possedendo una natura a lui inferiore sono chiamati a quella vita gloriosa da lui irrimediabilmente perduta. Soprattutto egli odia Dio che lo ha smascherato e gli ha impedito di realizzare il suo folle e tirannico progetto di dominio sull’universo. Ogni sofferenza che egli infligge, ed ogni vita che distrugge, è soprattutto un dolore che arreca a Dio, e ciò gli procura una gioia infernale. Non è un sentimento incomprensibile, il suo. Durante le varie pulizie etniche degli anni novanta nella ex Yugoslavia, capitava di leggere sui muri delle case distrutte, tra i cadaveri dei civili assassinati: “Viva la Guerra!”. Per i malvagi la guerra non è una triste incombenza ma un piacere liberatorio.

Il fatto che Satana sia il principale autore delle guerre non fa, tuttavia, di Dio un testimone passivo. Al contrario, proprio per le pesanti conseguenze che esse comportano, Egli vigila e interviene attivamente. Nel racconto biblico, ove si solleva il velo dell’azione soprannaturale, quest’intervento viene spesso mostrato. Anzitutto esso si concretizza nell’impedire che alla guerra si giunga. Al capitolo 7 di Apocalisse si parla espressamente di angeli che trattengono i venti di guerra, nella fattispecie per consentire la messa in salvo spirituale di tutti coloro che si schierano dalla parte del bene. Dio protegge i popoli dalla calamità della guerra finché non hanno colmato la misura della loro ribellione. D’altra parte, quando tale misura è superata, Egli può decidere che proprio la guerra sia la modalità per castigare o persino per distruggere una nazione. Avvenne così con le genti di Canaan, tecnologicamente avanzate per quel tempo, ma moralmente corrotte, al punto di praticare il sacrificio umano dei propri figli (cf 2Re 3:27). Strumento di questo castigo può essere un popolo fedele (come nel caso d’Israele), ma può essere un altro popolo infedele, così come fu dell’Assiria: “Dice il Signore: «L'Assiria! Per me è un bastone per punire, una verga per castigare. Mando l'Assiria contro una nazione empia, che ha suscitato la mia collera. La mando a saccheggiare, a depredare e a calpestare questo popolo, come il fango della strada». Ma gli Assiri hanno in mente altri piani di guerra. Sono decisi a distruggere una nazione dopo l'altra. Essi si vantano e dicono: «Ogni nostro comandante vale quanto un re! Abbiamo conquistato le città di Calne e di Carchemis. La città di Camat è stata presa e così pure Arpad, Samaria e Damasco. Abbiamo annientato questi regni che fanno più idoli di Gerusalemme e di Samaria. Come abbiamo distrutto Samaria e tutti i suoi idoli, faremo lo stesso a Gerusalemme e a tutte le statue adorate dai suoi abitanti». Ma dice il Signore: «Quando avrò finito con il monte Sion e con Gerusalemme, punirò anche il re di Assiria per il suo orgoglio e la sua presunzione». Infatti il re di Assiria si vanta dicendo: «Ho fatto tutto questo da solo. Sono forte, saggio e intelligente. Ho spostato i confini delle nazioni e ho saccheggiato i loro tesori. Con la mia potenza ho abbattuto quei popoli” (Is 10:5-13). L’Assiria pensava d’agire per proprio merito e forza, quando invece era solo uno strumento (cf v. 15), e alla fine dovette a sua volta rispondere per i crimini commessi.

La pace è un dono celeste. Quando una nazione si corrompe e lo Spirito di Dio si ritira da essa, la guerra in quanto antitesi della pace, portata da altri uomini e incitata dai demoni, è spesso l’inevitabile conseguenza del degrado morale in cui quella nazione è precipitata. Comunque Dio non dà in appalto le guerre. Egli consente e controlla direttamente l’intero processo. Dal suo giudizio, come giustamente osservava Agostino, dipende sia la durata che l’esito dei conflitti. Se lo ritiene opportuno, interviene direttamente per produrre il risultato da lui voluto. Il racconto biblico si riferisce spesso a questi interventi soprannaturali, anche scendendo nei dettagli. Possiamo portare diversi esempi, cominciando proprio dall’Assiria che aveva finito per attribuire i suoi successi ai propri meriti. Sennacherib aveva fatto prendere d’assedio Gerusalemme e cominciò a terrorizzare i suoi abitanti con parole che la dicevano lunga sulla sua presunzione: «Ascoltate il messaggio del gran re, il re d'Assiria: Attenti a non lasciarvi ingannare da Ezechia. Egli non è in grado di liberarvi dal mio assalto! E non lasciatevi convincere da lui a confidare nel Signore. Egli vi dirà che il Signore vi salverà e che questa città non cadrà nelle mani del re d'Assiria, ma voi non dategli retta. Ascoltate invece le parole del re d'Assiria: Arrendetevi al mio successo; così ognuno potrà mangiare la sua uva e i suoi fichi e bere l'acqua del suo pozzo, fino a quando non verrò a prendervi per portarvi in una terra simile alla vostra, una terra che produce frumento e mosto, che ha pane e vigne. Non date ascolto a Ezechia; egli vi inganna, dicendovi che il Signore vi libererà. Gli dèi degli altri popoli hanno forse liberato i loro territori dalla mano del re d'Assiria? Dove sono gli dèi di Camat e di Arpad? E quelli di Sefarvaim? Hanno forse liberato Samaria dalla mia mano? Nessun dio di nessuna nazione ha mai liberato il suo territorio dalla mia mano! Perché il Signore dovrebbe salvare Gerusalemme?» (Is 36:13-20). Re Ezechia, con lo spirito di chi è attaccato e deriso dall’esercito più potente della terra, chiese aiuto in preghiera al suo Dio e tramite il profeta Isaia ricevette una risposta rassicurante. Infatti “quella stessa notte un angelo del Signore fece morire centottantacinquemila uomini dell’esercito assiro. Al mattino quando gli altri si alzarono, non videro altro che cadaveri” (37:36). D’improvviso Sennacherib perse la boria, la sicurezza e il rispetto della sua gente. Se ne tornò a Ninive come un cane bastonato e qui fu ucciso dai suoi stessi figli. La corruzione di Gerusalemme non aveva ancora raggiunto il culmine e Dio, ascoltando la supplica del suo popolo, salvò la città con un intervento prodigioso. Qualcosa di analogo accadde sotto il regno di Giosafat; Ammoniti, Moabiti ed Edomiti si erano coalizzati e stavano marciando contro Giuda con un grandissimo esercito. Allora Giosafat radunò gli abitanti di Giuda davanti al tempio e pregò il Signore perché intervenisse in aiuto del suo popolo. Mentre l’assemblea era riunita, lo Spirito del Signore scese su Iacaziel, un levita del gruppo di Asaf, che cominciò a parlare: “Voi tutti, abitanti di Gerusalemme e di Giuda, e tu, re Giosafat, ascoltate quel che dice il Signore: Non temete e non perdetevi di coraggio di fronte a questo immenso esercito: non sarete voi a combattere, ma Dio stesso” (2Cro 20:15). L’indomani l’esercito di Giuda andò incontro ai nemici. Quando i cantori intonarono l’inno “Lodate il Signore perché eterno è il suo amore”, accadde qualcosa di straordinario. “Il Signore sconvolse di sorpresa Ammoniti, Moabiti ed Edomiti che stavano marciando contro l'esercito di Giuda. Cominciarono a combattersi tra di loro. Ammoniti e Moabiti si lanciarono contro gli Edomiti fino ad ucciderli e sterminarli tutti; quando gli Edomiti furono finiti, gli altri si misero a massacrarsi tra di loro. Intanto gli uomini del regno di Giuda erano giunti sulla collina dalla quale si poteva vedere il deserto. Essi guardavano dove si trovava l'esercito nemico e non videro altro che cadaveri stesi a terra: non c'era nessun superstite” (vv. 22-24). Quest’avvenimento richiama in qualche modo l’impresa di Gedeone contro l’esercito di Madian. Quando in trecento si limitarono a suonare le trombe: allora “i Madianiti si misero a correre da una parte e dall'altra, urlavano di paura e cercavano di fuggire… il Signore gettò nel panico tutto l'accampamento, e i Madianiti si colpirono l'un l'altro con la spada. Infine, tutto l'esercito prese la fuga” (Gd 7:21,22). Quello di gettare nel panico l’esercito nemico e indurlo alla fuga è una prassi ricorrente dell’intervento soprannaturale per condizionare l’esito della battaglia e della stessa guerra. Così avvenne ad esempio quando Ben-Adad, re di Aram, pose Samaria sotto assedio. La situazione s’era fatta critica per la mancanza di cibo, ma il profeta Eliseo annunziò la liberazione della città per il giorno seguente. E così avvenne, per intervento soprannaturale. “Era successo che, per tutto l'accampamento arameo, il Signore aveva fatto sentire un rumore simile all'avvicinamento di un grande esercito con carri e cavalli. Gli Aramei avevano pensato: «Il re d'Israele ha pagato il re degli Ittiti e quello degli Egiziani perché ci attacchino». Perciò, verso sera, si erano dati alla fuga, lasciando l'accampamento come si trovava; avevano abbandonato tende, cavalli e armi. Pur di salvare la vita, erano scappati” (2Re 7:6,7). Gli uomini avvezzi alle cose di Dio sapevano bene che quanto grande potesse essere un esercito nemico, ce n’era uno ancor più grande invisibile agli occhi umani. Fu la lezione che Eliseo diede al suo servo quando il re di Aram fece circondare Dotan, la città del profeta, “con un forte gruppo di soldati, con carri e cavalli. Arrivarono di notte e accerchiarono la città. La mattina il servo del profeta Eliseo si alzò uscì, vide soldati, carri e cavalli che circondavano la città e gridò a Eliseo: - È spaventoso, maestro! Che cosa possiamo fare? - Non aver paura, - gli rispose Eliseo, - i nostri difensori sono più numerosi dei loro! Poi si mise a pregare: «Signore, apri gli occhi a quest'uomo, fa' che possa vedere». Il Signore aprì gli occhi al servo, e lui fu in grado di vedere: le montagne erano piene di carri e cavalli di fuoco, tutt'intorno a Eliseo” (2Re 6:14-17).

Quando il Canone biblico fu chiuso, cessò pure la principale fonte d’informazione sull’azione soprannaturale di Dio riguardo agli eventi della storia umana, guerre comprese. Tant’è che oggi ci viene difficile immaginare l’intervento diretto di Dio nelle guerre contemporanee. Eppure, chiediamoci: perché le sue modalità d’intervento dovrebbero essere cambiate rispetto al passato? Ciò che assai più probabilmente ci manca è la possibilità di sbirciare sull’azione soprannaturale che tuttavia continua ad esserci. In realtà non è neppure vero che ci è preclusa la possibilità di sollevare il velo sull’azione soprannaturale. Ogni figlio di Dio che si rivolge a lui in preghiera per ricevere aiuto è testimone di meravigliose liberazioni che non sono ragionevolmente spiegabili se non con l’azione soprannaturale. È anche vero che Dio di norma agisce con molta discrezione, e quindi il riconoscimento di questi interventi finisce per circoscriversi alla valutazione soggettiva dell’interessato e, al più, del suo stretto entourage. Ma talvolta l’azione soprannaturale su uno specifico evento può essere aperta a verifiche più oggettive, e ciò accade in periodi particolari quando il muro che nasconde l’azione extraumana sembra farsi più sottile. Un evento non lontano che si presta a quest’analisi “oggettiva” è la guerra civile americana, il primo grande conflitto combattuto con strumenti e strategie moderne. E ciò è possibile perché quello fu un periodo storico di grande risveglio spirituale, che ebbe luogo soprattutto negli Stati Uniti, che portò alla nascita di alcuni importanti movimenti religiosi, inizialmente all’interno delle chiese storiche, e che fu accompagnato da una serie di fenomeni soprannaturali sia di tipo medianico, sia, come molti sono convinti, di origine divina.


La battaglia di Bull Run

La presa di Fort Sumter, postazione governativa situata nella Carolina del Sud, offrì a Lincoln il casus belli per giustificare la riconquista armata degli stati secessionisti. Dapprima le operazioni militari si limitarono a sporadici ingaggi con il nemico e a brevi scaramucce. Andò avanti così per circa tre mesi finché fu chiesto al generale McDowell di procedere alla conquista Richmond, capitale della Virginia e della Confederazione sudista, che distava da Washington appena 150 km. Era infatti convinzione di tutti che la superiorità dell’Unione fosse così schiacciante da consentire al suo esercito d’aver rapidamente ragione dei “ribelli”, cioè delle truppe confederate, e di poter quindi farla finita con la vicenda della secessione. La strada che collega le due capitali attraversa una serie di corsi d’acqua, tra i quali il Bull Run nei cui pressi ebbe luogo la prima vera battaglia combattuta dai due eserciti.

Perché lo scontro si ebbe nei pressi di questo corso d'acqua? Perché esso era stato scelto come linea difensiva dal generale sudista Beauregard, comandante dell’armata del Potomac. A ragion veduta. Il Bull Run infatti pur essendo un torrente di modeste dimensioni era difficile da superare se non attraverso l’unico ponte (lo Stone Bridge) e pochi guadi. Inoltre due chilometri più a sud correva la ferrovia del passo di Manassas che portava alla valle dello Shenandoah dov’era dislocata un’altra armata sudista, quella del generale Johnston. Il suo possesso consentiva all’occorrenza di spostare truppe rapidamente da un settore all’altro.

Il piano di McDowell prevedeva l’invio di due divisioni per simulare la sua avanzata attraverso il guado di Blackburn (sul lato destro dello schieramento confederato) e lo Stone Bridge, mentre il grosso delle truppe unioniste avrebbe guadato il Bull Run ben oltre il fianco sinistro dello schieramento avversario con il risultato di coglierlo di sorpresa sul tergo e di tagliarne le comunicazioni, sia con l’armata di Johnston posizionata nella valle dello Shenandoah sia con la capitale sudista Richmond. Al contempo una forza di poco inferiore comandata dal generale Patterson avrebbe tenuto a bada Johnston impedendogli di venire in soccorso di Beauregard.

Il piano era ben congegnato e infatti colse alla sprovvista l’esercito sudista in gran parte concentrato a sud-est. L’estrema ala sinistra confederata era affidata all’esile brigata del colonnello Evans costituita soltanto da un reggimento e un battaglione di fanteria posti a sorvegliare il ponte di pietra. Nella notte del 21 luglio 1861 McDowell diede ordine alle divisioni del generale Hunter e del colonnello Heintzelman di mettersi in marcia verso il guado di Sundley Springs mentre la divisione del generale Tyler si portava davanti al ponte di pietra per distrarre Evans e distoglierlo dall’accerchiamento in atto. Tuttavia l’inganno durò poco perché le divisioni di Hunter e Heintzelman giunsero più tardi del previsto al guado di Sundley, quando ormai era giorno, e il loro movimento non era più coperto dalle tenebre. Pertanto, accortosi della manovra aggirante, Evans lasciò alcune centinaia di uomini a difesa del ponte, posizionò il grosso della sua milizia su una piccola altura chiamata Matthew Hill e aprì il fuoco sulle truppe del generale Hunter che si trovavano in testa alla colonna unionista e che nel frattempo avevano attraversato il fiume. Gli yankees erano tanti ma anche provati dalla lunga marcia notturna, e ciò bastò ai pochi uomini di Evans, peraltro ben posizionati, a rallentarne per un po’ l’avanzata.

Verso le 10 del mattino giunsero a dare manforte al coraggioso ed abile Evans le brigate dei generali Bee e Bartow, 5000 uomini freschi che sul momento vennero anch’essi schierati sulla Mattew Hill. Poi, per contrastare la pressione sempre più incontenibile dell’esercito unionista e per dar tempo alle forze confederate di riorganizzarsi, Evans, Bee e Bartow decisero il contrattacco, lanciando le proprie truppe giù dalla collina e affrontando il nemico in campo aperto. Tuttavia, nonostante il coraggio mostrato nel furioso combattimento che seguì, essi dovettero ritirarsi nuovamente sulla Mattew Hill per la sproporzione numerica esistente tra loro e lo schieramento nordista.

A questo punto McDowell ordinò alla divisione di Heintzelman, non ancora intervenuta in battaglia, di attaccare quel che restava delle truppe di Evans, Bee e Bartow. Al contempo ordinò a Tyler, fermo al di là del ponte di pietra, di darsi da fare per attraversare il Bull Run e unirsi al resto delle forze unioniste; e questi prontamente inviò tre brigate agli ordini dei colonnelli Sherman, Keyes e Schenck che passarono il fiume attraverso un guado minore non protetto.

La situazione si faceva sempre più insostenibile per i confederati che, incalzati dalla fanteria di Heintzelman e accortisi dell’arrivo della colonna di Tyler, decisero di ritirarsi per non rimanere stretti tra due fuochi. Così essi abbandonarono precipitosamente la loro postazione e se la loro fuga non si trasformò in rotta fu solo perché gli unionisti preferirono riorganizzarsi sul campo anziché lanciarsi al loro inseguimento. Tra i soldati di McDowell andava diffondendosi la convinzione di avere in mano la battaglia, e lo stesso comandante federale ormai cavalcava fra la sue truppe agitando il cappello e inneggiando alla vittoria.

Intanto gli uomini di Evans, Bee e Bartow si erano ricomposti e nuovamente schierati sulla sommità di un’altra collina: la Henry Hill. Ciò che McDowell non sapeva è che il generale Johnston, all’insaputa del generale Patterson, era riuscito qualche giorno prima a spostare via ferrovia gran parte della propria divisione dalla valle dello Shenandoah a Manassas, su richiesta di Beauregard. Così, sebbene i sudisti fossero presi alla sprovvista dalla manovra di McDowell, le forze a disposizione di Beauregard erano numericamente solo di poco inferiori a quelle dei nordisti. Quando il colonnello Evans diede l’allarme quel mattino del 21 luglio e chiese rinforzi, Beauregard pensò ad un diversivo e non inviò subito il grosso delle truppe. Solo quando fu chiaro che lì si stava combattendo la vera battaglia, cominciarono ad affluire i reparti migliori dei confederati. Tra questi spiccò la brigata del generale Thomas Jackson che faceva parte della divisione di Johnston. Benché numericamente poco rilevante (2000 uomini) si schierò saldamente in cima alla Henry Hill consentendo ai nuovi reparti che affluivano di prendere posizione. La sua fermezza e solidità fece guadagnare ad essa e al suo comandante il soprannome di “Stonewall” (muro di pietra). Ciò che si conosce poco è che l’inamovibilità di Jackson fu resa possibile grazie ad un aiutino di cui diremo tra poco.

La cronaca del conflitto registra una serie di attacchi e contrattacchi per la conquista della collina di Henry Hill che si protrasse fin oltre le 4 del pomeriggio. Era chiaro che dall’esito di questo combattimento sarebbe uscito il vincitore della battaglia. Man mano che i nordisti aumentavano i loro sforzi rinnovando gli attacchi, i sudisti richiamavano tutte le brigate disponibili per ridurre lo svantaggio numerico e per dare il cambio alle truppe che combattevano dalla mattina. L’esito del conflitto sembrò finalmente volgere a favore dei confederati con l’arrivo delle brigate dei colonnelli Elzerly ed Early, quest’ultima sostenuta dalla cavalleria del colonnello Stuart, che attaccarono i nordisti sul fianco destro. Il contrattacco confederato avrebbe fiaccato definitivamente la resistenza dei federali fino a causarne il ritiro veloce e disordinato dal campo di battaglia; così almeno recita la versione più diffusa. Early e Stuart si posero all’inseguimento dei fuggitivi. Il colonnello William Blackford, che allora era tenente nello squadrone di Stuart, ricorda così nelle sue memorie quella fuga concitata: “Essi [i nordisti] si tuffarono nel Bull Run senza attenzione a guadi o ponti, e in molti annegarono. Moschetti, cartucciere, cinture, zaini, bisacce e coperte furono gettati via nella loro folle corsa, perché nulla potesse ostacolarne la fuga” (W.W. Blackford, War Years with Jeb Stuart, Scribner & Sons, p. 34). Alla vista dei nordisti in rotta i molti abitanti di Washington, che avevano fatto picnic sulle colline per assistere alla battaglia, rimontarono sui loro calessi e si riversarono caoticamente sulla strada del ritorno rallentando ulteriormente la ritirata dei loro soldati in fuga e inseguiti dal nemico. Davvero una disfatta completa e umiliante per chi pensava che “un gruppetto di donne armate di manico di scopa sono sufficienti per andare a sconfiggerne la ribellione” (New York Tribune, gennaio 1861).


Una disfatta incongruente

Si è scritto molto sulle cause di questa inattesa sconfitta dell’armata di McDowell. Si è fatto notare che i suoi ragazzi erano in buona parte volontari inesperti, affaticati dalla lunga marcia, provati da una giornata di combattimenti, prostrati dal caldo estivo e per la sete. Si è detto che gli ufficiali non avevano esperienza di gestione di un grande esercito, in movimento e sul campo. Che le guerre finora combattute erano quelle contro gli indiani e i messicani. Tutto questo è vero, ma valeva in qualche modo anche per l’esercito sudista, sebbene l’Unione l’avesse molto sottovalutato. Beauregard commise gravi errori nell’analisi della situazione e intervenne seriamente con molto ritardo. Verso la fine della battaglia, sebbene le due formazioni più o meno si equivalessero, non impiegò mai più di 17000 uomini in combattimento. E al momento del ritiro degli unionisti le truppe sudiste erano cosi provate dall’azione che, con l’eccezione d’una brigata, non poterono impegnarsi nell’inseguimento.

Al contempo, però, questi stessi analisti, almeno quelli più documentati, riconoscono un elemento misterioso in questa battaglia che mal si concilia con il resto dell’analisi. Tale elemento è costituito dal “panico che si è impadronito dell’esercito dell’Unione al momento decisivo, per motivi ancora oscuri”, come scrisse Karl Marx in uno dei suoi famosi articoli sulla guerra civile. Se i motivi sono oscuri vuol dire che quelli proposti tradizionalmente male s’accordano con il racconto dei testimoni oculari. S’è dato il merito della disfatta nordista all’esigua brigata del generale “Stonewall” Jackson perché “tenne duro”. Ma la spiegazione non regge perché essa ebbe una funzione prevalentemente difensiva, e una buona difesa può tutt’al più causare frustrazione nel nemico, non panico. Ma a quanto pare frustrati erano pure gli stessi confederati che con il passare del tempo – per dirla con le parole dello storico Ralph H. Gabriel – “dettero segno d’incipiente demoralizzazione”. Certo, l’arrivo delle brigate di Elzerly ed Early, con l’appoggio della cavalleria di Stuart, dovette complicare la situazione delle truppe federali che però conservavano la superiorità numerica: schieravano pur sempre tre divisioni sul campo. E d’altra parte ci sono le prove che non fu l’arrivo di queste ultime brigate a produrre lo scompiglio tra le linee unioniste. Il fenomeno si produsse all’improvviso senza cause apparenti e sorprese anche i confederati che non capirono cosa stesse accadendo nello schieramento avversario. Un’importante testimonianza si trova nelle memorie del colonnello Blackford a cui abbiamo già attinto pocanzi. Egli faceva parte del reggimento sudista di cavalleria che stava attaccando le truppe unioniste sul finire della battaglia. Se le cose fossero andate secondo la spiegazione tradizionale, egli avrebbe dovuto giustamente vantarsi del fatto che l’azione del suo reparto avesse gettato nel panico e messo in rotta i nemici. Invece egli racconta tutt’altra cosa, ascoltiamolo.

“Erano circa le quattro e la battaglia andava avanti con furia rabbiosa. Le linee dei blue [blu scuro era il colore prevalente delle uniformi nordiste, grigio chiaro quello dei sudisti] non mostravano cedimento e la potenza di fuoco da esse prodotto era più violenta che mai, finché repentinamente cominciarono ad avvicinarsi alla solida barriera rappresentata dai grigi che li fronteggiavano, proprio quella che in mattinata era valsa a Jackson il soprannome di Stonewall [muro di pietra]. Fu allora che ebbe luogo la scena più sorprendente di cui sono mai stato testimone. Stavo osservando le numerose linee [dei nordisti] perfettamente inquadrate mentre avanzavano in attacco, qualcosa come quindici o ventimila uomini bene in vista, e per qualche motivo m’ero voltato un momento da un’altra parte, quando qualcuno puntando al campo di battaglia gridò: “Guardate! Guardate!”. Guardai, e che cambiamento era avvenuto in un istante! Quelle linee ben disposte e ordinate, con spazi ben definiti tra loro, che risolutamente si portavano in avanti, [improvvisamente cominciarono a sbandare] e ci fu una confusione tale che quegli uomini, simili a uno sciame di api, si sparpagliarono in tutto il campo correndo verso le retrovie tanto velocemente quanto lo permettevano le gambe, rinunciando all'ordine e all'organizzazione. In un momento l'intera valle pullulò di un numero tale di uomini da non potere neppure essere afferrato con lo sguardo” (W.W. Blackford, op cit., p. 34).

Qui Blackford afferma con chiarezza che lo schieramento nordista era tutt’altro che sulla difensiva al momento della débâcle. Al contrario stava conducendo un’offensiva potente, sicura e irresistibile come mai prima, e che si stava avvicinando minacciosamente alla linea difensiva dei confederati. Finché, senza alcuna apparente ragione, in un attimo si produsse tra gli yankees una confusione e uno scompiglio tale da provocarne la fuga scomposta e precipitosa. Dal racconto di Blackford si evince chiaramente che questo repentino cambiamento della situazione in campo non fu determinato dall’azione dei confederati che in quel momento subivano l’offensiva. E allora da chi o da cosa fu determinato questo capovolgimento della situazione sul campo di battaglia? La risposta ci giunge da una fonte del tutto inattesa.


Un’incredibile rivelazione

Dobbiamo tener conto, come dicevamo all’inizio, che la guerra di secessione si svolse durante gli anni del Secondo Grande Risveglio, turbinoso movimento revivalista che induceva centinaia di migliaia di persone a meditare sul messaggio del Vangelo e a riformare le proprie vite. Movimento già prodigioso per la vastità e l’intensità della sua diffusione nel mondo cristiano, dalla Russia al continente americano e all’Oceania. Accompagnato inoltre da diverse manifestazioni d’evidente origine soprannaturale quando si rendeva necessario superare ostacoli insormontabili alla predicazione (come fu il caso delle centinaia di bambini predicatori nei paesi scandinavi) o quando fu necessario aiutare a formarsi e maturare il movimento dell’avvento negli Stati Uniti. Qui la figura di spicco è quella di Ellen. G. White che nella sua lunga vita ricevette oltre 2000 messaggi per l’edificazione del popolo che aspetta il ritorno di Gesù. Tra l’altro ella ricevette alcuni messaggi riferiti esplicitamente alla guerra civile americana.

Il primo di tali messaggi le fu dato in visione il 12 gennaio 1861 quando ancora solo quattro stati del sud avevano proclamato la secessione, non si erano ancora costituiti in confederazione, Abramo Lincoln non si era ancora insediato, mancavano ancora tre mesi all’attacco di Fort Sumter e quando tutti nell’Unione erano convinti che mai ci sarebbe stata la guerra civile e che comunque, se proprio i sudisti fossero stati così sconsiderati da provocarla, essa si sarebbe risolta in una rapida passeggiata a favore dei nordisti. Questo secondo convincimento durò, come abbiamo visto, fino alla battaglia di Bull Run quando molti abitanti di Washington, vestiti con l’abito della domenica, andarono a fare picnic sulle colline attorno al teatro della battaglia per assistere alla sonora batosta che i loro ragazzi avrebbero dovuto infliggere ai ribelli sudisti. Tre mesi prima dell’aggressione a Fort Sumter e sei mesi prima della battaglia di Bull Run, Ellen White vide chiaramente che, contrariamente al comune convincimento, la guerra ci sarebbe stata e sarebbe stata lunga e sanguinosa. Per chi volesse approfondire il contenuto e il contesto di questa rivelazione pienamente realizzatasi si rinvia al mio studio “Ellen G. White, una voce per il nostro tempo”, pubblicato su Quaderni Escatologici, al paragrafo “Annuncio di imminenti calamità”. Il medesimo studio è un’utile introduzione alla biografia di questa donna che ha vissuto un’esperienza del tutto singolare.

A circa 8 mesi dalla prima rivelazione sulla guerra civile, Ellen White ne ebbe una seconda. Era il 3 agosto 1861. Pochi giorni prima l’Unione aveva incassato la severa e inattesa batosta a Bull Run e quel giorno era stato consacrato dalla nazione alla “umiliazione, alla preghiera e al digiuno”. E proprio quel giorno il Signore fece conoscere ad Ellen come la pensava in proposito. Le fu rivelato che il nodo del problema stava nell’istituto e nella pratica dello schiavismo, che Egli considerava un peccato e che era in netto contrasto con gli insegnamenti di Cristo. Dio si serviva della guerra civile per punire entrambi i contendenti: il Sud per averlo praticato, e il Nord per averlo tollerato. Coloro che continuavano a sperare in una guerra breve, sarebbero stati delusi. Quel giorno consacrato dalla nazione alla preghiera e al digiuno per implorare la sua benevolenza era da lui considerato un insulto alla sua Persona finché l’Unione non si fosse data come obiettivo prioritario l’eliminazione di questa infamia. Perché Egli intende per vero digiuno “rimuovere ogni peso che opprime gli uomini, rendere la libertà agli oppressi e spezzare ogni legame che li schiaccia” (Is 58:6).

Nel corso di questa rivelazione furono pure svelate ad Ellen alcune sorprendenti informazioni relative a questa prima battaglia di Bull Run (conosciuta pure come prima battaglia di Manassas, dal centro abitato più vicino al teatro dello scontro). Ad Ellen fu mostrato lo svolgersi della battaglia insieme a qualche particolare che di norma agli uomini non è dato vedere. Ascoltiamo le sue parole.

“Potei osservare la recente, disastrosa battaglia di Manassas, in Virginia. Fu una scena veramente toccante, straziante, anche raccapricciante. L’esercito sudista era tutt’altro che sfavorito e impreparato, anche alla lotta più cruenta. Ma l’esercito nordista avanzava con aria trionfante, non nutrendo alcun dubbio sulla propria vittoria. Molti erano sprezzanti, e marciavano in testa con la supponenza di chi si crede già vincitore. Anche se, man mano che s’avvicinavano al campo di battaglia, in tanti portavano evidenti i segni della fatica e sentivano il bisogno di riposare. Essi mai immaginavano di dover sostenere un combattimento così violento, tuttavia si gettarono nella mischia e combatterono con coraggio e accanimento. Dappertutto si vedevano soldati morti o agonizzanti. Sia il Nord che il Sud subirono perdite rilevanti, ma i sudisti erano in maggiore difficoltà e da lì a poco sarebbero stati costretti ad un’ulteriore ritirata. I nordisti erano all’attacco, benché le loro perdite fossero consistenti. Proprio allora discese un angelo [dal cielo, si portò sul campo di battaglia] e agitò la sua mano all’indietro. Istantaneamente quelle schiere all’attacco precipitarono nella confusione. Ai nordisti sembrò che la loro formazione stesse indietreggiando, mentre in realtà non era affatto così, e iniziò allora per davvero una ritirata precipitosa. Quanto vidi mi lasciò stupefatta.” (Review & Herald, 27 agosto 1861, par. 9).

Ecco così svelata la causa misteriosa per cui un esercito in piena azione offensiva andò in confusione, fu preso dal panico e si disperse in modo scomposto e precipitoso. Ma c’è di più. Ad Ellen fu pure spiegata la ragione di questo intervento soprannaturale così drammatico e risoluto: “Dio aveva nelle sue mani questa nazione e non avrebbe consentito vittorie ottenute più velocemente di quanto Egli ordinasse” (ibidem). Al Nord non era permesso vincere in questa fase battaglie decisive che portassero rapidamente alla fine della guerra sia perché andava punito per avere tollerato l’istituto della schiavitù sia perché tutt’ora, nonostante le dichiarazioni di principio, non mostrava alcuna seria volontà d’impegnarsi per la sua abolizione. Il presidente Lincoln era quel signore che aveva proposto un emendamento nella Costituzione in cui si affermasse che “Il governo federale non interverrebbe mai nelle istituzioni domestiche degli Stati, includendo quella delle persone tenute al servizio”. Ancora un anno più tardi, nell’agosto del 1862, egli dichiarava esplicitamente: “Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l'Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l'Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio a riguardo della schiavitù, e della razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l'Unione”. In sintesi, l’abolizione o la conferma della schiavitù erano solo una carta da giocare nella partita della riconquista degli stati secessionisti. Con tali premesse il Cielo non poteva consentire che la guerra avesse termine.

A quasi un anno dalla prima visione sulla guerra civile, il 4 gennaio 1862, Ellen White ne ebbe una terza. Le vennero rivelati diversi retroscena sui comportamenti ambigui di politici e militari unionisti nei confronti della schiavitù e della secessione e le fu ribadito che Dio non avrebbe permesso al Nord di vincere fino a quando l’unità della nazione, e non l’abolizione dello schiavismo, fosse rimasto l’obiettivo principale di Washington. Dopo molti mesi di guerra, l’Unione non era più vicina alla vittoria di quanto non lo fosse stata all’inizio. La sua ostinazione a non farsi carico d’un problema morale ormai non più eludibile le stava costando la distruzione di tutte quelle vite umane, lo sperpero di tanta ricchezza e la devastazione del territorio: un inutile spreco. Bisognerà attendere il 1863 perché entri in vigore il sia pur insincero e strumentale proclama per l’emancipazione degli schiavi, di Lincoln. Si veda a proposito il mio articolo “Padri e Retorica” su Quaderni Escatologici. Comunque, sia pure così, si assiste alla revoca del veto da parte del Cielo e il 4 luglio di quell’anno il generale Grant, convinto abolizionista, espugna Vicksburg, spezzando in due il territorio della Confederazione e assumendo il pieno controllo del fiume Mississippi. La via della vittoria è aperta.


Il ruolo dello spiritismo

Tra le informazioni rivelate ad Ellen White c’era quella che persone importanti sia nel Governo che nei ranghi alti dell’esercito, pur professando fedeltà all’Unione, sostenevano in realtà lo schiavismo al punto da auspicare una vittoria della Confederazione. Esse usavano la propria influenza o la propria autorità per rendere inefficaci le operazioni belliche contro l’esercito sudista. Alcuni alti ufficiali giungevano ad esporre deliberatamente i propri reparti al fuoco del nemico per mutare in favore di quest’ultimo le sorti delle battaglie. Altri ufficiali invece, pur essendo leali all’Unione, facevano il gioco del nemico a propria insaputa.

Infatti all’inizio del 1863 Ellen White rese nota un’ulteriore rivelazione che svelava un’altra realtà poco conosciuta: e cioè che molte imprese militari erano influenzate dallo spiritismo. Satana tramite i suoi angeli comunicava con gli alti ufficiali dell’esercito unionista tramite le sedute spiritiche che molti di questi avevano l’abitudine di tenere prima d’ogni battaglia. Pensavano di parlare con gli spiriti dei grandi generali del passato, con i padri della “guerra di rivoluzione”, o anche con i colleghi e gli amici morti in questa guerra, chiedevano loro consiglio, e invece parlavano con i demoni bugiardi e prendevano i loro consigli di morte. Satana parteggiava per la Confederazione schiavista e le sue indicazioni tendevano innanzi tutto a mettere in difficoltà le truppe unioniste, e in secondo luogo a far morire quanta più gente possibile perché di questo egli gioisce. “Satana, tramite i suoi angeli, ha comunicato con gli ufficiali … che hanno rinunciato al loro giudizio e si sono lasciati guidare da questi spiriti menzogneri in luoghi veramente difficili dove sono stati respinti, rimanendo vittime di terribili stragi. Soddisfa appieno la sua satanica maestà vedere stragi e carneficine sulla terra. Gli piace vedere i poveri soldati falciati come l'erba. Ho visto che i ribelli spesso si sono trovati in posti dove avrebbero potuto essere sottomessi senza difficoltà; ma le comunicazioni che provenivano dagli spiriti hanno guidato i generali nordisti e li hanno accecati, e i ribelli sono potuti sfuggire alla cattura” (E.G. White, Testimonies for the Church, vol.1, Pacific Press, p.366,367).

Lo spiritismo moderno nacque nel 1848 nei sobborghi di New York come dottrina e pratica a metà strada tra la negromanzia da salotto e il gioco di società, in varia misura ammantata di un’aura di religiosità, alla cui base c’era il presupposto che i vivi potessero comunicare con gli spiriti disincarnati dei defunti. Ebbe così inizio una vera moda che si diffuse oltre che nel Nuovo pure nel Vecchio mondo, soprattutto comunque nel nord degli Stati Uniti ove peraltro aveva avuto origine. Si presentarono allora ai cultori di queste pratiche entità che si spacciavano per parenti trapassati, amici, personaggi famosi dell’antichità, e fu tutto un fiorire – come ha affermato ironicamente qualcuno – di zie morte, spiriti guida e antichi fantasmi indiani. Soprattutto le chiese condizionaliste, quelle cioè che non credono nell’immortalità dell’anima bensì nel sonno dei morti in attesa della risurrezione, misero in guardia contro il pericolo rappresentato dallo spiritismo che poteva solo essere, procedendo per esclusione, una comunione pericolosa con Satana e con i suoi angeli decaduti. Ciò nonostante il fenomeno venne accolto per lo più con atteggiamento di curiosità e apertura dalle classi colte che, escludendo i sia pur diffusi episodi truffaldini praticati da falsi medium, vi riscontravano le prove empiriche dell’esistenza di una vita ultraterrena.

La guerra civile non fece altro che ampliare e rafforzare questa pratica di consultazione dei “morti”, in realtà dei demoni. Infatti molte famiglie che avevano perduto i loro cari nel conflitto si avvicinarono allo spiritismo; inoltre alcuni medium offrirono le loro prestazioni a politici e alti ufficiali per suggerire strategie militari e legislative. A questo proposito c’è da constatare una decisa contraddizione tra i consigli operativi che venivano dati ai militari, che in genere finivano per favorire l’esercito sudista, e le dichiarazioni di principio delle entità, sedicenti spiriti dei morti, che sollecitavano l’abolizione della schiavitù. Questa contraddizione può essere spiegata con il fatto che lo spiritismo era soprattutto diffuso sul territorio dell’Unione la cui opinione pubblica tifava a stragrande maggioranza per l’emancipazione degli schiavi. Per dare un’idea di quanto sentito fosse l’argomento, quando venne approvato il Compromesso del 1850 (una serie di concessioni agli stati meridionali, tra cui il famigerato Fugitive Slave Act che prevedeva la restituzione ai padroni degli schiavi fuggiti verso gli stati abolizionisti) si verificò una forte indignazione dell’opinione pubblica nei confronti dei parlamentari che avevano proposto la legge allo scopo di disinnescare la tensione con gli stati schiavisti e che, infatti, ritardò di una diecina d’anni la crisi che sfocerà nella guerra civile. Il risultato fu la disubbidienza civile, infatti raramente gli schiavisti riuscirono a riavere i loro schiavi fuggiti nel Nord. Inoltre il senatore del Massachusetts Daniel Webster, il cui appoggio fu determinante all’approvazione della legge, si giocò l’elezione alla Casa Bianca per cui tre volte s’era candidato. Ecco così che allineandosi a questo orientamento predominante lo spiritismo indubbiamente aumentava la propria popolarità. Il sostegno alla campagna di arruolamento nell’esercito dell’Unione fornito dai circoli spiritistici aveva il medesimo scopo e in più procurava carne da cannone per la gioia perversa del principe delle tenebre.

Forse non molti sanno che lo spiritismo era, in senso stretto, molto familiare al primo cittadino degli Stati Uniti. Infatti Mary Todd, la moglie del presidente Lincoln, era una fervente spiritista della prima ora; interesse probabilmente derivato dalla perdita del secondogenito Edward, morto nel 1850 a soli quattro anni. Ma fu con la morte di Willie, il figlio undicenne amatissimo da entrambi i genitori, avvenuta nel 1862, che l’interesse della donna per lo spiritismo si fece ossessivo. La Casa Bianca divenne un viavai di medium e le sedute spiritiche si moltiplicarono e con esse pure i fenomeni d’infestazione. Nell’ottobre del 1863 Mary scriveva alla sorella Emily: “Willie è vivo. Viene a trovarmi tutte le notti e si siede ai piedi del letto con l’identico dolce adorabile sorriso di sempre. Non sempre viene da solo. Ogni tanto si accompagna con Eddie [il fratellino morto nel 1850], e per due volte è venuto insieme a nostro fratello Alex [ucciso quell’anno nella battaglia di Baton Rouge]”.

Anche il marito Abraham partecipava alle sedute, sebbene con minore assiduità. Era meno ossessionato di Mary, ma molto interessato e coinvolto. Segnalata la sua presenza durante quelle tenute dai famosi medium Charles Colchester, Charles Foster, J.B. Conklin, Cora Scott e, soprattutto, Nettie Colburn ospite abituale alla Casa Bianca che il Presidente interpellò spesso prima di prendere importanti decisioni politiche ed anche militari. Anni dopo la Colburn scrisse un libro (Was Abraham Lincoln a Spiritualist?) in cui ricordò la sua esperienza con la coppia presidenziale. L’immagine che emerge di lui è quella di un uomo risoluto e intelligente, che non delegava ad altri la propria capacità di giudizio e tuttavia che lasciatosi tentare dal mondo dell’occulto ne fu inevitabilmente sedotto. Quando un uomo, per quanto possa ritenersi dotato, si mette a discutere con i demoni, che possiedono ancora l’intelligenza degli angeli, non può che uscirne sconfitto. Quando la medium in trance gli parlò con il tono e il piglio inequivocabili di Daniel Webster, morto dieci anni prima eppure lì davanti a lui, quel Webster del Compromesso, che sacrificava gli schiavi all’Unione e al cui pensiero egli certamente s’era ispirato, allora ne fu sopraffatto. Davvero l’anima sopravvive alla morte! E quando la giovane medium si risvegliò, le posò una mano sul capo e le disse: “Figliola, tu possiedi un dono molto singolare; non ho alcun dubbio che esso venga da Dio” (dimenticando che Dio condanna esplicitamente la negromanzia; v. Deut 18:10-12; 1Cron 10:13-14; Isa 8:19). Da allora le sedute con Nettie Colburn alla Casa Bianca proseguirono a oltranza, talvolta anche in presenza di alti ufficiali dell’esercito alla ricerca di suggerimenti per migliori strategie. E fu così che pensando di usare un dono di Dio, Lincoln intrattenne relazioni con i demoni e prese da loro consigli sapientemente mischiati, buoni e cattivi, come essi usano per confondere gli uomini. Persino il Proclama per l’Emancipazione si dice che sia stato redatto con l’aiuto degli “spiriti”. E a ben pensarci non stupirebbe se si considera quale capolavoro d’ipocrisia esso sia. Infatti, sebbene si rivelasse il primo passo nella direzione dell’emancipazione, di per sé esso – come osservò lord Palmerston – “si impegnò ad abolire la schiavitù dove non aveva alcun potere di farlo, e la protesse dove poteva distruggerla”.


Conclusione

La guerra è una sciagura in cui Satana e i suoi angeli sono coinvolti a tutti i livelli e in tutte le sue fasi. Al contempo essa è uno strumento estremo di castigo e di correzione che non si verifica se Dio non lo consente o non lo ordina; del cui svolgimento, sorte e conclusione Egli mantiene il pieno controllo, se il caso lo richiede intervenendo in modo perentorio per regolarne il processo, sia nel senso del risultato che dei tempi per raggiungerlo. La battaglia di Bull Run, all’interno della guerra di secessione, ne è stato un chiaro esempio che richiama le vicende della storia del popolo d’Israele, quando Dio svelava i retroscena del proprio intervento ai profeti. Sembra di rivedere nella confusione creata tra le schiere dei nordisti l’eco di quella provocata tra i madianiti ai giorni di Gedeone, quando questi “si misero a correre da una parte e dall’altra, urlavano di paura e cercavano di fuggire… il Signore gettò nel panico tutto l’accampamento, e… infine tutto l’esercito prese la fuga… fino alle rive del torrente Abel Mecola, nei pressi di Tabbat” (Giud 7:21.22). Nel nostro caso fino alle rive del torrente Bull Run, nei pressi di Manassas. Oppure sembra di vedere il potente “angelo del Signore” quando da solo “fece morire centottantacinquemila uomini dell’esercito assiro” (Isaia 37:36). Fatte le debite distinzioni del caso, chiaramente. Infatti, mentre gli assiri per le ragioni che Dio conosce andavano fisicamente eliminati, gli americani andavano solo fermati perché la guerra non finisse prima dell’abolizione della schiavitù. Ed anzi, l’intervento dell’angelo in quel preciso momento impedì le forti perdite che invece, ad esempio, ci furono nello stesso luogo l’anno seguente nella seconda battaglia di Bull Run. Se Washington avesse ascoltato le richieste che in tal senso giungevano pressanti da più parti dell’opinione pubblica, la guerra sarebbe presto finita e si sarebbe evitato il successivo spargimento di sangue per l’ostinazione di chi amava l’istituto della schiavitù o non se ne curava più di tanto. In seguito, meditando sulla propria storia, in molti colsero questo legame semplicemente ascoltando la propria coscienza. Tra questi citiamo John Pierce St. John, già governatore del Kansas e candidato nel 1884 alla presidenza degli Stati Uniti, quando affermò in un suo discorso del 1891: “Non fui mai così deluso come quando i Confederati ce le suonarono a Bull Run. Ma faceva tutto parte del piano di Dio. Se avessimo battuto i Confederati, i politicanti avrebbero rabberciato la pace, e l’Unione avrebbe mantenuto lo schiavismo che ci ritroveremmo ancora ai giorni nostri. Così per due anni i Confederati ci tennero in scacco; ma dopo che Lincoln promulgò il ben noto Proclama per l’emancipazione [degli schiavi] ci ponemmo subito dalla parte di Dio e fummo invincibili”.

Quell’episodio di 150 anni fa ci offre la chiave di lettura di conflitti più vicini ai nostri giorni e alle nostre latitudini. Penso in particolare alla seconda guerra mondiale e alla conquista alleata della penisola italiana. Se l’invasione fosse stata condotta in modo intelligente, come avvenne per la Sicilia, l’esercito tedesco sarebbe stato rapidamente neutralizzato e si sarebbe risparmiata all’Italia la sofferenza di tante battaglie e l’oppressione d’un crudele regime fantoccio al Nord. Gli storici sono concordi nel registrare una serie di errori disarmanti e ingenuità da parte delle truppe d’invasione, e prima ancora una serie di colpevoli titubanze da parte della corona e del governo provvisorio, che consentirono ai tedeschi di riorganizzarsi e di causare da un lato gravi perdite all’esercito alleato e dall’altro d’opprimere la popolazione civile. Ebbene, in questo sviluppo d’eventi io vedo la mano di Dio al contempo castigatrice e misericordiosa. Quello degli italiani brava gente era purtroppo solo un mito. Il regime fascista era nato con la complicità della monarchia, delle classi privilegiate (e persino della Chiesa!) sullo sfondo di gravi ingiustizie sociali; e alimentò l’arbitrio, le violenze, le prepotenze, le ambizioni personali, i nepotismi, e gravi e assurde discriminazioni quali le leggi razziali. E poi le guerre. L’esercito italiano fu autore di eccidi indegni di una nazione che si professava civile e cristiana; basti pensare ai massacri nelle avventure coloniali, al bombardamento di Guernica, alle bonifiche etniche nei Balcani. Troppo facile quando le cose andavano male uscirsene con un semplice armistizio, incolpando di tutti i mali il regime come se fosse un corpo estraneo. Quello italiano non era un popolo puro e innocente, oppresso da pochi ribaldi, ed era giusto che conoscesse in casa un po’ degli orrori della guerra che aveva portato ad altri. Ed ecco allora l’immagine dell’angelo che si piazza sulla spiaggia di Anzio, per rendere strategicamente stupide le truppe da sbarco americane, o sulla linea gotica per dare efficacia alla “ritirata combattuta” di Kesselring al punto di trasformarla in una “vittoria difensiva” fino al giorno in cui era stabilito che le truppe tedesche si arrendessero senza condizioni agli alleati. Ma al contempo, insieme al castigo di Dio in questi eventi, è possibile riscontrarvi la sua mano misericordiosa. La Repubblica di Salò, per quanto oppressiva, durò solo 19 mesi; poca cosa rispetto alla Repubblica Democratica Tedesca che divise il popolo germanico, senz’altro più colpevole di quello italiano, per ben 41 anni. E inoltre Salò ha gettato le basi dello stato democratico. Infatti la lotta partigiana diede voce in capitolo ai movimenti popolari che sul momento Vittorio Emanuele III e Badoglio avevano tentato di zittire. Costoro avevano già preso contatto con gli esponenti dell’Italia liberale prefascista pensando di poter cancellare come nulla vent’anni di regime e tornare ad una democrazia dei pochi, stile ‘800. La lotta partigiana e il comitato di liberazione nazionale furono l’indispensabile premessa per la nomina di un’assemblea costituente equilibrata, portatrice di molte istanze, che ci regalò una delle più belle costituzioni al mondo che purtroppo oggi si tenta di snaturare per tornare all’arbitrio, al privilegio e all’impunità. Ecco, questo è stato un bel regalo che Dio ha fatto ai figli suoi che vivono anche in Italia. E mi piace immaginare quell’aula costituente visitata, oltre che dagli immancabili agenti di Satana, anche dagli angeli del cielo seriamente impegnati a suggerire e incoraggiare certe proposte e a scoraggiarne altre per regalarci cinquant’anni di libertà in uno stato di diritto. A tutti noi: ai buoni, e grazie ai buoni anche ai cattivi. “Perché egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere per quelli che fanno il bene e per quelli che fanno il male” (Mt 5:45). Finché la misura non sarà di nuovo colma.

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