mercoledì 25 giugno 2008

Storia di un comandamento rimosso

Il riposo settimanale è un precetto del decalogo; è una delle dieci “parole” contenute nelle famose tavole della legge che Dio diede a Mosè, sul monte Sinai, con tanto di temibili effetti scenografici. Alcuni affermano che questa legge morale fu abolita da Gesù che ci diede in cambio il duplice precetto dell’amore, per Dio e per gli uomini. Ciò non è corretto perché lo stesso Gesù affermò chiaramente di non essere venuto per abolire la legge bensì per adempierla (cfr. Mt 5,17). Semmai Egli ricordò agli uomini lo spirito con cui essa andava osservata: con atteggiamento caritatevole senza il quale l’ottemperanza ai precetti diviene un vuoto esercizio di virtuosismo legalistico. E così infatti recepirono gli apostoli come si evince dalle pagine del Nuovo Testamento.

Con la morte di Cristo fu invece abolito quel complesso di norme che vanno sotto il nome di “leggi cerimoniali”, anch’esse date da Mosè al popolo d’Israele, tra cui bisogna annoverare tutte le festività ebraiche, in quanto “soltanto un’ombra di quella realtà che doveva venire: che è Cristo” (Col 2,17). Erano norme transitorie a cui, però, lo stesso Gesù si attenne finché non compì la sua missione terrena con il sacrificio di sé, e finché quindi i rituali tipologici (la figura) non incontrarono l’antitipo (la realtà).

Ciò che invece Gesù si rifiutò sempre d’osservare fu quella miriade di pesanti prescrizioni, che scribi e farisei imposero al popolo al fine di guadagnare la salvezza per mezzo delle sole opere, e che Egli definì “comandamenti d’uomini spacciati per dottrina di Dio” (Mc 7,7). Oggi chiameremmo tali prescrizioni “norme attuative” della legge divina. Il loro scopo era quello di disciplinare nel dettaglio l’osservanza della legge, di fatto però ne travisavano lo spirito e finivano per essere controproducenti. Particolarmente preso di mira fu il comandamento del sabato la cui osservanza fu disciplinata da una valanga di ridicole (oltre che pesanti) prescrizioni che trasformarono il giorno di riposo da benedizione, quale voleva essere, in un fardello temuto e insopportabile. La Mishnah, oltre a elencare 39 specie di lavori vietati in tale giorno, si sofferma su una serie minuziosa di proibizioni a cui gli sventurati fedeli dovevano sottostare: era loro proibito accendere il fuoco (anche quello di una candela), scrivere più di due lettere dell’alfabeto, percorrere a piedi più di 900 metri (il cosiddetto cammin di sabato), portare un fazzoletto (a meno che un lembo fosse cucito al vestito), raccogliere delle spighe per sfamarsi (perché equivaleva all’azione della mietitura e della trebbiatura), era vietato curare i malati e ai bambini era proibito giocare… una vera servitù. Ecco allora Gesù ribadire che “il sabato è stato fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27). Mai però Egli contestò il valore del comandamento ed, anzi, egli stesso si proclamò “Signore del Sabato” (Mt 12,8).

In occasione della sua visita in Austria, il Papa ha parlato della necessità di rivalutare il Decalogo e il riposo settimanale che ne è uno dei precetti. Al contempo ha auspicato una correzione di prospettiva che superi la visione legalistica con cui i dieci comandamenti sono stati proposti in passato, cioè quali secchi divieti che li hanno fatti subire come un laccio e non come un’apertura a Dio che ci ama e ci indica un modello di comportamento perché ci vuole liberi e non servi del male. Anche il comandamento del riposo settimanale andrebbe vissuto in questa prospettiva: non come una compressione delle libertà ma come un’opportunità che, mentre ci consente di riposare dalle fatiche della settimana, ci offre la possibilità di riflettere sul senso della vita, di incontrarci “con Colui che è la nostra origine e la nostra meta”.

Va apprezzata questa presa di posizione in favore del Decalogo e del riposo settimanale che, per la maggior parte della cristianità, cade di domenica per una serie di ragioni storiche di cui adesso diremo. Pochi sanno, tuttavia, che il giorno di riposo osservato in origine dalla Chiesa era il sabato e che anche in seguito v’è sempre stata almeno una parte della cristianità che è rimasta fedele all’osservanza di questo giorno.

Un noto predicatore televisivo ha sostenuto che “la domenica, come giorno speciale di riunione e di culto dei cristiani, affonda le sue origini nella comunità di Gerusalemme, negli anni successivi agli eventi pasquali. Il motivo fondamentale della scelta è che in tale giorno Cristo era risorto dai morti”. Tale affermazione (che l’introduzione della domenica quale giorno di riposo cristiano trae origine dalla chiesa di Gerusalemme) è assolutamente insostenibile da qualsiasi punto di vista: biblico, storico e logico. Il cardinale Gibbons, definito il massimo prelato della Chiesa cattolica Romana dell’emisfero occidentale, affermò chiaramente: “Potete leggere la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse e non troverete una sola parola che autorizzi la santificazione della domenica. Le Sacre Scritture sanciscono l’osservanza religiosa del sabato”. Né Gesù né gli apostoli hanno mai dato disposizioni o preso provvedimenti che autorizzassero il cambiamento del giorno di riposo settimanale. E considerato l’attaccamento degli ebrei a questo comandamento, una presa di posizione esplicita sarebbe stata assolutamente necessaria. D’altra parte se questo cambiamento si fosse verificato in età apostolica avrebbe sollevato tali resistenze che avrebbero sicuramente trovata eco sulle pagine del Nuovo Testamento; così come avvenne quando Paolo insegnò il decadimento dei rituali e delle tradizioni giudaiche (la legge cerimoniale) quale, ad esempio, la circoncisione: scoppiò un tale putiferio tra i cristiani d’origine ebraica che fu necessario indire un concilio. Ed anche così non cessò l’ostilità nei confronti di Paolo che, per amor di pace, accettò di sottoporsi ad una cerimonia di purificazione nel Tempio, retaggio superato della tradizione giudaica (cfr At 21,17-26). La Chiesa di Gerusalemme, composta e amministrata da giudei convertiti, descritti da Eusebio come “zelanti nell’insistenza per l’osservanza letterale della legge”, non poté certamente essere il centro di un’innovazione liturgica quale fu il culto domenicale. Persino dopo la distruzione di Gerusalemme, essa, che nel frattempo si era rifugiata nella vicina città di Pella, “poté servire il Maestro e osservare il suo sabato”, ci informa sempre Eusebio. D’altronde proprio il Maestro, prevedendo quel tragico evento accaduto nel 70 d.C., aveva raccomandato: “Pregate di non dover fuggire d’inverno o in giorno di sabato” (Mt 24,20). Aveva cioè chiesto ai suoi discepoli di pregare per quarant'anni che la loro fuga non avvenisse di sabato: uno strano modo d'abolire un comandamento!


Come è nata la domenica

Tuttavia l’uso liturgico della domenica, sebbene non in età apostolica, cominciò ad affacciarsi abbastanza presto. Le prime testimonianze scritte che ce ne parlano sono l’Epistola dello pseudo Barnaba (135 circa d.C.) e Giustino martire (150 circa d.C.). Siamo cioè a metà del secondo secolo, a soli cinquant’anni della morte degli apostoli. Ma fu un percorso tutt’altro che breve, lineare e uniforme. Ancora nel quinto secolo, Agostino d’Ippona, convinto sostenitore della domenica, testimonia che il sabato era osservato nella maggior parte del mondo cristiano. Qualche anno più tardi, lo storico Socrate Scolastico scrive: “Sebbene quasi tutte le chiese del mondo celebrino i sacri misteri il sabato di ogni settimana, tuttavia i cristiani di Alessandria e di Roma, sulla base di certe antiche tradizioni hanno cessato di fare così”. Qui Socrate ci fornisce un ulteriore, importante elemento per investigare sull’origine della domenica quale giorno di riposo. Egli ci dice che solo a Roma e ad Alessandria d’Egitto il sabato non si osserva più, e afferma che ciò avviene non per un precetto di Gesù o degli apostoli bensì “sulla base di certe antiche tradizioni”. Ad Alessandria era allora vescovo Cirillo, fedele e severo esecutore degli ordini papali, sulla scia dei suoi predecessori Atanasio e Alessandro. Ma il cristianesimo di Alessandria era anche noto per le sue contaminazioni con il neoplatonismo, con l’eclettismo, con i culti solari, per la sua interpretazione disinvolta delle Scritture (allegorismo) di cui furono maestri Clemente e Origene. Un esempio alessandrino di allegoria che cade a proposito? Il sillogismo dei cosiddetti “otto giorni”: I salvati nell’arca di Noè furono otto; la domenica è l’ottavo giorno della settimana; pertanto è la domenica che bisogna osservare come giorno di riposo! Ma è a Roma che dobbiamo spostarci per comprendere le ragioni storiche che portarono al cambiamento.

È noto che i rapporti tra cristiani e giudei non fossero improntati all’amicizia. La prima persecuzione dei cristiani avvenne proprio per opera di questi. Dapprima però i romani distinguevano con difficoltà tra i due in quanto il cristianesimo era da loro considerato una costola del giudaismo (si pensi all’editto di Claudio del 50 d.C. di cui c’e un riferimento in Atti 18,2). L’iniziale atteggiamento di tolleranza verso la provincia ebraica e i simboli della sua cultura cessò con la rivolta del 66 d.C. che porterà alla distruzione del Tempio e alla deportazione dei giudei. Da quel momento Roma attuò una serie di misure repressive tese a cancellare le istituzioni ebraiche ma anche a vessare chi si riconosceva in questa cultura. L’imperatore Vespasiano abolì il sinedrio e l’ufficio del Sommo Sacerdote; inoltre introdusse una tassa discriminatoria (il fiscus judaicus) che, secondo Svetonio, era applicata anche a coloro che “senza aver pubblicamente riconosciuto quella fede vivevano come giudei”. Cioè di fatto a tutti gli osservatori del sabato, compresi i cristiani. Tale tassa fu ulteriormente inasprita da Domiziano e poi da Adriano che, infine, sedata la sommossa del 132, pose fuori legge la stessa religione israelita con tutti i suoi simboli a cominciare dal sabato.

È chiaro quindi che soprattutto a Roma i cristiani, in quanto osservanti del sabato, si trovarono nella scomodissima condizione di dover pagare letteralmente per le colpe degli invisi giudei a cui venivano impropriamente accomunati. Ciò non fece che aumentare l’odio, che sfociò in una “teologia del disprezzo” nei confronti del giudeo omicida del Signore, e al contempo accrebbe la determinazione a dissociarsi dai simboli giudaici a cominciare dal sabato e dalla Pasqua che furono sostituiti con la domenica settimanale e la domenica pasquale. Così il sabato perse gradualmente il suo significato di giorno del Signore e di memoriale della creazione e assunse i connotati negativi e mesti della commemorazione e della privazione. I papi Callisto (207-222), Silvestro (314-333) e Innocenzo I (401-417) si adoperarono con determinazione perché dappertutto il sabato fosse trasformato in giorno di penitenza e di digiuno, con il duplice risultato di renderlo un giorno cupo e triste, e inutilizzabile per il servizio religioso dato che la celebrazione eucaristica avrebbe comportato l’interruzione del digiuno. Di conseguenza la domenica diviene l’unico giorno possibile in cui celebrare il servizio sacro e, in contrasto al sabato, acquisisce una connotazione gioiosa, di festa. Le raccomandazioni di Tertulliano (160-220) rendono l’idea di tale cambiamento: questo giorno va vissuto nella gioia, il digiuno è ritenuto un’empietà ed è reo di peccato chiunque affligge la propria anima. Persino pregare in ginocchio è sconveniente come ogni altro comportamento che implichi ansia. Qualcuno ha suggerito di pensare ai bambini cresciuti nelle comunità ove si viveva questo contrasto, con le privazioni del sabato e le gioie della domenica: una volta cresciuti, quale giorno avrebbero imparato ad amare e a sostenere?

Ma perché la scelta di giorno liturgico alternativo cadde sulla domenica? Già presto si cominciò a dire: ‘perché è il giorno della risurrezione del nostro Signore’ che, però, come abbiamo visto, non diede mai disposizioni in tal senso. La spiegazione più giusta è forse che non fu una scelta ma un dato di fatto che si insinuò da sé. La domenica era il giorno festivo dell’Impero, dedicato al culto solare, il dies solis. Chiamato già giorno del Signore dai pagani, come i seguaci di Mitra. Era più facile ritrovarsi in questo giorno, confondersi con altri adoratori, era più facile convertire la gente che veniva dal paganesimo. Soprattutto quest’ultimo fatto, se da un lato aiutava la Chiesa a crescere numericamente, creava non pochi problemi di confusione con il paganesimo. Per lungo tempo i culti solari si mischiarono a quelli cristiani. L’imperatore Adriano scriveva nel 134 d.C.: “Gli adoratori di Serapide sono cristiani e quelli che sono devoti al dio Serapide chiamano se stessi Vicari di Cristo”. Il culto di Serapide, sorto in età ellenistica ad Alessandria (è un caso?), fu introdotto in molte città dell’Impero, e per un fenomeno sincretistico fu identificato con varie divinità del Pantheon pagano, tra cui Helios nell’aspetto solare, e si confuse pure con il cristianesimo. Anche Tertulliano, vescovo di Cartagine e padre della Chiesa, rilevò il problema: “Molti ritengono che il Dio cristiano sia il Sole perché è un fatto noto che noi preghiamo rivolti verso il Sole sorgente e che nel Giorno del Sole ci diamo alla gioia”. Ancora nel 460 papa Leone I doveva scrivere: “È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei”.

Era connaturato nella cultura romana inglobare ogni nuovo elemento religioso con cui veniva in contatto. Questa forte tendenza sincretista porterà alla fine gli imperatori ad inserire nel sistema persino la nuova fede cristiana strutturalmente intollerante nei confronti del politeismo, come tutti i monoteismi, aprendo pertanto la strada alla sua egemonia. Ma l’aspetto speculare di cui meno si dice è che anche la Chiesa di Roma era inevitabilmente “romana”, era cioè figlia di quella cultura sincretista che facilitò l’assimilazione di tanti elementi esterni di cui potremmo stilare una lunga lista. Ma, per attenerci all’argomento, dobbiamo limitarci a prendere atto che qui con più facilità e rapidità si compì il processo di sostituzione del sabato con la domenica.


Come è stata imposta

Con l’editto di Nicomedia, nel 311, terminò la decima e ultima persecuzione contro i cristiani, quella di Diocleziano. Era durata otto anni, mieté quasi 500 mila vittime e distrusse molte chiese e molte copie dei libri sacri. Due anni più tardi Costantino, con il suo “editto di tolleranza”, riconobbe la libertà di culto ai cristiani la cui religione da quel momento non sarà più una religio illicita. La Chiesa esce dalle catacombe e il vescovo di Roma, con la protezione dell’imperatore, acquisisce un potere inatteso che subito utilizzerà per imporre la propria concezione in materia di fede. A cominciare dal digiuno sabatico concepito di fatto per impedire l’osservanza di quel giorno; papa Silvestro raccomandò caldamente questa pratica e, in seguito, Innocenzo I ne fece una legge vincolante per tutte le chiese. Nel 318 Costantino ordinò una conferenza tra i vescovi di Roma e i vescovi giudeo-cristiani. Questi tra l’altro chiedevano che fosse ripresa la pratica d’inviare denaro a Gerusalemme, in quanto madre chiesa, e la reintroduzione della Legge, che comprendeva il sabato. Papa Silvestro rifiutò le loro richieste, affermando che da quel momento la madre chiesa sarebbe stata Roma. Quello fu l’ultimo dialogo con i cristiani ortodossi d’origine ebraica.

Solo grazie a questa inedita sinergia tra la chiesa di Roma e il potere imperiale si poterono superare le molte resistenze poste dalle chiese locali all’abbandono del Sabato; ma anche da questa posizione di forza ci vollero diversi concili e l’intervento diretto degli imperatori. Come quando Costantino con una lettera personale esortò tutti i vescovi a seguire la tradizione dell’antica chiesa di Roma e di Alessandria. Elenchiamo le tappe fondamentali di questo percorso. Già il Concilio di Elvira, in Spagna, del 305 prevedeva sanzioni ecclesiastiche per chi si fosse assentato dalle funzioni domenicali per più di due volte consecutive. Nel 321 Costantino emanò la prima legge civile sulla domenica che proibiva qualsiasi attività lavorativa in quel giorno con l’eccezione dei lavori agricoli. Nel 365 ca. il Concilio di Laodicea stabilì l’astensione dal lavoro solo per la domenica, mentre il sabato si faceva obbligo ai cristiani di lavorare. Non bastando gli anatemi dei concili, verso la fine del IV secolo diversi imperatori quali Valentiniano, Teodosio e Arcadio riaffermarono la legge sul riposo domenicale. Ma all’inizio del V secolo il sabato era ancora rispettato in molte città dell’Impero. Agostino lamentava il fatto che in due chiese vicine in Africa, una osservasse il sabato mentre l’altra digiunasse. E lo storico Sozomeno scrive: “Gli abitanti di Costantinopoli e di molte altre città si riuniscono tanto il sabato quanto il primo giorno della settimana, costume che non viene mai seguito né a Roma né ad Alessandria”. Per vincere i riottosi dovette nuovamente intervenire il potere civile, cioè l’imperatore Teodosio II che nel 423 e nel 428 promulgò leggi severe contro gli osservatori del sabato. Con la forza della giurisdizione ecclesiastica e civile finalmente la domenica rimase l’unico giorno legittimo di riposo. Il cerchio si chiude. All’inizio del secondo secolo la domenica fa timido capolino accanto al sabato. Alla fine dello stesso secolo gli si affianca con caratteristiche di complementarietà. “Gli schiavi devono lavorare cinque giorni, al sabato e alla domenica devono riposarsi a causa della dottrina della beatitudine divina nella Chiesa, poiché al sabato bisogna, come si è detto, guardare indietro alla creazione e nella domenica guardare alla risurrezione”, recitano le Constitutiones Apostolorum. Da allora è tutto un lavorio, soprattutto da parte della chiesa di Roma, per sminuire il significato del sabato e per cercare di disfarsene come un imbarazzante vestigio giudaico.


Come è stato difeso il sabato

Il fatto che nell’Impero fosse divenuto fuorilegge, non significò tuttavia per il sabato sparire. Persino nell’occhio del ciclone, cioè a Roma, ancora verso l’anno 590 c’erano cristiani sabatisti. La conferma ce la dà lo stesso papa Gregorio che, in una lettera ai fedeli della città, bollò come profeti dell’Anticristo coloro che mantenevano l’idea che nel settimo giorno non si dovesse svolgere alcun lavoro. Certamente però era più facile trovare osservatori del sabato man mano che ci si allontanava da Roma, in quei territori ove minore era il suo controllo o ancor meglio assente. Persino nella Chiesa Ortodossa, che fu unita a quella di Roma fino all’anno 1054, il progetto di sostituzione del sabato con la domenica rimase incompiuto. Anche se questa divenne il giorno del Signore, il sabato non fu del tutto soppiantato e rimase il quarto comandamento, memoriale festoso della creazione. Leggiamo nel sito della Chiesa Ortodossa in Italia, alla voce quaresima:

“Il sabato… è un giorno non di digiuno, ma di festa, perché Dio stesso l’ha istituito come festa: “Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò” (Gn. 2,3), perché in esso aveva cessato ogni tipo di lavoro che egli creando aveva fatto. Nessuno può disfare o abolire ciò che Dio ha stabilito. È vero che molti Cristiani pensano che l’istituzione divina del Sabato è stata semplicemente trasferita alla Domenica, che è diventata così, per il Cristiano, il giorno di riposo o Shabbat. Ebbene niente nelle Scritture o nella Tradizione può dar fondamento a questa credenza. Al contrario, per i Padri e per tutta la Tradizione primitiva, la “computazione” della Domenica come primo ed ottavo giorno sottolinea che essa differisce dal Sabato e che anzi, in un certo qual modo, essa si contrappone al Sabato, che resta sempre il settimo giorno, il giorno in cui la creazione viene riconosciuta come “molto buona” e tale è il suo significato nell’Antico Testamento, significato che verrà mantenuto da Cristo stesso e dalla Chiesa. Questo vuol dire che malgrado il peccato e la caduta, il mondo rimane la Creazione buona di Dio; esso conserva quella bontà essenziale, di cui il Creatore si è rallegrato: “e Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gn. 1,31). Conservare il Sabato così come era stato pensato sin dal principio significa quindi che la vita può avere un senso, può essere felice e creativa: può essere ciò che Dio ha voluto che fosse. E il Sabato, giorno di riposo in cui noi godiamo dei frutti del nostro lavoro e delle nostre attività, rimane per sempre la benedizione accordata da Dio al mondo ed alla sua vita”.

Gli altri patriarcati orientali, quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, si separarono ancor prima da Roma e da Costantinopoli. In una disputa sulla natura di Cristo, non avevano accettato le conclusioni del Concilio di Calcedonia tenutosi nel 451, e questo consentì loro di compiere un percorso in maggiore autonomia. La Chiesa copta d’Egitto pagava il fio del precoce abbandono del sabato in cui Alessandria si era distinta insieme a Roma; ma la Chiesa copta etiopica, la più grande delle chiese pre-calcedoniche contando oltre 36 milioni di fedeli, tuttora santifica il sabato. Ciò è da ammirare, soprattutto pensando alle pressioni che ha dovuto subire per modificare il proprio credo. Nei primi anni del ‘600 infatti i gesuiti spagnoli tentarono di condurre al cattolicesimo questa Chiesa attraverso la conversione del negus, e la prima cosa che ordinarono al sovrano di proibire fu proprio l’osservanza del sabato. Ma la reazione fu imponente e il negus fu costretto ad abdicare. Purtroppo la lotta tra cattolici e copti proseguì e conobbe momenti di particolare ferocia durante l’occupazione italiana dell’Abissinia, quando furono sterminate intere comunità di chierici copti.

Tradizionalmente si attribuisce all’apostolo Tommaso l’evangelizzazione dell’Asia. Attorno all’anno 35, insieme ad altri discepoli di Gesù (si dice: Simone, Taddeo e Bartolomeo), avrebbe fondato chiese nella regione mesopotamica e persiana. In seguito, seguendo la trafficata via dei mercanti, si sarebbe spinto fino in India dove avrebbe convertito pure lì molta gente. Nel Malabar, sulla costa meridionale del subcontinente, c’è una comunità cristiana molto antica e ben integrata che fa risalire le proprie origini proprio a lui. Si narra pure che, al ritorno d’un viaggio in Cina, egli abbia trovato la morte per mano di fanatici indù. Abbiamo notizia d’un concilio tenuto attorno al 220 nell’India settentrionale dai monaci buddisti perché alcuni di loro avevano cominciato ad osservare il sabato, e questo potrebbe essere attribuito all’attività dei cristiani locali. Meno felici invece si preannunciavano le cose per i cristiani della Persia sasanide; il re Sapore II, infatti, iniziò nel 335 una dura persecuzione contro di loro motivandola proprio con l’osservanza del sabato: “Disprezzano il nostro dio-sole. Zoroastro, santo fondatore delle nostre credenze divine, non istituì forse la domenica, mille anni fa, in onore del sole ed in sostituzione del sabato del Vecchio Testamento? Ciononostante questi cristiani tengono servizi divini il sabato”. Il Concilio di Laodicea, convocato mentre questa persecuzione era in corso, faceva obbligo ai cristiani dell’Impero di considerare il sabato giorno feriale. Sorge inevitabile una riflessione: due imperi nemici acerrimi – quello romano e quello sasanide – che almeno su una cosa si trovano d’accordo: la persecuzione dei cristiani sabatisti. Il giorno pagano del sole, sorto in Persia e adottato da Roma, che lotta furiosamente contro il sabato del Creatore eterno e onnipotente. Come non scorgervi dietro un disegno sovrumano e quindi sovranazionale? Chiusa parentesi. Durante la persecuzione di Sapore, alcune centinaia di cristiani sotto la guida del mercante Tommaso di Cana si stabilirono nel Malabar indiano, integrandosi pienamente con i cristiani del luogo. Questa comunità visse serenamente fino all’arrivo dei colonizzatori portoghesi nel XVI secolo. I gesuiti al seguito, non potendo tollerare la presenza di un cristianesimo diverso da quello latino, si adoperarono per convertire forzatamente questa chiesa libera che non era mai entrata in contatto con il cattolicesimo. L’osservanza del sabato fu una delle prime cose che cercarono di estirpare. Una parte dei “Cristiani di san Tommaso” si piegò al sopruso, altri invece si ribellarono e confluirono nella Chiesa siro-ortodossa.

Nel 431 il Concilio di Efeso condanna Nestorio, patriarca di Costantinopoli, per le sue affermazioni sulla doppia natura di Cristo. Mancano ancora vent’anni al Concilio di Calcedonia (di cui abbiamo detto) che per un’altra affermazione cristologica non condivisa porterà allo scisma dei tre patriarcati monofisiti di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Nel 435 Nestorio fu esiliato nei pressi di Tebe, in Egitto, dove pochi anni dopo morirà anche per i maltrattamenti subiti. I suoi seguaci invece furono banditi dall’Impero bizantino e si rifugiarono in Persia, nemico tradizionale di Bisanzio. Sotto la loro influenza, nel 486, la Chiesa nazionale persiana viene a connotarsi ufficialmente come nestoriana. Su questo processo avranno certamente influito le pressioni degli imperatori sasanidi che vedevano con maggior favore in casa una Chiesa caratterizzata in senso anti-bizantino. Si tende a sottovalutare il ruolo di questa Chiesa sia per la sua posizione scismatica sia per la sua collocazione periferica. In realtà proprio tale collocazione le ha consentito di raggiungere luoghi che altri non avrebbero potuto. Infatti, grazie all’espansione dell’Impero persiano e all’accessibilità delle vie commerciali per l’Oriente, i missionari al seguito dei mercanti, poterono di fatto evangelizzare tutto il continente asiatico. Nessuna Chiesa in passato ha avuto l’estensione di quella nestoriana. Essa operò con certezza in Arabia, in India, in Asia centrale, in Cina e ancora nel XVI secolo consacrava vescovi per la lontana isola di Giava.

Poco nota ai più è la storia dell’evangelizzazione della Cina. Leggenda vuole che sia stato l’apostolo Tommaso a predicare per la prima volta in quella terra. Autori cristiani come Arnobio e Ambrogio parlano di missioni nel paese dei Seres. Centri metropolitani potrebbero essere stati creati dalla Chiesa persiana già nel quinto e nel sesto secolo. Tuttavia la presenza cristiana in Cina per opera dei missionari nestoriani è attestata con sicurezza solo dal VII secolo. Nel 1625 venne alla luce a Xi’an, nell’attuale provincia dello Shangxi, una grande stele di marmo datata 4 febbraio 781. Incisa in caratteri cinesi e lettere siriache, è suddivisa in due parti. Una parte narra le vicende nestoriane in Cina dal 635 al 781, che registrarono grandi successi grazie alla favorevole situazione politica e alla buona disponibilità della dinastia Tang ad accogliere i culti stranieri. Nel documento viene riportato il decreto dell’imperatore Taizong che in base alle scritture sottopostegli dai nestoriani concede la propria approvazione perché la “religione della luce” sia diffusa nell’Impero: “Esaminatone accuratamente l’insegnamento, lo abbiamo trovato illuminante e libero da passioni. Dopo averne valutato i punti essenziali, siamo giunti alla conclusione che contengono ciò che è più importante nella vita… Questa dottrina è salutare per ogni creatura e profittevole per tutti gli uomini. Deve quindi essere diffusa nell’impero”. Segue la decisione del successore Gaozong di sviluppare ulteriormente le concessioni ordinando di costruire una chiesa in ogni circoscrizione. L’altra parte della stele descrive ampiamente la dottrina cristiana; tra l’altro si afferma: “Nel settimo giorno offriamo sacrifici, dopo aver purificato i nostri cuori e ricevuto l’assoluzione dei nostri peccati”. Anche la Chiesa nestoriana osservava il sabato.

Purtroppo il processo di cristianizzazione della Cina subì un grave colpo con l’editto di “secolarizzazione” emanato nell’845 dall’imperatore Wuzong, un fervente taoista che decise di sbarazzarsi di tutti i culti stranieri. La persecuzione fu breve, a causa della sopravvenuta morte del sovrano, ma radicale. Una missione inviata dal patriarca caldeo alla fine del X secolo tornò dalla Cina affermando di non aver più trovato traccia di cristiani. La ricerca probabilmente non fu del tutto accurata se Marco Polo, tre secoli più tardi, poté affermare d’avere incontrato diverse “chiese di cristiani nestorini” durante le sue missioni nelle province cinesi. Un collegamento inatteso con quell’antica evangelizzazione lo ritroveremo nella seconda metà del XIX secolo in occasione della rivolta dei Taiping, una rivoluzione popolare di carattere religioso, sociale ed economico guidata dall’intellettuale di provincia Hong Xiuquan. Questi, per reazione alle guerre dell’oppio e alla corruzione della dinastia Manciù, si proclamò imperatore allo scopo di stabilire in Cina una dinastia cristiana. Sul territorio degli insorti, con capitale Nanchino, tra varie riforme fu inserito anche il riposo religioso del sabato. Quando si chiedeva loro ragione di questa insolita osservanza, i Taiping rispondevano che osservavano il sabato perché così insegnava la Bibbia e perché i loro antenati lo consideravano un giorno di preghiera. A quanto pare il lavoro dei missionari nestoriani non è andato del tutto perduto. Al contrario alcuni sociologi sostengono che, se cadessero i pesanti limiti posti dal regime alla libertà religiosa, la Cina potrebbe giungere ad esprimere un 25-30 per cento di cristiani. Ciò farebbe del cristianesimo sorprendentemente la prima religione del Paese e della Cina uno dei primi Paesi al mondo per numero di cristiani praticanti.

Un territorio molto meno lontano su cui la Chiesa di Roma ha faticato parecchio per imporre il proprio controllo sono le isole britanniche. La conquista sistematica della Britannia iniziò nel 43 d.C. per opera dell’imperatore Claudio (lo stesso che ordinò lo sgombro di Roma da giudei e cristiani). Non si rivelò una terra di facili conquiste e comunque Scozia e Irlanda non furono mai sottomesse. Nella seconda metà del IV secolo gli attacchi esterni, soprattutto ad opera di irlandesi e sassoni, si fecero sempre più pericolosi mentre l’Impero era già impegnato a difendere il resto dei suoi confini. Così nel 410 di fatto e di diritto la Britannia venne abbandonata al suo destino. Sempre nel IV secolo il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero. L’evangelizzazione delle isole britanniche iniziò abbastanza presto. Attorno al 200 Tertulliano scriveva che parti di quel territorio inaccessibili ai Romani erano state conquistate a Cristo. Ciò fu possibile grazie al lavoro di alcuni missionari provenienti dal Patriarcato di Antiochia, la città dove “per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani “ (At 11,26). Tale opera fu poi proseguita da Patrizio, che verso il 432 intraprese la conversione dell’Irlanda, da Colombano (540-615) e da Columba che nel 563 lasciò l’Irlanda per evangelizzare la Scozia. L’impronta orientale su questa Chiesa Celtica rimase tenace fino all’alto medioevo: tra l’altro essa adoperava la traduzione siriaca della Bibbia (anziché quella latina) e osservava il sabato quale giorno di riposo.

Nel 596 papa Gregorio Magno (lo stesso che aveva tuonato contro i sabatisti dell’Urbe) invia in Gran Bretagna sant’Agostino di Canterbury, alla testa d’un gruppo di benedettini, per convincere i cristiani celtici a sottomettersi alla teologia e alla gerarchia di Roma. L’anno seguente questi battezza re Etelberto del Kent e quasi 10 mila suoi sudditi, non riesce invece a sottomettere i celti. Così per il momento la Missione romana in Inghilterra deve convivere con la Chiesa Celtica, di fatto autocefala. Nel 663 Oswy, re di Northumbria, nel frattempo avvicinatosi al cattolicesimo indice un sinodo a Witby. In tale sinodo si decide forzatamente un avvicinamento dei celti alle posizioni romane e la fine dell’autocefalia. Si rivela tuttavia un accordo di difficile attuazione; la prima regione celtica a sottomettersi alla Chiesa cattolica anglosassone sarà il Galles nel 777; seguirà la Cornovaglia nel 936. Nel 1070 il re di Scozia Malcom III Cranmore sposa la principessa inglese Margaret Atheling. Questa, da buona cattolica, rimane sorpresa dai costumi religiosi degli scozzesi che – come scriverà ai cugini inglesi – “la domenica lavorano ma osservano il sabato in modo sabbatico (They work on Sunday, but keep Saturday in a sabbatical manner)”. In un’altra lettera spiega: “È loro abitudine anche trascurare di onorare il Giorno del Signore [la domenica]; e di proseguire in quel giorno come in tutti gli altri, ogni fatica del lavoro terreno”. Rilevante fu il ruolo di Margaret, poi canonizzata, nel condurre il clero scozzese all’obbedienza di Roma. Tuttavia, alla vigilia della Riforma Protestante, vi erano ancora molte comunità nelle Highland scozzesi che continuavano ad osservare il sabato. Ci sono molte prove che persino in Galles, la prima regione celtica a sottomettersi a Canterbury, il sabato era ancora comunemente osservato nel 1115, anno in cui fu insediato il primo vescovo romano a St. David. Nel 1172, con il sinodo di Cashel, viene formalizzata la fine della autocefalia della Chiesa irlandese. Ma anche qui l’abbandono del sabato in favore della domenica richiese tempo. Il fatto curioso di tutta la vicenda è che proprio quella Chiesa cattolica anglosassone, che tanto aveva fatto per sottomettere a Roma le isole britanniche, pochi secoli più tardi (1536) ruppe con il Papa; mentre l’Irlanda, l’ultima a consegnarsi a Roma, rimase cattolica anche se, bisogna riconoscere, molto in chiave antinglese.

Un territorio ancora più vicino che ha dato parecchio filo da torcere alla Chiesa di Roma è quella fascia compresa tra il Veneto e i Pirenei. E precisamente l’Italia settentrionale e l’Occitania francese, entrambe a prevalenza celtica; un tempo molto meno divise dalle Alpi, sia in età romana sia sotto il dominio dei successivi regni barbarici come quello ostrogoto di Teodorico. Anche queste regioni furono molto presto evangelizzate da missionari provenienti dall’Asia minore e dalla Siria. Buona parte dei martiri di Lione proviene da lì, e lo stesso Ireneo, secondo vescovo della città, era originario di Smirne e fu allievo di Policarpo, che a sua volta conobbe e fu istruito dall’apostolo Giovanni. Allora come oggi il centro più importante al di qua delle Alpi era Milano, al punto da diventare nel 286 capitale dell’Impero Romano d’Occidente. Anche da un punto di vista ecclesiastico divenne un riferimento importante per le altre chiese del Nord Italia e luogo di composizione delle dispute persino per la Gallia a ridosso delle Alpi. I nomi dei primi vescovi di Milano (Anatolio, Calimero, Mona, Mirocle) e delle più antiche iscrizioni tombali dei presbiteri milanesi indicano chiaramente una penetrazione del cristianesimo dall’Oriente per la via percorsa dai mercanti. La Chiesa milanese, che ancora oggi conserva molti elementi tratti dalle liturgie orientali, osservò a lungo il sabato. Almeno fino al V secolo, si dice. Ne abbiamo persino una testimonianza diretta che coinvolge due personaggi del calibro di Agostino e Ambrogio. Durante il suo soggiorno meneghino, Agostino abbracciò il cristianesimo e si battezzò nel 387 grazie alle prediche di Ambrogio, vescovo della Città. Avendo egli prima soggiornato a Roma, notò una differenza importante tra le liturgie delle due chiese: il sabato a Roma digiunavano ma a Milano non digiunavano. Agostino allora chiese spiegazioni ad Ambrogio e questi lo invitò ad adeguarsi agli usi della chiesa locale: “Si fueris Romae, Romano vivito more; si fueris alibi, vivito sicut ibi”. Più della risposta di Ambrogio, che aveva il senso pratico del funzionario romano quale egli era stato, a noi interessa la notizia in sé che ci rivela due fatti: Primo, che Milano ancora alla fine del IV secolo era più vicina alle chiese orientali che a Roma; secondo, che a Milano il sabato era un giorno di culto perché, come abbiamo visto, il digiuno era alternativo alla celebrazione eucaristica.

Nell’inverno del 539 la città fu quasi distrutta dai Goti per punirla dell’appoggio offerto ai Bizantini. Quando giunsero i Longobardi vi fu un ulteriore rivolgimento dell’assetto, oltre che urbanistico e politico, anche religioso della città. Il clero milanese nel 569 fuggì a Genova e il suo posto venne preso dal clero siriaco e irlandese che insieme formarono il clero decumano o peregrino. Come sappiamo, sia la Chiesa siriaca che quella celtica (cui apparteneva quella irlandese) osservavano il sabato. Non è un caso se qui nel 612 trovò rifugio l’abate Colombano dal suo peregrinare europeo. Dopo vent’anni di soggiorno in Borgogna, dove aveva fondato dei monasteri, venne in conflitto con il clero francese proprio perché i suoi monaci, secondo l’uso della Chiesa celtica, osservavano il sabato e non facevano cadere la Pasqua di domenica. Nel 610, a seguito di questa ostilità, egli venne espulso dal regno burgundo e dopo un breve e fruttuoso peregrinare per l’Europa trovò accoglienza a Milano presso il re longobardo Agilulfo e la moglie Teodolinda. Gli venne pure concesso di erigere un monastero a Bobbio, sull’Appennino emiliano, che, come tutti i monasteri di Colombano, contribuì a preservare e diffondere la cultura libera, le scienze e le arti in tutta Europa. La regola colombaniana venne sciolta da papa Niccolò V nel 1448.

Non sappiamo nel dettaglio come si spense l’uso del sabato in Nord Italia. Probabilmente la normalizzazione avvenne prima nelle città. Abbiamo prove che nell’VIII secolo esso era ancora osservato nelle campagne. Infatti un Concilio, tenuto a Cividale del Friuli nel 795, comanda ai contadini d’osservare il primo giorno della settimana quale Giorno del Signore e non il “passato Sabato osservato dagli Ebrei, l’ultimo giorno della settimana…”. Ma al di là d’ogni repressione rimase nel popolo padano (e, come vedremo, in quello occitano) il ricordo d’una chiesa pulita e semplice, senza orpelli e con un forte senso della giustizia. Non a caso proprio qui, in questo substrato, vari movimenti di riforma troveranno terreno fertile.

Tra i più noti è forse quello dei patarini, sorto proprio a Milano nell’XI secolo, e così chiamato da una parola del dialetto milanese – evidentemente adoperata dagli avversari – con il significato di “straccioni”. A quel tempo il clero godeva di poca stima e veniva soprattutto accusato di simonia e concubinato. Simonia, perché il controllo sulla nomina delle cariche religiose, introdotto dai Carolingi e rafforzato dagli Ottoni, era degenerato in una compravendita degl’incarichi d’ogni ordine e grado, compreso quello vescovile, con tanto di tariffario (18 denari per il diaconato, 24 per il presbiterato, ecc.). Concubinato. Nel 305 il concilio di Elvira, in Spagna, aveva introdotto il celibato per i presbiteri, respinto dalle chiese orientali. Milano, da sempre vicina alle posizioni orientali, ma che cominciava a fare i conti con il controllo di Roma, aveva adottato una posizione di tacito compromesso per cui i presbiteri prendevano moglie senza ufficializzare il rapporto; convivevano, insomma. La degenerazione dei costumi derivata da questo stato di cose provocò la rivolta dei “patari” che non erano affatto straccioni: erano la borghesia della città che si ribellava ai privilegi dei signori feudali e alla corruzione degli ecclesiastici, e che preconizzava l’avvento delle libertà comunali. Diede fuoco alle polveri la nomina del nuovo vescovo a successione di Ariberto da Intimiano, morto nel 1045, il carnefice degli eretici di Monforte delle Langhe. L’assemblea cittadina, con l’avvento del Sacro Romano Impero, aveva perso la prerogativa di nominare in autonomia i suoi vescovi; tuttavia le era lasciata la facoltà di proporre una rosa di candidati tra i quali l’imperatore avrebbe scelto. Stavolta così non avvenne; Enrico III nominò in tutta autonomia il feudatario Enrico da Velate, uomo corrotto e simoniaco. La città reagì con la rivolta dei patarini che chiesero al papa di esprimersi. Roma non si lasciò pregare per intervenire nella controversia anche perché controparte nella lotta per le investiture. Nel complesso però il movimento pataro si sentì strumentalizzato dall’appoggio del Vaticano che fu sensibile alle istanze del movimento solo durante i pontificati di Alessandro II e di Gregorio VII. Alla fine di questa controversia, l’assemblea cittadina ebbe ancor meno voce in capitolo; il vescovo era adesso nominato dal papa che per giunta andò reintegrando le vecchie gerarchie ecclesiastiche che il movimento aveva combattuto. Così, resosi conto che la Chiesa dei poveri non sarebbe mai sorta, il patarismo cominciò a sfaldarsi, e parte dei suoi seguaci, non credendo più nella riforma di una gerarchia corrotta dai beni mondani, si orientò verso le dottrine del pauperismo evangelico (come quella sostenuta da Arnaldo da Brescia) o millenariste (come quella più in là predicata da Fra’ Dolcino) o, ancora, aderì al catarismo e finendo per questo perseguitata da papa Lucio III.

Ma cos’era questo catarismo? È stato definito la più grande alternativa religiosa occidentale alla Chiesa Cattolica del XII e del XIII secolo. Le aree in cui trovò maggiore diffusione furono la Francia meridionale e l’Italia settentrionale. Qualcuno ha suggerito un collegamento dottrinale del catarismo con il priscillianismo. Priscilliano è stato il primo martire cristiano ucciso per mano d’altri cristiani nel 385; egli, rifacendosi al dualismo manicheo, predicava che il corpo era opera del demonio, e che l’anima, fatta della stessa sostanza di Dio, era stata imprigionata nel corpo come punizione per i suoi peccati. Anche il catarismo aveva una visione cosmica di stampo dualista, però troppi secoli lo separano dall’insegnamento di Priscilliano, pur diffuso nella Gallia meridionale, per pensare ad una derivazione diretta. Non bisogna comunque dimenticare che quella era stata terra molto radicata nello gnosticismo contro cui Ireneo da Lione dovette combattere con grande impegno. È possibile che questo, nonostante i secoli di distanza, abbia costituito un elemento di recettività per le dottrine dualistiche. Ma la fonte diretta del catarismo va ricercata in una serie di dottrine provenienti dal Medio Oriente e passanti per i Balcani. Il primo riferimento in ordine cronologico è certamente il manicheismo, una complessa dottrina sincretista, sorta nel III secolo, che s’ispirò al Cristianesimo, ma anche al Buddismo, al Mazdeismo e allo Gnosticismo. La cosmogonia manichea si basava sulla contrapposizione tra regno del Bene e della Luce (retto da Dio, il Padre di Grandezza) e il regno del Male dominato dal Principe delle Tenebre. V’è anche posto per un “Gesù, il Luminoso”, ma in questo sistema l’elemento cristiano era marginale, più apparente e terminologico che di sostanza. Il manicheismo è stato importante riferimento per il paulicianesimo, una setta cristiana dal dualismo più spinto sorta in Armenia nel VII secolo. I pauliciani distinguevano tra due Dei: quello malvagio del Vecchio Testamento, creatore del mondo e della materia, e il Dio buono del Nuovo Testamento, creatore dello spirito e dell’anima, l’unico degno di adorazione. Il paulicianesimo sopravvisse in Armenia, come comunità isolate e dissimulate, fino all’invasione russa del 1828. Nell’Impero Bizantino fu invece quasi sempre combattuta dall’ortodossia finché i suoi seguaci, nel X secolo, non vennero deportati nella Tracia come forza d’urto contro le invasioni dei Bulgari. Tuttavia questa deportazione produsse un effetto non previsto dagli imperatori bizantini: contribuì alla nascita di altri gruppi eterodossi dualistici come i bogomili che si diffusero per tutta la penisola balcanica e che si ritiene siano gl’ispiratori del movimento cataro. I bogomili, a eccezione di quelli di Bosnia, avevano una visione cosmica meno radicale dei pauliciani. Credevano infatti in un solo Dio, padre di Cristo e di Satanael. Quest’ultimo veniva identificato dai bogomili con il Demiurgo e il dio dell’Antico Testamento, creatore del mondo materiale e dei corpi degli uomini all’interno dei quali erano stati imprigionati gli angeli ribelli. Missione di Cristo era quella di sconfiggere Satanael (che da allora divenne Satana) e di liberare gli angeli intrappolati nei corpi umani. Per far ciò aveva preso solo apparenza della natura umana, rimanendo sempre puro spirito e quindi morendo sulla croce solo in apparenza (visuale docetista).

I catari, detti anche albigesi (dalla città di Albi, in Provenza), erano dualisti cristiani come i bogomili, e come questi si dividevano in dualisti assoluti e dualisti moderati. Per gli assoluti, due Dei erano sempre esistiti in una eterna lotta tra il bene e il male: il Dio santo e giusto del Nuovo Testamento, creatore del mondo dello spirito, e il Dio nemico o Satana creatore del mondo materiale. Per i dualisti moderati (detti monarchiani) Satana non era un dio ma un angelo ribelle, autore comunque del mondo materiale. Lusingato ad unirsi a Satana, un terzo degli angeli fu imprigionato nei corpi umani; ciò spiegherebbe l’anelito dell’uomo ad abbandonare la dolorosa prigionia del corpo per fare ritorno al Padre. Fondamentale atto in prospettiva di tale ricongiungimento era il “Consolament”, un rito complesso con imposizione delle mani, fatto agli adulti che riassumeva i sacramenti cattolici del battesimo, della comunione, dell’ordinazione e dell’estrema unzione. Le comunità catare dei fedeli, che in realtà chiamavano se stessi boni homini o boni christiani, si distinguevano in semplici credenti e simpatizzanti, e in Perfetti che erano tenuti a regolare la propria esistenza con norme più rigide quali il vegetarianismo, la povertà e la castità, ed erano impegnati nell’attività missionaria. Ritroviamo analoga organizzazione tra i bogomili, i pauliciani e i manichei, anch’essi divisi tra Perfetti e Uditori o catecumeni. Lo stesso dicasi per il sacramento del consolament o consolamentum e l’adozione del Nuovo Testamento, in forma più o meno integrale.

Paulicianesimo, bogomilismo e catarismo, hanno tramandato e ravvivato in terra cristiana un “pacchetto” di elementi, sia ortodossi che eterodossi, che ha costretto la cristianità occidentale a riflettere su aspetti smarriti della propria fede a causa della corruzione dei costumi, della ricerca del potere e della ricchezza, dell’assimilazione di elementi spuri tratti dai culti pagani. Al contrario del patarismo, che aveva tentato una riforma interna alla chiesa, il catarismo non derivava dal cattolicesimo e non intendeva avere alcunché in comune con esso. Quella catara era una vera chiesa alternativa che, per il solo fatto di esistere, rappresentava una reale sfida religiosa, morale e sociale alla cristianità tradizionale. La Chiesa cattolica, reduce dal grave smacco dello scisma d’Oriente e dal fallimento della prima Crociata, si rese perfettamente conto del rischio per la sua stessa sopravvivenza che la presenza di questa organizzazione nel cuore dell’Europa occidentale rappresentava. Pertanto, quando prese atto di non poter riassorbire il fenomeno, la sua reazione fu rabbiosa e violentissima e assunse la forma di un vero genocidio; oggi diremmo: di una “pulizia etnica”.

Facciamo adesso un passo indietro nel tempo, agli inizi del IX secolo, e guardiamo cosa succede nella diocesi di Torino. Qui vediamo Claudio, il vescovo della città, scagliarsi contro le superstizioni di cui è imbevuta la religiosità popolare. Egli non si limita a citare le omelie di Massimo, suo illustre predecessore, anch’egli impegnato contro le degenerazioni del culto. Fa di più: passa alle vie di fatto. Distrugge immagini e crocefissi, proibisce l’uso delle candele, la venerazione delle reliquie, il culto della Madonna e il ricorso all’intercessione dei santi, scoraggia i pellegrinaggi. La popolazione è divisa: alcuni contestano il suo zelo iconoclasta altri approvano il suo operato. Il sinodo di Parigi, nell’825, giudica troppo radicale l’azione di Claudio; l’Imperatore è perplesso e il Papa non gli risparmia critiche. Tuttavia il vescovo non viene rimosso dall’incarico, la Chiesa non lo condanna come eretico ed egli conserva la carica di Esegeta Ufficiale fino al giorno della sua morte.

Come spiegare quella che sembra l’avventura di un solitario don Chisciotte in abito talare, tutto compreso in una disperata battaglia contro i mulini a vento della superstizione? La si spiega benissimo contestualizzando la vicenda. Quelli erano gli anni della seconda persecuzione iconoclasta. Per influenza del califfato islamico e, soprattutto, dei pauliciani di casa l’imperatore bizantino Leone III Isaurico si convinse che Dio non avrebbe potuto proteggere la nazione finché questa fosse rimasta preda dell’idolatria e della superstizione indotte dal culto delle immagini. Diversi passi biblici lo incoraggiavano in questo convincimento, a cominciare dal secondo punto del decalogo ancor oggi considerato in vigore nella Chiesa ortodossa: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai” (Es 20,4-5). Così egli, nel 726, dichiarò per decreto il culto delle immagini sacre alla stregua di quello degli idoli e ne ordinò la distruzione. A seguire anche le reliquie dei santi furono considerate causa d’idolatria e al contempo si sviluppò un rifiuto per i culti d’intercessione dei santi. Particolarmente dura fu la reazione, e la conseguente repressione, dei monaci bizantini che dal culto delle immagini traevano lautissimi guadagni. Questa linea venne seguita anche dai successori di Leone III fino all’842. Con poche importanti eccezioni, quasi tutte al femminile. Nel 787 l’imperatrice Irene, d’accordo con papa Adriano I, convocò il secondo Concilio di Nicea allo scopo di reintrodurre il culto delle immagini. Lo svolgimento dei lavori non riservò sorprese in quanto i vescovi contrari a questo culto, che pure rappresentavano una parte considerevole dell’assemblea, furono minacciati di rimozione e d’esilio se avessero sostenuto l’iconoclastia. Roma, ovviamente, accettò le conclusioni del Concilio ma a Costantinopoli iconoclasti e iconoduli continuarono a contrastarsi sino all’avvento dell’imperatore Leone V, detto l’Armeno (813-820), che tornò a combattere il culto delle immagini convinto che le sfortune dell’Impero fossero da attribuire al giudizio negativo di Dio sulla degenerazione in senso idolatra della religione. La linea di Leone V fu seguita anche dai suoi successori Michele II il Balbo e Teofilo. Alla morte di questi, la moglie Teodora, da sempre segretamente devota al culto delle immagini, si adoperò per neutralizzare il partito degli iconoclasti. Perseguitò i pauliciani, riaprì i monasteri e impose il monaco Metodio come patriarca di Costantinopoli. Insieme indissero nell’843 un concilio a Costantinopoli che scomunicò definitivamente l’iconoclastia rinnovando le decisioni di Nicea. Questa vicenda, pur concludendosi nel verso voluto da Roma, contribuì a scavare il solco (insieme ad altri punti di disaccordo quali il celibato per i preti e il digiuno sabatico) che porterà allo scisma tra le due Chiese.

Ma in che modo può collegarsi il vescovo Claudio di Torino con lo zelo iconoclasta della Chiesa d’Oriente? Va anzitutto ricordato che come tutti i vescovi dell’Italia settentrionale egli era di fatto un funzionario imperiale: era infatti stato nominato da Ludovico il Pio, il figlio di Carlo Magno. I Franchi nella disputa iconoclasta avevano assunto una posizione di moderata contestazione alle decisioni del secondo Concilio niceano, non condannando le immagini in sé ma l’uso idolatrico che poteva farsene. Su disposizione dello stesso Carlo Magno furono redatti i cosiddetti Libri Carolini che giustificavano la presenza delle immagini nelle chiese nella sola valenza didattico-estetica, con esclusione di quella liturgica e, ancor più, soteriologica. Papa Adriano li condannò e, quando furono riscoperti nella metà del XVI secolo, vennero posti all’indice dalla Chiesa cattolica. Calvino, il riformatore ginevrino, li utilizzò invece come base teorica contro il culto delle immagini. La posizione dell’Imperatore era sostenuta da buona parte dei vescovi carolingi che nel Concilio di Francoforte (794) espressero una linea teologica d’equilibrio tra le concezioni estreme dell’iconodulia e dell’iconoclastia.

La posizione di Claudio, tuttavia, non poteva definirsi d’equilibrio. Tant’è vero che il successivo Concilio di Parigi (824), nel ribadire una formula di compromesso, condannò l’operato del vescovo torinese giudicandolo troppo estremistico. Come spiegare tale zelo? Certamente la diocesi subalpina doveva presentare aspetti superstiziosi di religiosità popolare così esasperati da apparire comunque inaccettabili ad uno sguardo rigoroso e moralizzatore persino ortodosso. Ma è possibile pensare alla chiesa torinese come molto più degradata rispetto a tante altre che non suscitarono analoga riprovazione? Dobbiamo pertanto cercare la ragione nella formazione di Claudio, e questa ci porta prima in Spagna e poi, neanche a dirlo, a Lione. Infatti Claudio nacque in Spagna, nel 780, e fu allievo dell’adozionista Felice, vescovo della città catalana di Urgel. La Catalogna è terra di confine, geneticamente affine all’Occitania e a quel tempo in parte incorporata nell’emirato omayyade. Claudio pur vivendo nella marca franca si confrontò certamente con il monoteismo musulmano, figurativamente irrappresentabile; come d’altronde con il monoteismo ebraico allora molto ben presente in terra di Spagna. Intorno all’800 egli si trasferì con Felice a Lione. Qui proseguì gli studi sotto la guida del vescovo della città, Leidrado di Norimberga, uomo assai colto già bibliotecario di Carlo Magno.

Ai fini del nostro tema principale, ci fermiamo per un inciso. Altro allievo di Leidrado fu Agobardo, pure lui spagnolo e coetaneo di Claudio. Per le sue capacità Leidrado lo volle come suo ausiliare e poi successore. Anche Agobardo lottò contro le superstizioni predicando, tra l’altro, la distruzione delle immagini e ciò c’induce a pensare che fosse stato Leidrado a inculcare nei due discepoli quest’anelito di riforma cultuale. Ma qui Agobardo c’interessa per un ulteriore motivo. Schieratosi contro le ambizioni di Giuditta, seconda moglie di re Ludovico, fu sollevato dall’incarico e allontanato per qualche tempo da Lione. In questa decisione egli ravvisò l’ostilità della comunità ebraica da sempre molto potente e protetta nella città. E ciò perché egli era intervenuto affinché ai giudei fosse proibito avere schiavi cristiani. Inoltre Agobardo lamentava i fatto che molte donne cristiane, a servizio dai giudei, lavoravano la domenica e osservavano il sabato. Come se ciò non bastasse, le autorità civili avevano spostato il giorno di mercato dal sabato alla domenica per consentire il rispetto dei riti religiosi ebraici. E infine egli era stato sostituito nell’ufficio di vescovo con Amalario di Metz noto per dire messa assieme agli ebrei (ovvero per celebrare la funzione cristiana in giorno di sabato). Perché l’amaro sfogo di Agobardo è per noi importante? È importante soprattutto per le informazioni oggettive che possiamo cogliere tra le righe. Dato che è impensabile che un’autorità civile imperiale, dichiaratamente cristiana, potesse aver capitolato nei confronti di una minoranza sia pure influente come quella ebraica al punto da sostituire il giorno festivo cristiano con quello giudaico, non ci resta che una conclusione: la cittadinanza cristiana di Lione non aveva ancora perduto il ricordo dell’osservanza sabatica. Stiamo parlando di Lione, cioè della città più importante della Gallia romanizzata, evangelizzata direttamente dai discepoli dell’apostolo Giovanni; di una comunità cristiana a lungo combattuta tra l’esigenza di preservare l’eredità dottrinale delle origini e il desiderio di non ribellarsi all’autorità di Roma papale. È logico pertanto attendersi che qui l’uso originario di santificare il sabato si fosse protratto a lungo, e presso alcuni anche dopo che le autorità religiose lo avevano del tutto sostituito con la domenica. Facile è pertanto ravvisare nell’osservanza del sabato presso le donne al servizio dei giudei più il ritorno ad un’antica abitudine che una commistione di culti. Lo stesso trasferimento del giorno di mercato dal sabato alla domenica andrebbe vista in tale prospettiva come una soluzione accettabile non solo, com’è logico, alla comunità ebraica ma anche alla gran parte di quella cristiana che continuava ad attribuire al sabato la dignità di giorno di culto. Ce ne dà testimonianza lo stesso Agobardo che accusa il nuovo vescovo Amalario di celebrare i sacri uffici in giorno di sabato. Questo dibattito ancora presente nella comunità urbana del IX secolo spiega come mai si riscontrino osservatori del sabato tra le comunità rurali e ancor più tra quelle valligiane (risaputamente più conservatrici) anche nei secoli a venire nell’ampia area d’influenza del lionese. Ancora nel XVI secolo si trovavano osservatori del sabato, e d’altre antiche consuetudini cristiane, così come ci testimonia un’indagine condotta in Provenza per ordine del re Luigi XII.

Ma torniamo a Claudio che, sotto la guida del vescovo Leidrado, si specializzò soprattutto nell’esegesi biblica scrivendo commenti a vari libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Alla morte di Carlo Magno, avvenuta nell’814, il nuovo imperatore Ludovico il Pio lo portò con sé ad Aquisgrana nominandolo maestro di Sacra Scrittura della scuola palatina. Un paio d’anni più tardi, resasi vacante la sede vescovile di Torino, ed essendo quello un periodo particolarmente difficile per la ribellione del nipote Bernardo, re d’Italia, la scelta di Ludovico cadde su Claudio ritenuto uomo energico e al contempo fedele. Essendo la maggior parte del clero italiano schierato con Bernardo, l’accoglienza a Claudio non fu calorosa. Anche per lui, d’altronde, l’impatto con la diocesi subalpina non dovette essere gradevole: avvezzo ai grandi monoteismi, fine conoscitore delle Scritture e critico, come gran parte del clero carolingio, al culto delle immagini egli dovette trovare sconcertante il culto superstizioso praticato dai torinesi. La sua energica azione di riforma dovette alienargli ancor di più le simpatie dei suoi chierici, che potevano farsi forti dell’autorità di papa Pasquale I comprensibilmente critico per gli “eccessi” del prelato carolingio. Ma il fatto interessante è che, per sua stessa constatazione, egli non trovò solo avversari nella sua diocesi bensì pure fedeli seguaci.

Chi potevano essere questi seguaci? Nulla vieta che tra loro vi fossero chierici e fedeli persuasi dall’insegnamento di Claudio. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la diocesi di Torino comprende parte importante di quelle valli che nel 1096 papa Urbano II dichiarò infestate dall’eresia. Certamente Claudio conobbe quelle antiche comunità di cristiani noti come vallesi o valdesi (dal provenzale vaud o vald che significava bosco), appellativo dato dai loro denigratori con il senso dispregiativo di zotici abitanti dei pendii e dei boschi. Anch’essi, come Claudio, rifiutavano il ricorso all’intercessione dei santi, la venerazione delle reliquie, i pellegrinaggi. Non erano “eretici” in senso stretto perché non avevano sviluppato una dottrina che li caratterizzava. Semmai erano rimasti indietro, agli insegnamenti dei loro padri, e si riconoscevano con difficoltà nei cambiamenti dottrinali e liturgici che la Chiesa aveva nel tempo introdotti. Ma non avevano intenzione di fondare una nuova chiesa, piuttosto erano critici con le gerarchie ecclesiastiche che, cedendo al compromesso con il potere politico, si erano lasciate corrompere dalle tendenze del mondo e avevano smarrito il senso della vocazione evangelica.

Le comunità valdesi erano davvero antiche, per ammissione dei loro stessi nemici. Scriveva Rainer Sacho, inquisitore domenicano morto nel 1260, riferendosi ai valdesi: “Non c’è altra setta così pericolosa come i Leonisti per tre ragioni: per primo è la più antica; alcuni dicono che è così antica come Silvestro, altri, come gli apostoli stessi. In secondo luogo, è generalmente molto diffusa; non c’è paese in cui non si è infiltrata. In terzo luogo, mentre le altre sette sono profane e blasfeme, questa ritiene un alto grado di pietà; vivono giustamente tra la gente, e credono che tutto ciò che riguarda Dio è bene”. Le parole di Sacho furono confermate dal vescovo Claudio di Seyssel, morto nel 1520, a lungo impegnato nella conversione delle comunità valdesi attorno a Pragelato. Nel suo trattato De divina Providentia egli afferma che uno dal nome Leone fu condannato come fondatore dell’eresia valdese nelle valli, al tempo dell’imperatore Costantino. In seguito, quando gl’imperatori Onorio e Teodosio nel 413 emanarono norme severe contro la pratica del ribattesimo, molti lasciarono posizione e ricchezze e cercarono rifugio nelle valli del Piemonte. Analogamente il cardinale Osio, legato pontificio al Concilio di Trento, parlando dei valdesi “che fino a poco tempo fa praticavano ancora il secondo battesimo” li fa risalire ai tempi di Agostino. Teodoro di Beza, collaboratore di Calvino, che conobbe i valdesi in tempo di persecuzione, fa risalire la prima evangelizzazione delle valli alla spedizione dei discepoli di Policarpo di Smirne nelle Gallie. Un gruppo di cristiani potrebbe avervi trovato rifugio nel 177 quando sotto Marco Aurelio si perseguitò la Chiesa di Lione.

Le Alpi sono per natura terra di passi e di rifugio. Da quelle occidentali, per la via che collegava Lione a Milano, vi transitarono mercanti, bardi e predicatori che evangelizzarono i valligiani del posto. Lo zoccolo duro dei valdesi era perciò costituito dagli abitanti del luogo convertiti da vecchia data al cristianesimo. Ad essi si sono aggiunti nel tempo molti perseguitati dalla religione ufficiale in fuga dalle città. Quando l’inquisizione giunse anche nelle valli, i valdesi fecero fronte comune con i catari dai quali – come afferma Carlo Papini – essi “assorbirono molte pratiche ma ben poche dottrine”. Come i catari essi si divisero in uditori e perfetti, cioè i predicatori itineranti poveri e casti denominati “barba” (zio). Questi predicatori missionari si spinsero ben oltre le Alpi Cozie dilagando verso le Puglie, la Provenza e l’Europa centrale. I nomi dei barba giuntici dagli atti dei processi inquisitoriali testimoniano origini diversificate: dall’Italia centrale e meridionale, alla Francia e a tutto l’arco alpino.

Dall’area culturale valdese si generarono vari movimenti di riforma, talvolta furoreggianti talaltra assolutamente pacifici. Del primo ricordiamo la predicazione di Pietro di Bruys, sceso dalle Alpi attorno al 1112 per vagare nella Francia meridionale, noto per lo zelo iconoclasta e i roghi di croci nel venerdì santo su cui provocatoriamente cuoceva carne di cui cibarsi. Per tali eccessi la stessa popolazione, che prima lo aveva accolto, lo catturò e lo gettò in uno dei suoi roghi di croci. Il messaggio petrobrusiano, emendato d’ogni eccesso teatrale e provocatorio, fu ripreso con successo dall’ex monaco Enrico di Losanna. Egli rifiutava il battesimo dei bambini e il concetto di peccato originale. A parte il battesimo degli adulti, contestava gli altri sacramenti, le preghiere per i defunti, i riti come la messa, il ruolo del clero, le ricchezze dei vescovi, in genere la funzione mediatrice della Chiesa. La salvezza si otteneva per la fede personale del credente. Come può notarsi, una vera anticipazione del pensiero protestante esploso nel XVI secolo. Altro movimento pacifico di derivazione valdese è quello fondato dal ricco mercante di Lione di cui non si conosce il vero nome. Egli chiamava se stesso Valdesius, per indicare – secondo il contemporaneo Goffredo d’Auxerre – , il suo luogo di nascita (Pietro Valdo è nome di coniazione tarda). Valdesio s’era arricchito commerciando in stoffe e prestando denaro a interesse. Toccato dall’Evangelo, decise di liberarsi dei suoi beni materiali e di vivere in povertà dedicando la propria vita a Cristo. Così, circondatosi di uomini e donne del popolo, cominciò a predicare il distacco dalle ricchezze di questo mondo. Era il 1176. Finché fu vescovo a Lione Guichard di Pontigny, un cistercense deciso a mettere ordine tra i costumi rilassati del clero suo sottoposto, i poveri di Lione (così furono chiamati i seguaci di Valdesio) poterono operare con pochi fastidi. Ma, alla morte del prelato, la gerarchia ecclesiastica intimò l’alt a Valdesio e ai suoi seguaci e, al sofferto rifiuto di costoro, nel 1184, li scomunicò e li espulse dalla città. Così i poveri uomini di Lione entrarono in contatto e si fusero con i petrobrusiani e gli enriciani, poi, varcate le Alpi piemontesi, dilagarono in Lombardia, la regione più ricca e progredita d’Europa. Qui essi vennero in contatto con i dissidenti religiosi del luogo: con i patarini e gli arnaldisti (i seguaci di Arnaldo da Brescia) che invocavano una Chiesa libera da compromessi con il denaro, l’immoralità e i poteri di questo mondo; e con gli umiliati, monaci laici che vivevano in comunità familiari e si mantenevano con la tessitura della lana. Nel 1196, su un terreno ottenuto dal Comune di Milano, essi costruirono un collegio (la schola) in cui venivano a formarsi predicatori da tutte le comunità valdesi, persino dalla Francia e dalla Germania. Ma mentre la loro attività missionaria si spingeva a raggiera dalla Spagna alla Boemia, in Lombardia si verificò una spaccatura che darà vita ad un gruppo indipendente che prenderà il nome di poveri lombardi. Qui infatti si ebbe presto una diversa concezione del movimento rispetto all’impostazione di Valdesio che disdegnava il matrimonio, il lavoro manuale e la gerarchia interna. I lombardi invece trovavano disfunzionale la suddivisione in predicatori casti e mendicanti e in amici sostenitori. Inoltre erano pessimisti sulla possibilità di emendare dall’interno la Chiesa romana e preferivano darsi un’organizzazione gerarchica e pastorale alternativa. Nel 1218 si tenne a Bergamo un incontro per tentare la composizione del dissidio tra fratelli italici e fratelli ultramontani ma i due gruppi non trovarono sul momento l’accordo. Questa divisione si ricomporrà quando le persecuzioni papali, inizialmente accese contro i catari, si estenderanno ai valdesi e l’impostazione lombarda risulterà l’unica percorribile.

Ma per tornare al nostro tema, i valdesi erano osservatori del sabato? Se ci riferiamo ai valdesi dei primi secoli la risposta non può che essere affermativa. L’attività missionaria ancora ai tempi di Costantino, sia che giungesse da Lione sia da Milano, non poteva che portare il rispetto per il quarto comandamento del Decalogo. Se ci riferiamo in generale al fenomeno valdese, allora bisogna tenere conto dell’estensione sia temporale che geografica, nonché delle strategie di sopravvivenza del movimento. C’è chi opportunamente preferisce parlare di valdismi, al plurale. Abbiamo già detto che i valdesi erano più concentrati sulla morale che sulle dottrine, non pensavano a costituirsi in chiesa alternativa; inoltre non aiutò la loro strategia di dissimulazione che li vedeva partecipare ai riti e alle funzioni della Chiesa romana, in tempo di persecuzione, per non tradire la loro reale appartenenza. Ciò nonostante ci sono pervenute parecchie testimonianze che associano i valdesi, o almeno una parte di loro, all’osservanza del sabato. Capita nei documenti che i valdesi alpini siano definiti Sabbatati o Inzabbatati evidentemente in riferimento al giorno di riposo osservato. Oppure accade che siano associati agli osservatori del Sabato, come nel decreto di re Alfonso d’Aragona: “A tutti gli arcivescovi, vescovi e a tutti quanti… Vi comandiamo che gli eretici, cioè i valdesi e insabbatati, dovranno essere scacciati dalla presenza di Dio e da tutti i cattolici e si ordina di lasciare il nostro regno”. Appartenenti alla famiglia valdese sono considerati i Passagini, così chiamati non si sa bene perché: alcuni dicono perché abitavano i passi alpini, altri perché osservavano la Pasqua (Pesach) quartodecimana. Vengono citati in parecchi documenti, bolle e decreti del XII secolo. Si sa di certo che osservavano il sabato, si astenevano dalle carni impure e credevano in una qualche forma di subordinazionismo. Erano diffusi soprattutto in Lombardia. Una particolare interazione vi fu tra i valdesi di Boemia e il locale movimento hussita. Jan Huss, il loro fondatore, prese probabilmente da loro l’avversione per le indulgenze, i pellegrinaggi, l’intercessione dei santi e la venerazione delle reliquie. A loro volta i valdesi attinsero dagli hussiti la loro riflessione teologica. La letteratura valdese medievale altro non è che la traduzione in lingua provenzale dei trattati hussiti. Nel 1467 le comunità valdesi ceche si unirono con gli hussiti a formare la Unitas Fratrum (unità dei fratelli) o Chiesa dei Fratelli Boemi, molto numerosa localmente. Agli inizi del ‘500 Erasmo da Rotterdam scriveva che questi Boemi osservavano con scrupolo il settimo giorno. Anche i Fratelli Moravi, derivati dal medesimo ceppo, osservavano il sabato. Il conte Zinzendorf, riformatore di quella comunità, scrisse in proposito: “Ho usato il sabato per riposo già da molti anni e la nostra domenica per proclamare l’Evangelo”. Quando nel 1741 i Moravi guidati da Zinzendorf si trasferirono oltreoceano, in Pennsylvania, portarono con sé il loro bagaglio valdo-hussita. Si dichiarano discendere dai valdesi olandesi anche gli anabattisti mennoniti fra cui tuttora ci sono osservatori del sabato. Comunque ancora alla vigilia della Riforma protestante si trovavano valdesi osservatori del sabato anche nelle valli alpine. Abbiamo già anticipato dell’inchiesta fatta svolgere dal monarca francese: “Luigi XII, Re di Francia (1498-1515) essendo stato informato dai nemici dei valdesi, residenti in una zona della Provenza, a proposito di accuse di molti atroci delitti, inviò il Procuratore del Regno, e un Accademico della Sorbona, per indagare su questa faccenda. Al loro ritorno, essi riferirono d’aver visitato tutte le comunità parrocchiali ma di non aver trovato alcuna traccia dei reati loro attribuiti. Al contrario, notarono che questi osservavano il sabato, le disposizioni sul battesimo così come insegnato dalla chiesa primitiva, e istruivano i loro figli sugli articoli della fede cristiana e sui comandamenti di Dio. Quando il Re udì il resoconto dei commissari, affermò che i valdesi erano più bravi di lui e del suo popolo” (William Jones, Storia della Chiesa Cristiana, Londra, 1818)

È solo dal 1848 che i valdesi possono finalmente vivere tranquilli. Ma fino a pochi decenni prima dovettero subire terribili persecuzioni. Alla fine la maggior parte di loro era stata sterminata o convertita forzatamente al cattolicesimo. Se non fosse stato per le proteste di Cromwell e per l’aiuto offerto dai protestanti svizzeri e olandesi, oggi nelle Alpi piemontesi di loro non resterebbe traccia. Nel 1532 essi tennero un sinodo storico nella valle di Angrogna per decidere se aderire alla religione dei loro benefattori, cioè alla Riforma protestante. Il dibattito fu molto acceso e i presenti, in rappresentanza di tutte le comunità di lingua neolatina, si divisero tra conservatori e progressisti; alla fine ebbero la meglio i filo-protestanti e la comunità adottò le Ordonnances ecclesiastiche ginevrine. Oggi la Chiesa valdese è di fatto una chiesa calvinista con i relativi articoli di fede: il riposo domenicale, il battesimo dei bambini, l’immortalità dell’anima, ecc.

A questo punto si pone spontanea una domanda: in che relazione si posero i grandi riformatori con il riposo sabatico? Generalmente pessima, bisogna ammettere. Certo stupisce che un movimento di riforma, che fa della Sola Scriptura il suo motto specifico, non abbia ripristinato elementi di fede chiaramente biblici e neotestamentari quali il riposo sabatico, il battesimo degli adulti consenzienti, lo stato incosciente dei defunti, ed altro ancora. Ma la ragione non è poi così difficile da individuare. Pensiamoci bene: per molti aspetti si può affermare che la Riforma protestante sia stata un fatto interno alla Chiesa cattolica. Molti Riformatori erano preti e teologi di quella Chiesa, nati e maturati in quel contesto, abituati ad osservare le sue festività, rispettosi della sua autorità; essi si sentivano dei buoni cattolici e lo strappo con Roma fu un evento sofferto. Non a caso il luteranesimo prese avvio per un fatto anzitutto morale (l’abuso delle indulgenze) prima che dottrinale. Con tali premesse e condizionamenti non si poteva pretendere da essi che in un batter d’occhio individuassero tutti gli elementi spuri che nella Chiesa s’erano accumulati nei secoli, per ristabilire quindi la completa purezza della religione apostolica.

Un grave errore di prospettiva dei Riformatori, dovuto proprio a tale condizionamento, è riscontrabile nella considerazione che essi ebbero per il giorno di riposo. Oggi molte Chiese protestanti che si fanno direttamente derivare da loro pongono l’enfasi sulla sacralità della domenica quale giorno di riposo cristiano la cui autorità deriverebbe direttamente dal quarto comandamento. Questo tuttavia non fu il convincimento dei Riformatori che, in sintonia con la posizione romana, non attribuivano a un comando divino la fissazione delle festività religiose bensì all’autorità della Chiesa che avrebbe il diritto di modificarle a suo piacimento sulla base della semplice opportunità. Nella Confessione augustana, redatta da Melantone con l’approvazione di Lutero, si afferma che domeniche, Pasqua, Pentecoste e gli altri giorni sacri dovrebbero essere mantenuti in quanto stabiliti dalla Chiesa. Tuttavia la loro osservanza non è da considerare come necessaria alla salvezza e analogamente la loro violazione non è da ritenersi peccato. La Confessione delle chiese svizzere stabilisce: “L’osservanza del Giorno del Signore non è fondata su un comandamento divino bensì sull’autorità della Chiesa che può modificarlo a suo giudizio”. Tyndale, il grande riformatore inglese: “Quanto al riposo sabatico, essendo noi i signori del sabato, possiamo cambiarlo con il lunedì o con qualsiasi altro giorno se ne vediamo la necessità, possiamo anche santificare un giorno su dieci se lo riteniamo opportuno”. Zwingli, il grande riformatore svizzero: “Poiché noi non siamo legati al tempo, ma il tempo è nostro servo, così che è lecito e legittimo per ogni chiesa, quando incalza la necessità (come di solito avviene in tempo di mietitura), trasferire la solennità e il riposo del Giorno del Signore, o Sabato, a un altro giorno”. Calvino, il noto teologo e riformatore francese: “Per quanto gli antichi non abbiano sostituito senza sufficienti ragioni il sabato con quel che noi chiamiamo giorno del Signore… non porrei tutta quest’enfasi sulla cadenza settimanale che obbligherebbe la Chiesa ad una immutabile fedeltà nei suoi confronti; al contempo non condanno quelle chiese che formalmente adottano altri giorni per le loro adunanze, purché si tengano a distanza dal pregiudizio”. Sempre Calvino, durante una discussione con i suoi amici di Ginevra, sull’opportunità per i riformati di adottare il giovedì come giorno di riposo allo scopo di separarsi in modo più radicale dalla Chiesa romana, riconobbe in questa possibilità “un esempio appropriato di libertà cristiana”.

Questa posizione relativistica, che sganciava il riposo settimanale dal comandamento divino, non favorì certamente quelle spinte a sostituire un’istituzione (qual era la domenica), ormai così radicata presso la cristianità, che Lutero definì “abitudine inoffensiva” da non doversi abbandonare alla leggera. Eppure le proposte arrivarono, ed anche da nomi di primo piano come Carlostadio, teologo e riformatore tedesco, che per un certo tempo collaborò con Lutero. Egli sosteneva che “riguardo all’osservanza della domenica si avverte un certo disagio, visto che sono stati gli uomini a stabilirla”. Infatti egli osservò il sabato e lo ritenne molto importante per la vita della chiesa che, santificandolo, anticipava e pregustava il cielo. Scriveva George Butler nel 1904 che Carlostadio, “uno dei più importanti riformatori, nell’opposizione alla Chiesa di Roma si pose avanti a Lutero e a molti altri ancora. La sua posizione per certi aspetti fu più coerente di quella di Lutero. Egli sostenne fermamente la necessità di rigettare ogni aspetto del cattolicesimo che non trovasse il sostegno delle Scritture, mentre la linea di Lutero era quella di conservare tutto ciò che non fosse esplicitamente vietato. Se avessero seguito il principio suggerito da Carlostadio, le Chiese protestanti si sarebbero avvicinate molto di più alla verità biblica del sabato rispetto a quanto si è verificato”.

Nonostante non si sentisse legato ad un giorno particolare, all’inizio Lutero non era ostile al sabato. Prese anche in considerazione la possibilità di adottarlo come giorno di riposo della Riforma. Ammise persino che da un punto di vista scritturale Carlostadio avesse ragione. Affermò infatti con un tocco d’ironia: “Se Carlostadio scrive ancora sulla questione del sabato la domenica dovrà capitolare, e pertanto bisognerebbe ritornare al sabato”. I suoi collaboratori, tuttavia, gli fecero notare che non tutti i suoi seguaci erano così pii da accettare un cambiamento tanto impopolare, e che esso avrebbe rischiato d’allontanare sostenitori potenti e quindi importanti per il successo della causa. Questa vicenda ci conferma sul fatto che la Riforma protestante fu purtroppo una riforma incompiuta. Accettò molti compromessi; e ciò, come avviene sempre quando la Chiesa esce dalle catacombe per appoggiarsi su strumenti mondani quali il potere, la ricchezza e l’autorità esteriore coercitiva, indebolì fortemente la sua spinta evangelica e riformatrice. Pertanto anche Sola Scriptura è ancora solo un obiettivo raggiunto parzialmente. Come ammette il teologo protestante Jean Cadier: “I riformati, come gli altri, sono più sottomessi alla tradizione di quanto vogliano riconoscere. Sulla questione della domenica…, del battesimo dei bambini… l’apporto della tradizione è stato nettissimo. Allorché una confessione cristiana, come gli Avventisti, nel nome della Scrittura, inizia su questi difficili soggetti una controversia con i riformati, essa è in anticipo vittoriosa, e i testi con i quali la nostra chiesa difende la sua posizione, al di fuori del ruolo della tradizione, e senza invocare lo spirito della rivelazione, sono rari e non apportano l’adesione. Noi preferiamo dirlo molto chiaramente e affermare che c’è una tradizione protestante” (J. Cadier, Christianisme Sociale, Parigi 1973).

La Riforma protestante non nasceva dal nulla: era già nell’aria quando uomini di coraggio se ne fecero portavoce. Sia Zwingli che Lutero avevano recepito le idee dei fratelli boemi; il primo frequentandoli direttamente, il secondo tramite i colloqui intrattenuti con il generale dell’ordine Johann Staupitz. Questi, infatti, aveva delle simpatie per le dottrine dei “fratelli” e Lutero ammise che fu lui “il primo ad accendere la luce del Vangelo nel suo cuore”, e ad “aizzarlo contro il Papa”. E Zwingli in una lettera a Lutero del 1527 fa notare al collega che era il coraggio d’opporsi al potere della Chiesa e non la conoscenza che mancava al popolo, perché “molta gente capiva anche prima la sostanza della religione evangelica almeno quanto te”. I Riformatori trovarono un insperato sostegno nei principi, desiderosi d’emanciparsi dall’oppressione papale e imperiale. Tuttavia quest’alleanza con il potere secolare si basava sul vantaggio reciproco, quindi sul compromesso. Ed è proprio tale compromesso che rimproverano loro i vari movimenti d’evangelismo popolare quali i fratelli e gli anabattisti; li giudicavano non abbastanza coerenti e impegnati in questo sforzo di “restituire” una Chiesa fedele al modello delle origini. Questa diffidenza dei movimenti “restituzionisti” verso il potere secolare talvolta sfociò in aperta ostilità, come avvenne nella rivolta dei contadini capeggiati da Thomas Müntzer; ma il più delle volte era un’ostilità passiva che si esprimeva nella chiusura verso le istituzioni e, in genere, verso l’esterno della comunità, il “mondo”. Dai “fratelli” derivarono i puritani e a loro volta i quaccheri e i congregazionalisti, cui appartenevano i famosi Padri Pellegrini che emigrarono in Nordamerica sulla nave Mayflower. Quacchero era invece William Penn, il fondatore della colonia di Pennsylvania, sorta per accogliere i perseguitati religiosi dall’Europa. Dagli anabattisti derivarono gli hutteriti, i mennoniti e da questi gli amish, tutti noti per le loro austere comunità agricole. Anche i battisti, nati in Inghilterra nel 1609, in qualche modo derivano sia dai puritani che dagli anabattisti.

Ebbene, è proprio in seno a queste comunità così poco disposte ai compromessi che troviamo i maggiori osservatori del sabato nell’ambito protestante. Il più importante leader dei sabatisti anabattisti fu Oswald Glait che iniziò la sua opera nel 1527 tra gli anabattisti della Moravia, della Boemia e della Slesia. Per questa dottrina egli fu perseguitato, imprigionato e nel 1546 annegato nel Danubio. Nel 1529 lo avevano preceduto per la stessa missione Andreas Fischer e la moglie, lui impiccato e lei annegata sempre nel Danubio. La loro morte non fermò la diffusione del sabatismo presso molte comunità religiose in tutt’Europa. Nel 1617 si costituirono in Inghilterra i battisti del settimo giorno; mentre al 1671 risale la loro prima chiesa americana, fondata a Newport nel Rhode Island. Gli Stati Uniti si sono rivelati un provvidenziale rifugio per i sabatisti. Tutte le chiese restituzioniste sono state duramente perseguitate sia dai cattolici che dai protestanti istituzionali; a maggior ragione lo sono state quelle che osservavano il sabato. Persino tra i Puritani, che in maggioranza erano per un’osservanza radicale della domenica, c’era una minoranza che difendeva il sabato. Anche nella loro colonia americana, quella fondata dai Padri Pellegrini, sembra che ce ne fossero. Esistono in proposito testimonianze dei discendenti diretti. E che dire di tutti i sabatisti accolti dalla Pennsylvania a far data dal 1683? Quando nel 1741 il conte Zinzendorf vi si trasferì con i suoi fratelli Moravi, sabatisti, rimase sorpreso del fatto che praticamente tutta la popolazione tedesca ospite di quella colonia osservava il sabato. C’erano sabatisti anche tra i coloni quaccheri. Il più noto di loro era certamente Benjamin Franklin, padre della patria e, alcuni dicono, anche lui sabatista.

Attualmente negli Stati Uniti è stata contata la presenza di ben 495 denominazioni che osservano il sabato. Tra di esse troviamo: la Chiesa cattolica ortodossa americana, l’Associazione delle assemblee pentecostali del settimo giorno, la Chiesa di Cristo del settimo giorno, i Mennoniti sabatisti del settimo giorno e la Chiesa battista del settimo giorno, di cui abbiamo già detto, che trasmise la conoscenza del sabato al movimento millerita negli anni quaranta del XIX secolo e da cui sorse la Chiesa avventista del settimo giorno, la più consistente per numero tra le denominazioni protestanti sabatiste contando nel mondo quasi 15 milioni di membri adulti battezzati.


Chiamati a schierarsi

Ciò che si sta verificando, non solo negli Stati Uniti, è un rinnovato interesse per il quarto comandamento. Sempre più spesso l’argomento viene affrontato in pubblici dibattiti e nelle trasmissioni radiotelevisive. Le riviste più disparate riportano testimonianze ed esperienze di persone che hanno scoperto il valore del sabato. Persone non necessariamente legate ad un gruppo religioso, spesso singole famiglie che si autodefiniscono “Living Room Sabbatarians” perché il venerdì sera si riuniscono in salotto o attorno ad un tavolo ed aprono il sabato con una breve meditazione ed una preghiera, e che nelle seguenti 24 ore mettono da parte le normali attività e preoccupazioni della settimana per vivere un’esperienza spirituale intensa e appagante. C’è dibattito pure all’interno delle denominazioni, anche di quelle storiche. I metodisti, ad esempio, hanno scoperto che il fondatore della loro chiesa, John Wesley, osservava il sabato come si evince dalle sue prime biografie. Così, dopo un’attenta riflessione, 68 comunità locali, note come Wesley Synod, sono passate all’osservanza del sabato pur continuando a far parte del Consiglio Metodista Mondiale. La stessa cosa è avvenuta in altre denominazioni, anche fuori dagli Stati Uniti. All’Unitas Fratrum (fratelli boemi) di Polonia e Ucraina, ad esempio, che è tornata all’osservanza del sabato dopo un simposio sul tema cui hanno partecipato molti esperti e 1500 delegati in rappresentanza delle sue comunità. Persino all’interno del mondo cattolico c’è chi si pone il problema. Nel 1977 il teologo avventista Samuele Bacchiocchi si laureò presso la Pontificia Università Gregoriana con una tesi dal titolo: Dal Sabato alla Domenica. Essa documentava storicamente il passaggio dal sabato dei primi cristiani alla domenica della Chiesa di Roma. Nel 1985 la tesi, tradotta e pubblicata in volume, apparve in tutte le librerie cattoliche di lingua francese con il titolo: Du sabbat au dimanche: una recherche historique sur les origines du dimanche chrétien. L’iniziativa era del Direttore del Centro “Informatique & Bible” dell’Abbazia di Maredsous in Belgio, il frate benedettino Ferdinand Poswick. Sua era anche la lunga prefazione che cominciava con questo interrogativo: “Gesù di Nazareth abolì il sabato? Paolo, che fu spesso accusato dai suoi confratelli giudei di molte trasgressioni, fu mai accusato di trasgredire il sabato? Perché quindi i cristiani, all’inizio del quarto secolo, cessarono d’osservare il sabato? Lo fecero forse per distinguersi dai giudei e per agevolare la propria integrazione nelle ricorrenze e nelle consuetudini dell’impero costantiniano? Il riposo sabatico non rimane un segno fortemente visibile della frattura avvenuta tra l’Israele fisico e coloro che pretendono essere l’Israele spirituale?”

Quanto detto significa che ci troviamo di fronte ad un’inversione di tendenza? Certamente sì, se intendiamo una rinascita d’interesse trasversale alle denominazioni. È sempre meno cioè un argomento limitato a pochi singoli ambienti storicamente sensibili al tema del riposo sabatico. Certamente no, se intendiamo in prospettiva un ribaltamento della situazione attuale con la domenica che rischi d’essere soppiantata dal giorno di riposo biblico. Quello che stiamo rilevando è pur sempre un fenomeno minoritario. Anzi, al contrario, s’avverte una sorta di riscossa della domenica, che si concretizza nella richiesta di trasferirle gli attributi che sono propri del quarto comandamento – trasformandola a tutti gli effetti esteriori in un “sabato” della maggioranza cristiana – e di renderne obbligatoria l’osservanza per legge. Non deve trarre in inganno la presenza di gruppi sabatisti all’interno di denominazioni d’osservanza domenicale maggioritaria; la storia dei movimenti religiosi c’insegna che, falliti i tentativi di normalizzazione, la minoranza viene normalmente espulsa. Ciò che si prospetta è pertanto la contrapposizione di due movimenti interconfessionali, uno domenicale e l’altro sabatista, di cui il primo maggioritario rispetto al secondo. Come andrà a finire?

La storia che abbiamo tracciato appare come il sodalizio tra l’azione umana e un progetto sovrumano per estirpare un comandamento del Decalogo divino. Non a caso il comandamento che porta la firma del Creatore (“Farai così perché io, il Signore, ho fatto… il cielo, la terra e il mare…” – Es 20,11). Un sodalizio che sembra quasi aver raggiunto il suo scopo. Ma quel “quasi” pesa quanto un macigno perché, come abbiamo visto, nel corso dei secoli, ci sono sempre stati dei cristiani “ostinati” che non hanno voluto soppiantare con la domenica di Mitra e Zarathustra il sabato di Yahweh e di Gesù, quel Gesù che disse: “Chi mi ama osserva i miei comandamenti”. In quel “quasi” si avverte uno scontro tra titani: tra il Principe di questo mondo, che gioca in casa, che trova tanti collaboratori, che vince tante battaglie ma che, alla fine, perde la guerra. Perché ha combattuto contro l’Eterno, che lo ha lasciato fare per svelarne i disegni e il carattere, ma che è benissimo in grado di difendersi da solo. Il secondo libro dei Maccabei riferisce di un episodio accaduto alla vigilia della distruzione di Gerusalemme per opera di Nabuccodonosor. Il profeta Geremia, in seguito a un ordine di Dio, prese l’arca del patto ed altri arredi sacri del tempio e con l’aiuto di alcuni uomini pii si diresse alla volta del monte Moria, l’altura da cui Mosè contemplò la terra promessa senza potervi entrare, attualmente situata nel regno di Giordania. Lì, in una grotta, il profeta occultò i sacri arredi per sottrarli alle mani sacrileghe dei conquistatori. Quando i compagni nell’impresa tornarono indietro per segnare la strada, non furono in grado di ritrovare la caverna; allora Geremia li ammonì, rivelando loro che l’arca con le tavole della legge sarebbe rimasta nascosta agli uomini fino al giorno in cui il Signore sarebbe apparso “glorioso nella nube” (2 Mac 2,8), cioè fino alla Parusia.

Gli uomini non imparano mai dalla storia, così questa è destinata a ripetersi. Il 1259 fu un anno nefasto per l’Europa; la carestia diffusa, la pestilenza e persino l’invasione dei tartari fecero pensare che la battaglia contro l’Anticristo fosse imminente. A quegli anni si riferivano tra l’altro le profezie apocalittiche di Gioacchino da Fiore. È fu in questo contesto che sorse, per iniziativa dell’eremita francescano Raniero Fasani, il movimento dei Flagellanti che si diffuse rapidamente in tutt’Europa. Sfilavano, spesso denudati fino alla cintola ma con il viso coperto da un cappuccio, e attraversavano le città in processioni gigantesche mentre si martoriavano le carni con i flagelli, un po’ come fanno ancor oggi i musulmani sciiti dell’Iraq e dell’Iran durante la giornata dell’Ashura. Nel 1347 iniziò un biennio devastante per l’Europa perché una forte recrudescenza dell’epidemia di peste, la Morte Nera, uccise oltre un terzo dei suoi abitanti. Come se non bastasse terribili terremoti sconvolsero l’Italia, la Francia e l’Europa orientale. La gente cominciò a pensare che le fine del mondo fosse vicina e ripresero a sfilare i flagellanti, con le loro sanguinolente rappresentazioni, per espiare i peccati del secolo e preparare l’avvento della Parusia. A chi dare la colpa della crisi dei valori che li faceva oggetto del giudizio di Dio? Naturalmente agli ebrei. Così il movimento si macchiò di spaventosi pogrom soprattutto nell’Europa centrale. Nella sola Strasburgo ne furono trucidati 8000. Ed anche i cristiani sabbatari se la videro molto brutta.

Proviamo a delineare uno scenario futuro. Il sabato è il segno di una religiosità che preferisce rispondere a Dio anziché agli uomini. I sabatisti sono i ribelli, i perturbatori dell’ordine costituito, i corruttori dei costumi, gli untori o, semplicemente, la voce della coscienza. In un contesto escatologico, che viene descritto come devastante dalle profezie bibliche, di carestia, di disastro ambientale, di pestilenza, di disordini sociali, di conflitti sanguinosi tra i popoli, è richiesta l’uniformità. Il mondo cristiano verrà chiamato a serrare le fila e non ci sarà posto per i dissidenti. Dato che in realtà i cristiani sono divisi su tutto, quale migliore vessillo unificante della festività domenicale? Un segno visibile, tra l’altro, in cui è possibile contarsi. In tempo di fazioni la conta è fondamentale: per individuare i nemici, per valutare la propria forza, per inquadrare gli accoliti. E allora addosso ai sabatisti, non importa se giudei o eretici. È stagione di caccia grossa per debellare l’immoralità dal mondo cristiano minacciato da tanti nemici e prepararne la riscossa. Ma ecco che una notizia giunge dalla Giordania: in una caverna è stata riportata alla luce una cassetta di legno ricoperto d’oro. Ha un coperchio d’oro massiccio con su due cherubini stilizzati, sono raffigurati con le ali distese in atto d’adorazione, sono anch’essi d’oro massiccio. Il manufatto, lungo poco più d’un metro, sembra molto antico anche se in ottimo stato di conservazione. Con trepidazione gli esperti del museo di Amman, dove nel frattempo l’oggetto è stato trasferito, sollevano il coperchio. L’avvenimento è trasmesso in mondovisione e la gente è incollata ai teleschermi così come quando Armstrong poggiò il primo piede umano sulla luna. Il pesante coperchio viene sollevato delicatamente e poggiato accanto alla cassa. L’obiettivo della telecamera scruta l’interno che appare impolverato: è inevitabile dopo ventisei secoli di occultamento, perché quella è l’ARCA DEL PATTO, nascosta dal profeta Geremia. Ci sono degli oggetti all’interno. Un pennello rimuove la polvere ed ecco apparire una lastra, anzi due, sovrapposte, di pietra scura e lucida, sembra diorite, afferma uno dei presenti, una pietra molto dura, difficile da lavorare, opera forse degli egiziani aggregati al campo degli israeliti, perché quelle sono le TAVOLE DELLA LEGGE, intagliate da mani umane ma scritte con il dito di Dio. Infatti le tavole sono coperte d’iscrizioni; i caratteri sono piccoli ma nettissimi e ben leggibili. S’avvicina un esperto epigrafista. L’alfabeto è quello ebraico, afferma, ma molto antico, assai simile a quello fenicio. La prima tavola sembra suddivisa in quatto capoversi. Comincia a leggere. Quando arriva al quarto trova subito le tre lettere shin, bet, tav, le consonanti della parola SHaBaT, SABATO. Tutto secondo le attese (Chi s’aspetterebbe infatti di trovare DOMENICA, o primo giorno, o giorno del sole nei comandamenti di Dio?). Però è impressionate vedere quel “ricordati di consacrarmi il giorno di sabato” scritto direttamente dal dito di Dio, proprio in quel momento in cui gli osservatori del sabato sono accusati di ribellarsi alla sua volontà.

Questo contatto visivo con una pagina autografa del Creatore, l’unica concessa agli uomini ribelli e smarriti, è molto consolante. La sua legge morale è come un recinto che ci protegge dai nostri stessi abusi (oltre che da quelli altrui), mentre facciamo esperienza della libertà che è concessa agli esseri morali. Nel momento che la ribellione ha parzialmente cancellato questo codice dal nostro dna, allora ecco che esso ci viene fornito in forma scritta, come un libretto d’istruzioni per imparare ad usare la libertà che ci è comunque lasciata. Il Decalogo è l’edizione tradotta e adattata per l’umanità terrestre dell’eterna legge morale che regola l’universo. Il riposo sabatico è parte organica e inscindibile del Decalogo. Se teniamo presente questa realtà, allora ci si dischiudono ulteriori spunti di riflessione. Anzitutto, facciamoci caso, il quarto è l’unico comandamento che disciplina il tempo, e nel farlo ci ricorda una realtà fondamentale: che il contesto vitale donato all’uomo è un ambiente spazio-temporale. Infatti, nel suo discorso agli scafati Ateniesi, Paolo osservava che il Dio creatore, “per essi [gli uomini] ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio” (At 17,26). Ed ha fatto ancor di più che donar loro il tempo, lo ha anche regolato, stabilendo che su sette giorni il settimo fosse un tempo speciale. “Egli benedisse il settimo giorno e lo consacrò” (Gn 2,3). Sta proprio qui la distinzione di questo giorno sugli altri: nella sua natura benedetta e sacra che essendo, inoltre, stabilita nel contesto della creazione lo rende, a maggior ragione, parte indissolubile dell’ordine cosmico stabilito da Dio. Insomma, il sabato è stato creato per essere quello che è, e per esserlo in eterno finché esisterà il tempo, il quale è una componente essenziale dell’ambiente vitale delle sue creature. Finché esisteranno creature di Dio nell’universo, ci sarà sempre il tempo e ci sarà sempre il sabato. Così com’era prima che il male fosse, quando il male non ci sarà più il sabato continuerà ad esserci. Infatti “ogni mese al novilunio, e al sabato di ogni settimana, ognuno verrà a prostrarsi davanti a me, dice il Signore” (Is 66,23). La missione di Gesù non modificò questa realtà eterna. Egli si definì “Signore del sabato” (Mt 12,8) non Signore della domenica, e raccomandò alla Chiesa di pregare perché il disagio della sua fuga, nell’imminenza della distruzione di Gerusalemme, non avvenisse “d’inverno o in giorno di sabato” (Mt 24,20). Egli cioè raccomandò alla sua Chiesa di rispettare il sabato, non di rimpiazzarlo con un altro giorno. Tentare di modificare il giorno benedetto e santo è un disconoscere implicitamente l’autorità di Dio in quanto Creatore e Signore non solo dello spazio ma anche del tempo, è un ribellarsi all’Eterno e alla sua legge, tutta, in quanto “chi osserva tutta la legge, ma la trasgredisce in un punto solo, si rende colpevole su tutti i punti” (Gc 2,10). Ed è significativo il fatto che due importanti caratteristiche che aiutano a individuare il potere antagonista di Dio nei secoli finché il mondo durerà, sono le seguenti: “Penserà di mutare i tempi e la legge”(Dn 7,25) e “distruggerà i santi dell’Altissimo” (ibid.) poiché “essi mettono in pratica i comandamenti di Dio” (Ap 12,17). Non è questo il leitmotiv della storia che abbiamo appena raccontato?